Accumulare, condividere, eliminare. Lo scontro fra potere tecnologico e stato mascherato da etica hacker

New York. “Accumulare e condividere” è il “raggiungere e superare” di questi tempi tecnocratici. Accumulare significa profilare, rivendere, monetizzare. Condividere significa sentirsi meno soli, ma anche paragonarsi e mettersi in competizione, antiche pulsioni umane che hanno il vantaggio di giustificare l’accumulo. L’uomo era cacciatore-raccoglitore, ora è accumulatore-condivisore, sgrammaticature permettendo, e su questa forma antropologica la Silicon Valley ci ha costruito il modello di business che sappiamo. Feuerbach direbbe: l’uomo è ciò che preferisce, dunque l’attrazione, l’abitudine e l’analisi dei flussi di comportamento sono le componenti essenziali, e invero uniche, della sua realizzazione. L’industria tecnologica s’è affannata per accumulare dati e sempre più dati, per capire meglio le preferenze – cioè l’essenza – dell’uomo, e non di un uomo generico o categorizzato ma di uno specifico e irripetibile io che con entusiasmo condivide informazioni con uno specifico e irripetibile tu. L’accumulo, si capisce, è tutto. Poi, però, è arrivata la disputa fra Apple e l’Fbi intorno all’iPhone dei terroristi di San Bernardino.

 

Gli agenti federali volevano mettere le mani sui dati chiusi nella cassaforte digitale di Apple nel nome della sicurezza nazionale, l’azienda ha resistito in nome della riservatezza e di un giustificato senso che, una volta aperta la “backdoor” per fare entrare le autorità, richiuderla sarebbe stato molto difficile. L’Fbi ha aggirato il problema assoldando hacker indipendenti che hanno fatto il lavoro sporco, ma nella comunità tecnologica il caso ha fatto una certa impressione, perché segna l’inizio di una più decisa spinta dello stato per l’acquisizione dei dati. Così aziende come Envoy, che produce sistemi per la registrazione di prenotazioni, ad esempio nei ristoranti, si sono messe a lavorare per cancellare i dati, per eliminare le tracce nel caso qualcuno li esiga, anche se per ottime ragioni di sicurezza nazionale. L’amministratore delegato, Larry Gadea, ha detto al Washington Post: “Vogliamo tenere meno informazioni possibile, così se lo stato o altre entità vogliono avere accesso, noi siamo in grado di dire che non le abbiamo”. A essere pignoli si potrebbe dire che equivale a sbarazzarsi della refurtiva, ma ci sono perfino implicazioni più profonde, a sentire i protagonisti del settore tech che corrono verso l’eliminazione dei dati. La questione è il rapporto fra informazione e potere.

 

La cultura della Silicon Valley è nata sotto gli auspici dell’etica dell’hacker, l’aggressore che penetra nel sistema e ne svela gli indicibili segreti; poi la Silicon Valley è a sua volta diventata un sistema, e il tentativo dei tecnici dell’Fbi di violare un iPhone ha sancito in maniera definitiva l’inversione dei ruoli. Marc Andreessen, attore onnipresente sulla scena tecnologica, segnala un revival dell’etica antisistema: “Gli ingegneri non sono intrinsecamente contro il governo, ma stanno diventando sempre più radicalizzati”. Si può vedere questa tensione come il tentativo di un consorzio libertario di resistere al controllo pervasivo dello stato, oppure la si può leggere come lo scontro finale per determinare chi e a quali condizioni può accumulare e condividere, le attività umane essenziali. Uno scontro in cui le due parti si somigliano incredibilmente, affratellate come sono nella vecchia disputa per il potere.

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