Un bastimento carico di storie

Massimo Morello

La nave fantasma abbandonata al largo delle coste birmane potrebbe essere lo scenario o l’inquietante protagonista delle infinite, oscure storie che si intrecciano tra i mari, i fronti dei porti e le coste di tenebra del Sud-est Asiatico

“Tutte le stelle lassù, nella chiara notte bengalese, tracciano la loro lenta traiettoria immutabile. Il tempo è come una dolce materia trattenuta in mezzo al dialogo. Si parla di navigazioni, di avventure nei porti clandestini, di carichi preziosi, di morti infami e di grandi carestie. Il solito”. Così scrive Alvaro Mutis in una delle sue storie.
La nostra storia si svolge dove inizia quella di Mutis. Il solito, appunto: nel Golfo del Bengala, aperto tra Thailandia, Birmania, Bangladesh e l’indiano Bengala Occidentale. In quelle acque, circa un mese fa, dei pescatori birmani hanno scoperto una nave portacontainer, malridotta, vuota e deserta, mezza arenata sulla costa della regione di Yangon. Quella zona, tra isole e lingue di sabbia che appaiono e scompaiono con le maree, foreste che si spingono in mare, mangrovie e banchi di fango, da migliaia d’anni è un santuario di miti e leggende. Inevitabile, dunque, che quella nave divenisse subito un inquietante vascello fantasma popolato da spiriti in cerca di vendetta. Ma, come spesso accade, questa nuova leggenda è ben presto scomparsa, come le isole con la marea. Il mistero è stato risolto dopo una rapida indagine delle autorità locali. La nave, la Sam Ratulangi PB 1600, una portacontainer battente bandiera indonesiana costruita nel 2001 lunga 117 metri e 18217 tonnellate di stazza lorda, era andata alla deriva dopo che, durante una tempesta, si erano rotti i cavi di traino di un rimorchiatore che la stava trasportando a un cantiere di demolizioni navali di Chittagong, in Bangladesh.


Svanisce la tentazione di una storia magica tra mare e giungla, dove potrebbe annidarsi un equipaggio di zombi, ma la vicendadella Sam Ratulangi non può finire così. Perché il vero mistero si cela nei nove anni che precedono la sua riapparizione sul litorale della regione di Yangon. La sua l’ultima posizione registrata dal MarineTraffic (che fornisce informazioni sulle navi e i loro spostamenti) risale al 2009, quando fu segnalata nel Mar Cinese Meridionale, al largo della costa occidentale di Taiwan.
Da allora, quella della Sam Ratualangi può essere stata una delle tante trame che si ripetono nei romanzi di Conrad o Mutis come nelle cronache delle gazzette marittime. Storie di navi abbandonate, di uomini che lavorano come schiavi, di pirati, trafficanti e rifugiati. Di tramp steamer, le carrette dei mari, e di equipaggi alla deriva con esse. Il solito, direbbe Mutis.


La Sam Ratualangi potrebbe essere stata una di quelle navi che, secondo il Piracy Reporting Centre di Kuala Lumpur, trafficano nell’immenso tratto di mare tra la Malesia e il Borneo, occultandosi tra porti sperduti o anse fluviali. Oppure potrebbe essere una di quelle utilizzate dalla Corea del Nord per trasportare merci sottoposte a embargo. Ipotesi forse un po’ troppo romanzesche. Più probabilmente era una di quelle navi che continuano a battere le acque del Sud-est asiatico mentre un armatore fantasma attende un qualsiasi carico e mentre l’equipaggio, abbandonato a se stesso, cerca di sopravvivere pescando qualcosa. Il solito.
Navi destinate alla stessa, triste sorte: vendute al “mattatoio delle navi”, i cantieri di demolizioni navali di Chittagong.

Là, oltre la linea segnata dalla bassa marea sono allineate decine di navi di ogni tipo e stazza, posate sui bassi fondali, le ancore in bando. Alcune sono già sezionate, tagliate a compartimenti. Tra i pezzi formicolano uomini ormai indistinguibili dall’ambiente che li circonda. Ci sono anche ragazzi, alcuni poco più che bambini. Ma qui l’alternativa può essere molto peggiore. Le regole morali si disintegrano e trasformano come le navi.