Una veglia di commemorazione delle vittime dell'attacco in Texas (foto LaPresse)

Il dibattito americano sulle inutili orazioni dopo una strage

La preghiera come atto politico

Dopo la strage nella chiesa battista del Texas, lo speaker della Camera, Paul Ryan, ha scritto che le vittime e le loro famiglie hanno “bisogno delle nostre preghiere”. La deputata democratica Pramila Jayapal non ci ha più visto: “Non hanno bisogno delle nostre preghiere. Hanno bisogno che affrontiamo la crisi della violenza da arma da fuoco e approviamo le leggi del caso”. E’ stata soltanto una delle reazioni indignate alla formula ritualizzata dei thoughts and prayers che domina la scena americana ogni volta che riaffiora il massacro, specialmente quello in cui il movente non è immediatamente riconoscibile. Il caso di Sutherland Springs, che i giornali hanno definito “la peggiore strage in chiesa della storia americana recente”, scelta che denuncia l’esistenza della categoria “stragi in chiesa”, ha sottolineato la presunta distanza fra la dimensione della preghiera e quella dell’azione politica. La prima è un esercizio di pietà buono e inutile, la seconda è quella che comunemente chiamiamo realtà. La contestazione ai richiami alla preghiera è stata talmente zelante che molti sono intervenuti in difesa della preghiera, mostrando un fossato fra il paese secolarizzato e quello religioso che viene meno citato delle disuguaglianze economiche nelle analisi sociologiche. Ryan ha detto: “Dobbiamo forse dire che la gente che non ha fede non capisce la fede, ma la cosa giusta da fare in momenti come questi è pregare. E sai perché? Perché la preghiera funziona”. Sulla National Review David French ha scritto che pregare “è la cosa più razionale da fare di fronte a una strage”, e ha svolto il ragionamento: “Dio è sovrano, e ogni dono buono e giusto viene da Lui. Questo include il cambiamento dei cuori. Include il conforto che solo Lui può dare”. Una posizione esecrabile per la sinistra secolarista che chiede nuove misure sul gun control, esibendo una sconfinata fede in una legge che, anche se attuata, non farebbe sparire di colpo i 300 milioni di armi da fuoco che circolano negli Stati Uniti. Ma qui si tratta di uno scontro fra concezioni, una disputa fra l’uomo-creatura e l’uomo-creatore di sistemi talmente perfetti che non ci sarà nemmeno più bisogno di essere buoni, come scriveva T. S. Eliot. Il commentatore di sinistra Peter Beinart si è staccato dal coro che chiede più azione e meno orazione per ricordare che in tutte le grandi tradizioni religiose, la preghiera è la vera sorgente dell’azione, tanto che il rabbino Abraham Joshua Heschel parlava della preghiera come “priva di significato se non è sovversiva”. Ambiti che ora sembrano radicalmente separati erano uniti in una radice comune per molti leader religiosi impegnati nella società, da Gandhi a Martin Luther King. Padre Jean Daniélou parlava dell’orazione come atto politico, concetto ripreso anche da Giorgio La Pira, che smontava così la falsa dicotomia fra azione e contemplazione: “Il vero politico, cioè colui che sa cogliere il movimento profondo della storia, non può disinteressarsi della preghiera, perché essa mette in moto e purifica le energie profonde che influiscono nella storia”.

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