Farang. il termine thai per straniero. Da amichevole e "simpatico", sempre più spesso usato nella sua accezione negativa.

Sporco Straniero

Massimo Morello

Un’espressione che gli occidentali non erano abituati a sentirsi rivolgere. Ma in tempi di pandemia in un mondo globalizzato tutto è possibile per tutti. Le identità si confondono, si moltiplicano, si mascherano. Mentre bisognerebbe comprendere, accettare  e accettarsi.

“Immergiti in un altrove che rifletta un’immagine rovesciata di te stesso”. Per Bob Shacochis, anticonvenzionale giornalista e scrittore, è la condizione essenziale per definirsi un expat, un espatriato. 
La Thailandia è uno specchio perfetto di questo altrove: agli occhi dei thai, resteremo sempre stranieri, “farang”. Il termine può essere spregiativo o amichevole, dipende dal contesto, ma è quasi sempre neutro. E’ la definizione di una diversità rispetto al “khon thai”, il popolo thai. Il farang è escluso dalla “khwampenthai”, la thailandesità, che accomuna tutti come il gusto per il som tam, l’insalata di papaya verde.
Chi ha usato e reiterato il termine farang nella sua accezione sprezzante è Anutin Charnvirakul, ministro della salute pubblica thailandese, erede di una fortuna miliardaria che ha deciso di dedicarsi alla politica militando in diversi partiti e giocando con disinvoltura il ruolo di ago della bilancia nella formazione del governo. “Molti farang indossano vestiti sporchi e non si lavano” ha postato su twitter (post poi cancellati) avvertendo che proprio i farang potevano essere gli untori del Covid-19. In un’altra occasione lo stesso ministro aveva accusato i farang di non usare le mascherine di protezione dichiarando che andavano cacciati dal paese. In quel caso e non solo, per rendere più chiaro il suo pensiero, Khun, il Signor, Anutin aveva usato l’espressione “ai farang”, dove “ai” è un suffisso popolarmente usato per dare un senso denigratorio al termine che segue.
Altra interessante osservazione semantico-culturale è che, per quanto il termine farang sia sempre stato usato per gli stranieri occidentali (sembra derivi da farangset, modo thai di pronunciare la parola français, francese: nel XVII secolo la Francia fu una delle prime nazioni europee a stabilire relazioni con la Thailandia e così per i thai “uomo bianco” e francese divennero sinonimi), negli ultimi tempi serve a rimarcare una differenza tra “Asiatici” e “Occidentali”. Probabilmente perché si è sempre più diffuso il concetto di globalizzazione asiatica, di un secolo asiatico.  
In Thailandia, poi, l’asiatizzazione coincide con una crescente sinizzazione. L’economia (e il governo) sempre più dipende dal grande vicino: nel settore turistico (lo scorso anno 28% del totale degli arrivi era cinese), immobiliare, delle infrastrutture, delle piccole e medie imprese.
Infine, nel caso del ministro Anutin, che ha continuato a rimarcare che si dovesse “stare molto più attenti ai farang piuttosto che agli asiatici”, è lecito pensare che sia influenzato tanto dalla sua origine familiare quanto dalla società di famiglia, entrambe sino-thai.   
Bisogna ammettere che alcuni farang giustificano il giudizio più severo. E’ il caso, ad esempio dei “begpackers”, ossia i backbackpackers che chiedono l’elemosina (begging) per proseguire il loro viaggio lungo le vie dell’Asia. In italiano li potremmo definire “saccopelisti mendicanti”. Sono sempre più numerosi e sempre più disgustano i locali, che non riescono a comprendere come e perché si chieda denaro non per sopravvivere bensì per divertirsi. Gran parte della popolazione dell’Asia vive sotto la soglia della povertà (in Thailandia quasi il 10% degli abitanti) e considera il viaggiatore occidentale come un benedetto dal karma che in questo modo dimostra di non meritare tale destino.
Il karma diviene una vera e propria nemesi – la dea greca della giustizia secondo molti cultori dell’esoterismo è paragonabile al cattivo karma – per tutti quegli expat che consideravano la Thailandia una sorta di parco giochi (specie sessuale) o per tutti gli occidentali (espatriati e non) che si ostinano a considerare gli asiatici quali  selvaggi mangiatori di topi. In questo caso il ministro Anutin Charnvirakul incarna il contrappasso asiatico di molti politici occidentali.
In Asia, invece, non sembra esistere il corrispettivo umano dell’Occidentale relativista. Gli asiatici, infatti, contestano i valori occidentali (o autodefiniti universali) in nome di una pretesa superiorità morale che deriverebbe proprio dal mantenere immutati i propri valori. Al contrario, secondo questa logica (che sembra negare il principio di non contraddizione), molti espatriati occidentali in Asia tendono a risolvere la diversità cercando l’inclusione, dimenticando o rinunciando alla propria identità ed eredità culturale. Un atteggiamento che era stato rilevato da Carl Gustav Jung. Pur vicino al pensiero orientale, ammoniva, con terapeutica preoccupazione, che “costruire ponti falsi e illusori sopra abissi vaneggianti è cosa inutile”.

Un Sak Yant, un tatuaggio magico protettivo dai mali.


La pandemia del Coronavirus sta amplificando gli scontri culturali, fa emergere e manifesta gli archetipi in modo anche estremo. «Dobbiamo usare ogni mezzo a nostra disposizione, scientifico e sovrannaturale» ha detto Thepthai Senpong, parlamentare thai, commentando la decisione di una pubblica preghiera, la Rattanasoot -  si narra sia stata scritta da Ananda, uno dei primi discepoli del Buddha - per proteggersi dalle epidemie, dagli attacchi dei demoni e dalla carestia. Per chiedere agli spiriti della terra, dell’aria di avere pietà degli umani, la cerimonia della Rattanasoot sarà trasmesso in diretta televisiva (dalle 16 del 25 marzo) da molti templi del Regno. Ma potrà essere seguita anche dal vivo. «I templi non devono essere chiusi perché sono fondamentali come centro di supporto emotivo in tempi difficili».

Una cerimonia di preghiera collettiva (da Khaosod English)

 
Per i farang, gli espatriati, il Covid-19 diviene un demone che mette a nudo le loro incertezze e i loro dubbi, mette in crisi la loro identità, manda in corto circuito le già fragili connessioni tra i mondi in cui si dividono, fa collassare i ponti falsi o illusori sopra abissi sempre più vaneggianti. In questo momento invece bisognerebbe prendere atto degli equivoci culturali, riconnetterci alla nostra eredità culturale, valutare l’altrove senza pregiudizio ma anche senza infatuazione.
“Per affrontare in modo positivo le pressioni interne o esterne è necessario un processo di cambiamento selettivo, e questo vale tanto per le nazioni quanto per gli individui. La parola chiave è dunque ‘selettivo’” scrive Jared Diamond nel nuovo saggio  Crisi. Come rinascono le nazioni, in cui aggiunge la dimensione psicologica al suo complesso approccio multidisciplinare. “Individui e nazioni devono innanzitutto valutare onestamente le proprie capacità e i propri valori: decidere quali parti di sé restano adeguate anche nella nuova realtà e sforzarsi coraggiosamente di riconoscere ciò che invece va cambiato. L’obiettivo è individuare nuove soluzioni in armonia con le capacità e le caratteristiche di ciascuno. Al tempo stesso è necessario tracciare un confine intorno agli elementi fondanti della propria identità, che in quanto tali non si ritengono modificabili”.
E’ una lezione che, in questo momento di crisi, mette al centro noi stessi e trova un “illuminante” corrispettivo in un editoriale del giornalista thai Pravit Rojanaphruk. “Dobbiamo essere gentili, responsabili e calmi, non egoisti ed isterici. La sopravvivenza di qualsiasi società dipende dall'avere più persone altruiste di quelle egoiste…Il governo può deluderci, ma non perdiamo fiducia in noi stessi e nella nostra società. Dimostriamo che la gentilezza e la calma possono e devono prevalere anche in momenti di grande confusione, paura e isteria”.

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