
La solitudine uccide quanto il fumo, quindi conviene accettare subito la sigaretta di Pavese
La solitudine uccide quanto il fumo e l’alcol è un’ottima marmellata per farcire titoli semidolci e articoli pigri basati sul paradosso dell’isolamento nell’epoca della condivisione totale. Lo studio da cui il titolo parte introduce però una faccenda più seria di quelle che la semplificazione titolistica è in grado di restituire. L’autrice, Julianne Holt-Lunstad, psicologa della Brigham Young University, tende a dimostrare l’incidenza della solitudine sulla mortalità: chi vive solo, chi non ha amici è più esposto alle malattie, sviluppa sistemi immunitari più flaccidi, guarisce più lentamente. Nemmeno quelli che seguono la dieta a base di cavolo nero con cui Michelle Obama e Beyoncé vogliono salvare il mondo riesce a bilanciare gli effetti nefasti della solitudine. L’uomo non è l’ortaggio biologico che mangia. Ma cosa significa essere soli, non avere amici? Chi cade nella categoria delle persone sole? Holt-Lunstad rifiuta l’approccio quantitativo: “Mentre l’isolamento sociale può essere una variabile quantificabile in modo oggettivo, la solitudine è uno stato emotivo soggettivo. La solitudine è la percezione dell’isolamento sociale, o l’esperienza soggettiva dell’essere soli, e perciò coinvolge necessariamente una misura soggettiva”. Si può essere soli anche in mezzo alla folla o condividendo i fatti propri con migliaia di follower, come sa bene chiunque si sia trovato a sperimentare l’acuta solitudine di certe feste. Non è un caso se negli eventi sociali la fotocamera dello smartphone finisce per rivolgersi molto spesso sull’unico oggetto interessante a disposizione, se stessi. Non sono soli soltanto quelli che giocano a bowling senza compagni, secondo l’immagine che il sociologo Robert Putnam ha usato in uno degli studi fondamentali sull’atomizzazione della società americana, ma possono esserlo anche quelli che fanno parte di una squadra e della tribù dei giocatori di bowling.
Tommaso D’Aquino dice che la benevolenza (“quando amiamo una persona in modo da desiderarle qualche bene”) è condizione necessaria dell’amicizia, e tuttavia non è sufficiente: “Ma la stessa benevolenza non basta a darci il concetto di amicizia: si richiede, in più, che, fra i due amici, vi sia una certa reciprocità o amore scambievole, giacché l’amico è amico di colui che è suo amico. Questa benevolenza reciproca si basa su una certa comunicazione di beni”. Quella “certa comunicazione di beni” è la chiave del passaggio dell’Aquinate, perché introduce l’idea di un contenuto, un bene non riducibile agli addendi dell’amicizia che dà senso e respiro alla benevolenza reciproca. E’ quel bene che “ciascun confusamente apprende” di cui parla Dante nel Purgatorio, e la cui mancanza, dice lo studio della psicologa americana, influenza non soltanto il nostro stato mentale ma anche quello fisico, fino a tracciare una connessione fra il deterioramento della capacità relazionale e l’incidenza di certe patologie. Per questo, sostiene il team di ricercatori guidato da Holt-Lunstad, la solitudine dovrebbe essere annoverata nei programmi di salute pubblica, trattata come l’obesità o il diabete, lo stato dovrebbe promuovere programmi per combatterla o limitarla. Ma se si tratta di uno stato non oggettivamente quantificabile, che prescinde dalle interazioni, dagli share e dai like, nemmeno i più avanzati ingegneri della salute pubblica o i promotori del “nudge”, la spintarella verso comportamenti virtuosi, potrebbero trovare un rimedio efficace. Un piano collettivo per risolvere un problema soggettivo non sembra un’idea fulminante. Si tratta piuttosto di ricercare quella “certa comunicazione di beni” che dà senso allo stare insieme. Cesare Pavese lo chiamava “destino”: “Da uno che non è disposto a condividere con te il destino non dovresti accettare nemmeno una sigaretta”. Da chi è disposto a condividere il destino conviene invece accettare una sigaretta, anche se non fumate: fa meno male della solitudine alla quale ci si condanna rifiutando.


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