Ci vediamo a Khaosan Road

Massimo Morello

Splendori e miserie, sogni e incubi della via che è l’immagine matrice dei viaggiatori alla ricerca di un mito o del tempo perduto

«Dov’è che state?». Quando faccio questa domanda agli amici che passano per Bangkok, molto spesso la risposta è quella che temevo.
«Khaosan Road».
Quella via segna il centro di Banglampu, uno dei quartieri più antichi di Bangkok, dove vivevano gli artisti di corte. Negli anni ’60 e ‘70 i suoi alloggi a basso costo accolsero i vagabondi sulle vie dell’Asia descritta da Pico Iyer in C’era una volta l’Oriente.
Nacque così il mito di Khaosan che ancor oggi mantiene il suo potere d’attrazione. Per i più anziani è la destinazione di una recherche, dove il profumo della madeleine è sostituito dall’odore della papaya salad. Per i giovani, che hanno poco o nulla dei loro padri o nonni, se non la volontà di perdersi in un qualche altrove, è lo scenario di avventure come quelle del romanzo di Alex Garland The Beach e del film interpretato da Leonardo di Caprio che ne è stato tratto.


Tutte queste suggestioni sono tanto forti da superare la confusione, la sua stessa trasformazione in ghetto turistico, hub di un network per viaggiatori (come amano definirsi) disteso dal sud dell’India a Bali, un non-luogo che potrebbe trovarsi in un punto indeterminato dell’Asia. Un teatro dell’orientalismo tanto lontano dalla realtà quanto dal centro di Bangkok.
È per questo che sono affetto da una forma di idiosincrasia nei confronti di quella zona. Ma se non ritengo particolarmente interessante (né tantomeno comodo) risiederci, credo che una visita a Banglampu sia utile. Perché è un laboratorio antropologico di ciò che l’antropologo Marc Augé definisce “surmodernità” ovvero “l’effetto combinato di un’accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini”.
«Quello che cerchi, alla fine, non è un luogo in sé, bensì la possibile rappresentazione di un tuo immaginario. Più ci si allontana e più si viaggia di meno. S’inseguono quelle immagini e quelle parole che hanno costruito il fascino di un luogo. Questo è il desiderio del viaggio: toccare l’immagine matrice» mi ha detto lo stesso Augé.
L’immagine matrice, però, non è particolarmente apprezzata dal governo thailandese, che sta tentando di ridisegnarla, renderla sempre più adeguata ai canoni della “Nuova Asia”. È per questo, ad esempio, che la Bangkok Metropolitan Administration ha lanciato la campagna “restituite i marciapiedi ai pedoni”, che si traduce nella proibizione di banchetti e bancarelle che sono uno degli elementi del paesaggio di Bangkok. Specie a Banglampu. Iniziativa che ha trovato la ferma opposizione della Khaosan Street Vendors Association. «Vogliono rendere Bangkok come Singapore. Noi vogliamo che Khaosan rimanga la stessa. È per questo che la gente viene qui» ha detto Yada Pornpetrumpa, rappresentante dell’Associazione. Ed è per questo, per il suo potere d’attrazione turistica, che Khaosan potrebbe resistere alla singaporizzazione.
Paradossalmente, il rischio maggiore per il santuario dei backpackers è proprio il suo potere   evocativo. Negli ultimi anni, infatti, Banglampoo è divenuto di moda anche tra gli espatriati, i giovani della borghesia thai, gli studenti della vicina Thammasat University, i bobo che frequentano l’Adhere Blues Bar.

E così sono sempre più numerosi gli “alberghetti” che si trasformano in boutique hotel, e i venditori di street food che guadagnano l’apprezzamento dei gastronauti. Come Jay Fai, che ha conquistato una stella Michelin.

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