Una modella di Victoria’s Secret (foto LaPresse)

La normalità della tetta

Fabiana Giacomotti

È finita l’èra del silicone e del reggiseno push up. Pure il celebre marchio Victoria’s Secret si arrende

Nel quadro di riferimento che stiamo per analizzare rientrano, temiamo con pari dignità agli occhi di molti, i seguenti fatti delle ultime ore: l’abolizione della sfilata di Victoria’s Secret, caposaldo dell’entertainment ormonale degli ultimi ventiquattro anni; la tendenza chirurgica alla rimozione degli impianti mammari posticci estremi in cambio di protesi contenute o, meglio ancora e se l’elasticità della pelle lo consente, di niente; l’insistenza delle major hollywoodiane e modaiole sui temi dell’inclusione etnica ed estetica, compresa l’assunzione di manager dedicati e molto ben pagati per garantirne l’applicazione nel marketing e nella pubblicità; la dissoluzione di Forza Italia o, per meglio dire, dell’immaginario che circonda Silvio Berlusconi, cioè belle donne in push up, lustrini, villone con discesa a mare e tutti i paraphernalia immobiliari, finanziari, televisivi legati al celeberrimo consiglio che gli diede mamma Rosa, in anni lontanissimi: “E ti esagera”.

 

Si è innescato il processo di dissoluzione del push up, totem di un’intera generazione e caposaldo delle vendite di lingerie per decenni

Nella più classica delle nemesi, l’ingrato ruolo di liquidatrice del partito è stato affidato alla parlamentare che, negli anni, da questo trionfo del posticcio più ha saputo staccarsi, e cioè la vicepresidente della Camera Mara Carfagna: una di cui, guarda caso, sui social ormai si dice solo che sia bravissima e, badate bene, “bella al naturale”. Siamo al tracollo totale dell’èra del silicone, cinghiale bianco di una generazione di volti deformati e di seni ipertrofici, pneumatici, ridicoli, affioranti sopra il reggiseno in un’autodenuncia plastica a forma di mezzaluna. Si è innescato il processo di dissoluzione del push up, totem di un’intera generazione e caposaldo delle vendite di lingerie per decenni: ora si può chiedere un reggiseno a triangolo senza che la commessa ci osservi dubbiosa all’altezza del cuore, proponendoci “almeno un ferrettino” di impalcatura. Suona il canone inverso alle letterine, alle letteronze, ai corpi pneumatici e alle labbra modello duckface che, l’avrete certamente notato, non usano più neanche su Instagram dove, invece, l’hashtag di moda questa estate è #nofilter.

 

Le influencer si fotografano struccate, con le rughette d’espressione lasciate lì dove si formano; nessuno, nelle scorse settimane, ha resistito alla tentazione di postare il proprio ritratto invecchiato per mezzo di FaceApp, un’applicazione che tutti avevamo scaricata di default da anni sullo smartphone. I chirurghi plastici hanno iniziato a incidere per togliere, assottigliare, escindere interventi precedenti, non senza lamentarsi, con piglio da maniscalco coscienzioso, di veder finire nel cestino dei rifiuti protesi da 5-6 mila euro l’una, quelle che al tatto sembrano tanto naturali e che, dicono, non lasciano tracce nemmeno se cremate con la loro proprietaria, vedi i vantaggi di averci pensato per tempo. Polvere alla polvere, e senza sorrisetti postumi. A leggere sui siti di queste multinazionali dell’imbottitura personale e a prova di rigetto, pare che le maxiprotesi rappresentino solo il 3 per cento delle richieste: residuali, come lo status di chi le richiede. “Finalmente quest’epoca sta prendendo in considerazione l’idea che ci si possa accettare per quello che si è. Con tutte le nostre cicatrici”, dice Béatrice Dalle, una che nel canone non ha mai saputo entrare a tempo, nell’intervista di copertina dell’ultimo numero di Vanity Fair France, dove sorride mettendo in mostra il profondo diastema che, oggi, è il segno di molte fra le modelle più richieste, come Adwoa Aboah. Winnie Harlow ha il corpo tatuato dalla vitiligine; Madeline Stuart, presenza costante sulle ultime passerelle di New York, è affetta da sindrome di down: di recente aveva dichiarato che le sarebbe piaciuto sfilare per Victoria’s Secret, si intende a scopi politici. Non ne avrà più modo, almeno per il momento: le vendite della multinazionale dell’intimo sono crollate, solo negli Stati Uniti sono stati chiusi 53 negozi nell’ultimo anno e, pur senza averlo ancora dichiarato ufficialmente, gli headquarter hanno deciso di sospendere lo spettacolo che, dal 1995, veniva trasmesso in prima serata sui network americani, portava in scena performer canori del livello di Lady Gaga e aveva contribuito a lanciare volti e corpi come quelli di Adriana Lima o Heidi Klum.

 

Nessuno indosserà più il “million dollar bra”, il reggiseno tempestato di pietre preziose che a ogni sfilata il temibile Ed Razek, direttore marketing della capogruppo di Victoria’s Secret, assegnava alla modella del momento quasi fosse stata la coccarda tricolore al miglior purosangue del concorso di salto a ostacoli del Gran Premio di Roma, e non stiamo usando un lessico di metafora. Da quando Razek, un paio di anni fa, dichiarò a Vogue America di non avere alcuna intenzione di includere modelle trans o plus size fra gli “angeli” di Victoria’s Secret, il brand ha iniziato a perdere progressivamente seguito, lasciando sul campo un centinaio di milioni di dollari a ogni anno fiscale e, quel che è peggio, il proprio capitale di immagine, l’asset “intangibile” più prezioso e difficile da recuperare: quella sfilata di corpi uniformi, belli secondo l’estetica Barbie di Mattel su cui si sono modellate due generazioni, ha smesso di sedurre l’immaginario; a qualunque latitudine lascia, invece, interdetti e un po’ imbarazzati, innescando gli stessi meccanismi di rifiuto che hanno colpito fatalmente manifestazioni come le parate circensi e i feno,meni da baraccone, di cui ormai resterà memoria solo nei dipinti di Goya e nello sguardo attonito del Gilles di Watteau. Diversità-tà-tà, e pour cause. Se pensate che Gucci abbia appena nominato una manager alla guida dei “progetti sull’equità e l’inclusione” solo per rispondere ai diktat di un politicamente corretto astratto ma incombente siete sulla cattiva strada, oppure siete rimasti agli anni in cui Oliviero Toscani fotografava gli “united colors” per fare notizia e come fa tuttora, cercando incessantemente la polemica e agitando i pugni in aria su un ring rimasto senza spettatori. Nessuno metterebbe a rischio fatturati e posti di lavoro su scala mondiale per inseguire le esigenze di un solo gruppo di interesse o di una lobby, pur potenti come quella che sostiene i diritti Lgbt o le istanze afro-americane.

 

Le vendite della multinazionale dell’intimo sono crollate, solo negli Stati Uniti sono stati chiusi 53 negozi nell’ultimo anno

Mentre da Londra giunge, anzi, notizia di scontri verbali fra attivisti delle minoranze sessuali e la comunità islamica – radicata nelle convinzioni veterotestamentarie al punto di aver fatto sua quella vecchia battuta su “Dio che ha creato Adamo ed Eva, non Adamo e Steve” – appare sempre più evidente quanto sia cambiato il sentiment generale, mondiale, nei confronti dei canoni estetici e della loro rilevanza. D’altronde, se anche da queste colonne stigmatizziamo ogni giorno il modello del pensiero unico, perché mai dovrebbe piacerci il modello di bellezza unico? L’uniformità, questa sì davvero inquietante, di una perfezione che è a sua volta distopica, modellata e modulata su canoni irreali, sulla proiezione di fantasie fumettistiche? Dunque, facce struccate nelle campagne di Prada, nelle immagini di Alberta Ferretti, modelle plus size da Dolce&Gabbana, il primo brand di lusso a vantarsi di vestire donne fino alla taglia 54 quando, fino a pochi anni fa, le stesse modelle di Victoria’s Secret apparivano eccessivamente in carne ai direttori casting della moda.

 

In queste settimane di lavorazione della mostra per la 71esima edizione per il Prix Italia, mentre mi baloccavo sulla rivisitazione in chiave surreale della prima satira al modello femminile berlusconiano che uscì dalle stanze della Rai, le Ragazze Coccodè di “Indietro Tutta”, colpo di genio di Renzo Arbore, ho ricevuto una telefonata molto sollecita da parte della costumista, Graziella Pera, che mi ricordava, casomai ce ne fosse bisogno, come l’intento di quei costumi e dell’intero impianto fosse parodistico, la struttura dei culetti modellata da un ottimo scultore e, avessi voluto verificare in Teche, le pettinature delle ragazze lasciate volutamente naturali, non pettinate o laccate, proprio per sottolineare lo spirito scherzoso dell’operazione. Una delle Coccodè, guarda caso, era perfino un uomo, a man in drag. La naturalezza che perseguiamo in questi mesi ha qualcosa di feroce, a partire dall’uso del bisturi con cui ci viene offerta.

 

I nuovi canoni di bellezza del Terzo millennio. Ma ci vorrà tempo perché cambi il linguaggio che accompagna il body shaming

Non è la prima volta che i codici della bellezza, l’estetica, cercano di inseguire la naturalità, più o meno presunta o reale, e anche in modo violento. Ben prima del decennio flower power, della leggenda dei reggiseni bruciati in piazza e della mancata depilazione, tuttora capisaldi della narrativa anti-femminista, già nel Seicento si assistette a una prima contro-rivoluzione all’uso delle criardes e ai posticci. E, come questa volta, per questioni politiche e scientifiche: attorno alla metà del XVII secolo, mentre saliva l’astro cartesiano, il parallelo “astro-biologico” non appariva più dominante: i pianeti non dominavano più l’anatomia, mettendo in contrapposizione parti “astrali” e terrestri del corpo che, all’improvviso, si naturalizzava, mettendosi in relazione con se stesso, al punto che perfino un periodico di miscellanea come il Mercure Galant poteva interrogarsi nel 1684 sui “principali segni dell’estetica fisica”.

 

Qual è la parte più bella del corpo, chiede una poesia di quell’anno? Il volto o la vita? Il fascino della fisionomia o l’attrazione del busto? Che il periodico desse una risposta tradizionale, privilegiando il volto perché “emana maggior fascino”, non è la questione principale. Come osserva Georges Vigarello in un saggio sul tema, il vero cambiamento risiede nel principio di comparazione: il volto primeggia non per la sua vicinanza con le sfere, per la prossimità con gli astri e con gli angeli, bensì per la sua identità con lo spirituale, quella dell’anima e dell’interiorità, cioè con il proprio essere più profondo, secondo quanto suggeriva anche Saint Simon quando accumula gli aggettivi per definire, a seconda dei casi, un viso “attraente”, “audace”, interessante”; il volto come espressione esclusiva di “movimenti interni”, come espressione provenienti dall’anima. Madeleine de Scudéry, la famosa Mademoiselle, ne evocava i caratteri nella descrizione della bellezza di Cléomine nel suo romanzo Clélia, histoire romaine: “Solo guardandola si vede che tutte le sue passioni sono sottomesse alla ragione”. L’aspetto diventa una conseguenza dell’intelletto, la bellezza sussidiaria all’espressione dello spirito. Che non significa inesistente: significa non unica, e soprattutto, diversa per ciascuno.

 

Già nel 1684 Mercure Galant si interrogava sui “principali segni dell’estetica fisica”. Qual è la parte più bella del corpo?

I trattati di bellezza del Seicento virano, all’improvviso, su nuovi oggetti o, meglio, soggetti di ammirazione: si pone l’accento sulla bellezza “animata”, dotata di “fascino e vivacità”, e una “inanimata”, limitata alle forme. Ne derivano categorie più sottili, che considerano infinite, differenti bellezze a seconda del carattere e dello spirito di ognuno: nel suo “Le mérite des dames”, Antoine de Saint Gabriel elenca la “conquistatrice”, la “briosa”, la “malinconica”, la “seria”. Di certo, questo affastellamento di aggettivi azzardati e immaginifici è un gioco letterario, secondo la moda dei Salons: eppure, indicano l’esistenza di nuovi princìpi di estetizzazione dell’aspetto, secondo criteri personali e infiniti modelli diversi, tutti interessanti. Come sappiamo, a quello e al secolo di tutte le libertà di pensiero, il Settecento, seguì la lunga e triste normalizzazione e categorizzazione dell’Ottocento, lo stringere, costringere, soffocare del corsetto, la negazione del movimento impressa dai cerchi, la divisa dell’abito maschile scuro, il primo dei tanti modelli unici che ci hanno portato fino a oggi. Eppure, come in quel Seicento che si scopriva antipiattista e prospettico, anche questo scorcio confuso di Terzo Millennio, questo affastellarsi di credo diversi, questa mancanza di un pensiero unico e dominante per via delle tante culture che concorrono alla definizione dei gusti e dei movimenti economici, sta portando alla disgregazione dell’unico modello di bellezza che credevamo possibile e, soprattutto, alla ricerca dell’artificio per ottenerlo. Resteranno, certamente, quei codici dell’armonia che vogliamo definire innati, e che ci fanno guardare con maggiore tenerezza e interesse a certe caratteristiche, ad alcuni tratti fisici specifici; ci vorrà tempo perché cambi il linguaggio che accompagna il body shaming, la pratica dell’insulto contro l’aspetto fisico. Ma l’altro ieri sera, per la prima di “Dolcissime”, il film di Francesco Ghiaccio sulle angosce di un’adolescenza fuori dai canoni della pneumaticità posticcia, sceneggiato da Marco d’Amore di Gomorra, la sala dello Space cinema di Roma era affollata di ragazzine dallo sguardo felice.

Di più su questi argomenti: