Nicola Zingaretti e Carlo Calenda (foto LaPresse)

Tra Renzi e Di Maio

Ecco Calenda e Zingaretti, poli opposti del Pd post débâcle

Salvatore Merlo

Il ministro prende la tessera. Il governatore lancia la “rigenerazione”. S’avanza l’idea di un referendum : governare con il M5s, o no?

Roma. E tanto l’uno scalcia e parla sin troppo chiaro, quanto l’altro invece sa essere un’eterna deriva tra l’indiretto e l’allusivo. Dunque l’uno esplode come un petardo e interpreta la vita come un cimento, mentre l’altro lo chiamano “il gatto”, non a caso, perché è silenzioso, felpato, ma poi all’improvviso – oplà – salta in cima e non te ne accorgi nemmeno: come c’è arrivato lì? Così il ministro dello Sviluppo dice che “non faremo mai un governo con i 5 stelle”, mentre il presidente della regione Lazio, avvicinato dai giornalisti, non risponde alla domanda, sorride e cambia discorso. Mai dire mai. Emergono così, insieme eppure distanti, in una giornata di passione, i due astri del dopo Renzi: Carlo Calenda e Nicola Zingaretti, l’alfa e l’omega della sinistra malconcia, poli opposti di un cosmo che cerca unorizzonte. E infatti nello stesso giorno, mentre Calenda si iscrive al Pd e s’inserisce nello psicodramma, Zingaretti – appena rieletto – offre la suggestione di una “rigenerazione”, la rinascita “ma collegiale” di un Pd ridotto ai minimi termini, il partito che si contorce, mentre qualcuno vorrebbe sostenere un governo di Luigi Di Maio e qualche altro già lavora al congresso.

 

Due nomi ci sono già, Calenda e Zingaretti, appunto. Uno renziano nei modi e negli obiettivi (ma non nel pedigree: è romano dei parioli), manager funzionalista convinto di dover far concorrenza a quella destra liberale che non ha più spazio nel mondo dominato da Matteo Salvini, e l’altro che invece maneggia l’universo politico e sentimentale dei suoi maestri, Bettini e Veltroni: “centrosinistra”, “partito del noi e non dell’io”, vecchia scuola diessina romana, l’uomo che nel Lazio ha vinto alleandosi con la sinistra di Pier Luigi Bersani. E allora eccoli, Calenda e Zingaretti, il riformismo liberale, da un lato, e l’ulivismo prodiano dall’altro. Nascono così, in uno strano giorno di marzo, i dioscuri del Pd cadente, mentre Renzi, il segretario sconfitto che un po’ si dimette ma pure non molla, va a sciare e manda tutti al diavolo. E chi ci capisce nulla? Arrivano in una fase che più confusa non sarebbe possibile, Calenda e Zingaretti. Proprio quando Michele Emiliano e Sergio Chiamparino ammiccano al M5s e ricevono sommessi applausi da una pletora di peones che teme le elezioni anticipate. E mentre la minoranza di Andrea Orlando pensa a una reggenza collegiale del partito, a una cabina di regia per gestire la transizione e costringere Renzi ad andarsene sul serio. Nei corridoi avanza pure l’idea di proporre un referendum agli iscritti del Pd, qualora Mattarella lo chiedesse: volete voi che il partito appoggi un governo a guida Di Maio? “Non lo faremo mai”, dice Calenda. Rimane muto invece Zingaretti. Come un gatto, pronto al balzo.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.