Spie, fantasmi e tristi narratori

Massimo Morello

Un documentario dovrebbe raccontare l’ultima verità Jim Thompson, ex agente segreto divenuto il “re della seta thai”, misteriosamente scomparso cinquant’anni fa nella giungla malese. Ma è soprattutto un pretesto per riflettere su storie segrete e condizione umana.

«Il tuo lavoro è dire le cose in modo corretto. Il mio di trasformarle in buone storie» disse John Le Carré a David Greenway del “Washington Post” quando s’incontrarono in Cambogia nel 1974 (l’episodio è narrato in Tiro al piccione. Storie della mia vita).

«La maggior parte dei farang, gli stranieri, che vivono qui sono personaggi in cerca di una nuova storia. Il fascino della Thailandia è che dà la possibilità di inventarsi una trama» mi disse Bill Warren, ex giornalista, creatore di giadini, autore di dozzine libri sull’arte thai e asiatica. Lo avevo incontrato nel suo giardino per parlare del suo vecchio amico Jim Thompson, personaggio principe di molte delle storie che hanno reso il Sud-est asiatico uno scenario romanzesco. Per qualcuno Thompson era l’incarnazione simbiotica di Thomas Fowler e Alden Pyle, i due protagonisti di Un americano tranquillo di Graham Greene. Per Joshua Kurlantzick esperto di Sud-est asiatico del Council on Foreign Relations, Thompson è The Ideal Man, attento alle alle sfumature nel sorriso di un Buddha quanto agli intrighi.

La storia di Jim Thompson - del suo passato da agente dell’Oss, l’Office of Strategic Services che avrebbe generato la Cia, delle sue fortune come “Re della seta thai”, della sua casa in cui si ritrovavano capolavori dell’arte asiatica, attori, scrittori, spie, e celebrità di passaggio a Bangkok, ma soprattutto della sua misteriosa scomparsa nella giungla malese - per l’ennesima volta è tornata alla ribalta con il film “Who Killed Jim Thompson the Thai Silk King?”, presentato in ottobre all’ Eugene International Film Festival (non esattamente Sundance) e poi al Foreign Correspondent Club di Bangkok (dove credo abbia attirato un pubblico più numeroso ma perplesso).

Sulla scomparsa di Thompson, il giorno di Pasqua del 1967, sono state composte mille trame, alcune molto fantasiose (raccontate anche in un articolo del Foglio di fine 2011). «Se vuoi vedere la tomba di Jim Thompson vai a Honolulu» mi aveva consigliato, una volta tanto senza scherzare, un vecchio amico che da trent’anni esplorava i segreti del Sud-est asiatico. Secondo lui, Thompson era scomparso volontariamente per fuggire a problemi di vario genere, mentre la famiglia, il giro dei gay di Bangkok – molti sostengono che Thompson fosse omosessuale – e i giornalisti locali avrebbero accreditato la versione secondo cui sarebbe stato sbranato da una tigre.

La tesi del film è meno fantasiosa e molto più in linea col diffuso cospirazionismo. Thompson sarebbe stato ucciso dai guerriglieri del Communist Party of Malaya (Cpm), forse su ordine del Partito Comunista Cinese, mentre cercava di contattare il segretario generale del Cpm, allora l’uomo più ricecrato della Malaysia, sospettandolo di lavorare per la Cia. In realtà, secondo la tesi del film (e di molti altri), a quel tempo Thompson era in netto dissenso con la politica americana in Sud-est asiatico. Il suo viaggio in Malaysia sarebbe stato solo una tappa verso Pechino, dove avrebbe dovuto incontrare il suo vecchio amico Pridi Banomyong, ex primo ministro thailandese, deposto da un colpo di stato militare, accusato di simpatie filocomuniste e quindi rifugiato in Cina. Thompson, insomma, sarebbe stato vittima delle lotte di potere che dopo la seconda guerra mondiale s’intrecciavano come una ragnatela in Sud-est asiatico.

Quale sia l’ennesima verità ha poca importanza. Il mistero resta tale in assenza di prove ontologiche. Forse l’unico che conosca finalmente la verità è Bill, William Warren, morto a 87 anni il 15 novembre scorso. Per cause naturali.

Quello che invece questo film dimostra è l’esistenza dei fantasmi. In quanto “spook”. Spettri o spie. Gli spettri della guerra in Vietnam con le sue ramificazioni in Laos, Cambogia e nel resto del Sud-est asiatico. Una guerra combattuta sul campo o in modo più o meno occulto, che fossero i bombardamenti sul Laos o le operazioni segrete per contrastare le formazioni comuniste. Se non si crede all’esistenza di quei fantasmi è molto difficile comprendere ciò che accade oggi in Sud-est asiatico.
Le memorie della Guerra Fredda sono molto vivide nella mente dei politici di quest’area e ancora, magari a livello inconscio, servono a spiegare la geopolitica di questo secolo. E’ uno scenario fluido, con spostamenti di fronte e nuove alleanze. Eppure, quando si cerca di sciogliere gli intrecci attuali, il bandolo della matassa si trova sempre là, nel periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ’80. Tanto più nelle pieghe della storia segreta popolata da spook. Lo spiega bene “The Ideal Man” di Kurlantzick, che nel titolo mette assieme “The Tragedy of Jim Thompson and the American Way of War”. La vicenda di Jim Thompson, infatti, diventa un modo per rappresentare errori, equivoci e occasioni perdute nella gestione della “guerra americana” (com’è definita in Vietnam).

Il film “Who Killed Jim Thompson the Thai Silk King?”, non è altrettanto significativo, almeno nel plot. Lo è nei suoi protagonisti. Il produttore Barry Broman innanzitutto. Dal 1996 è autore di libri e documentari a tema asiatico, in precedenza era un diplomatico distaccato in Cambogia, Thailandia, Indonesia e Birmania. Prima ancora, da Marine, ha servito come comandante di plotone in Vietnam e poi ufficiale di collegamento in Thailandia. Ancor più interessante la fonte principale del film: William Bird Jr. Suo padre, il senior, l’uomo cui si attribuiscono le rivelazioni sulla sorte di Thompson, era stato anche lui un agente dell’Oss. In seguito aveva aperto una compagnia di import-export, la Sea Supply, che vendeva armi al governo thai e che, si dice, sia stata l’ispirazione per la Air America, la compagnia aerea della Cia che riforniva i guerriglieri anticomunisti in Laos e riportava alla base carichi di oppio.

Ma il film di Bannon induce a un’altra riflessione. Tanto più a vederlo nella sala old style del Foreign Correspondent Club di Bangkok. Non sulla storia bensì sulle storie. Quelle dei vagabondi dell’Asia, degli espatriati, dei reduci d’ogni stampo, stranieri qui e ancor più in patria che combattono per definire la propria identità. E’ la solita vecchia storia: è come un desiderio di rivivere un passato di avventure e misteri. Di non morire.

Ha scritto Graham Greene: “I romantici hanno sempre paura di non essere all’altezza delle aspettative. E le loro aspettative sono sempre eccessive.”