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Il giro dei governatori

Stefano Cingolani

In Italia attesa per Visco, negli Stati Uniti in bilico la Yellen. E nel 2019 toccherà a Mario Draghi

Che cosa direbbe la sensibile opinione pubblica italiana, scrupolosa osservante delle regole scritte e ancor più di quelle non scritte, sospettosa verso i conflitti d’interesse e restia a mettersi nelle mani di qualche ricco magnate o divo del varietà, se per guidare la Banca centrale venisse scelto un finanziere d’assalto marito della principessa dei profumi? Ci sarebbe una insurrezione nei mass media o magari le barricate in via Nazionale? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, perché in Italia non funziona così, qui a Palazzo Koch si arriva passando per ben altro giro. A Washington, invece, nella giostra delle nomine stanno entrando a pieno titolo amici, compari e miliardari col pelo sullo stomaco, proprio come Kevin Warsh, 47 anni, che si è occupato di fusioni e acquisizioni alla Morgan Stanley, ha attraversato il gabinetto di George W. e poi ha consigliato senza troppa fortuna Jeb, l’ultimo della dinastia Bush.

 

A Washington nella giostra delle nomine stanno entrando a pieno titolo amici, compari e miliardari col pelo sullo stomaco

Warsh è un tipo in gamba, sia chiaro; ha studiato a Stanford e Harvard; è membro dei pensatoi conservatori che contano come la Hoover Institution, e quando è arrivato il crac finanziario era già alla Federal Reserve, giurando fino all’ultimo che l’innovazione finanziaria aveva reso il sistema più sicuro (il che non depone esattamente a suo favore). Subito dopo il fallimento della Lehman Brothers, tuttavia, ha mostrato una notevole abilità, lavorando per garantire l’appoggio alla cura Bernanke da parte di George W. Bush e dei repubblicani. Al suo attivo c’è anche un matrimonio giusto, anzi giustissimo: ha sposato nel 2002 Jane Lauder, erede della dinastia che ha introdotto le donne americane ai trucchi alla francese. Il padre Ronald, amico di lunga data di Donald Trump nonché presidente del Congresso ebraico mondiale, è a sua volta figlio di Joseph ed Esteé Lauder i quali nel 1946 hanno fondato il colosso dei cosmetici che oggi fattura oltre sette miliardi di dollari. Il fratello maggiore Leonard ha gestito il gruppo finché non ha passato le redini cinque anni fa a un italiano, Fabrizio Freda, pur restando presidente. Insomma, siamo dentro l’aristocrazia newyorchese, che è innanzitutto una aristocrazia del denaro. A essa The Donald ha messo in mano quel presunto “popolo dimenticato” che lo ha eletto gridando contro i bankster, i plutocrati e l’establishment. Ironie della democrazia quando diventa più popolare che liberale.

 

Non è detto che a febbraio Warsh diventi presidente della Federal Reserve al posto di Janet Yellen. E non è scontato che la piccola professoressa dalla bianca chioma venga sostituita anche se Trump ha più volte tuonato contro di lei e vorrebbe un maschio alfa di propria fiducia dietro la pressa che stampa biglietti verdi. Candidati e aspiranti non mancano. Nel casting del presidente e del segretario al Tesoro Steven Mnuchin, noto e rispettato Goldman boy (insomma l’ennesimo esponente di quel mondo che i trumpisti puri e duri detestano), è entrato quasi d’ufficio Jerome Powell, rinominato nel consiglio della Fed tre anni fa fino al 2028 (cioè vita natural durante). Un moderato, sottosegretario al Tesoro con Nicholas Brady durante la presidenza di Bush padre, dopo gli studi a Georgetown e a Princeton si è fatto le ossa alla Dillon, Read & Co. la banca d’affari dove ha incontrato Brady. I bookmaker lo danno in pole position insieme a Warsh. Tra gli outsider più vicini alla politica c’è Neel Kashkari, repubblicano, al Tesoro con Hank Paulson durante la grande crisi, si è candidato nel 2014 come governatore della California, ma è stato sconfitto da Jerry Brown. Oggi guida la Fed di Minneapolis. E’ spuntato anche John Allison liberista, già capo del Cato Insitute, che ha una lunga esperienza nel mondo della finanza: ha guidato a lungo al BB&T, holding di servizi finanziari della North Carolina, undicesima banca commerciale degli Stati Uniti.

 

Gli anni di Greenspan, brillante macinatore di numeri e fatti. I banchieri centrali in America non sono affatto noiosi ragionieri

In standby c’è un economista di alto spessore come John Taylor, 70 anni, newyorchese, docente a Stanford in California, che ha inventato nel 1992 una formula nota come “regola di Taylor”, per stabilire il livello ottimale dei tassi di interesse affinché l’economia sia in equilibrio, o in altri termini affinché la domanda sia pari all’offerta in condizioni di piena occupazione. Un po’ bussola un po’ pilota automatico. Il professore, repubblicano convinto, ha avuto una breve tentazione politica ed è stato nominato sottosegretario al Tesoro nel primo mandato di George W. Bush. La sua ambizione è riformare la Banca centrale riducendo la discrezionalità e quindi anche l’influenza politica con la sua semplice regola, senza avventurarsi nei territori inesplorati di Ben Bernanke e Mario Draghi. Potrebbe andare bene a Trump se non fosse che il presidente vuole una Fed più influenzata politicamente (ovviamente da lui e dai suoi adepti).

 

Anche se sono su fronti opposti, Taylor ha un profilo simile alla Yellen, che nell’accademia della “scienza triste” sta di casa come nel suo giardino anche se ha un profilo politico-culturale del tutto diverso: ebrea progressista cresciuta a Brooklyn, neo keynesiana e clintoniana della prima ora, non ha sposato uno gnomo di Wall Street, ma George Akerlof, premio Nobel dell’Economia, è stata sostenuta da Stanley Fischer, uno dei maggiori economisti monetari (mentore sia di Mario Draghi sia di Bernanke al Mit di Boston), già governatore della Banca di Israele e poi vicepresidente della Fed, una carica che ha lasciato nel settembre scorso perché contrario alla controriforma bancaria promessa da Trump. 

 

I professoroni, dunque, restano in lista, ma la chiara impressione è che Trump guardi altrove. Altro banchiere centrale altro giro, quello che ruota attorno alla Borsa. Non sarebbe la prima volta. C’è già stato Alan Greenspan chiamato Maestro (con la maiuscola e in italiano come nel mondo della musica) dal mitico anche se imbolsito Bob Woodward. E prima ci fu William Harding, il secondo presidente della Fed che faceva il banchiere in Alabama (Charles Sumner, nominato da Woodrow Wilson nel 1913 per inaugurare il Sistema della riserva federale, era un uomo di legge). Anche Marriner Eccles, anticipatore della teoria della domanda aggregata di John Maynard Keynes, prima di firmare dollari per il New Deal di Franklin Delano Roosevelt faceva l’uomo d’affari: ristrutturò e rilanciò su grande scala la conglomerata industriale e bancaria del padre, multimiliardario dello Utah che, da buon mormone, aveva impalmato due mogli.

 

Uno dei più importanti e longevi banchieri centrali americani, Wlliam Martin, l’uomo degli anni d’oro (dal 1951 al 1970), era stato capo della Import-Export Bank con la quale distribuiva i fondi del piano Marshall. Civil servant dalla testa ai piedi anche se da giovane voleva fare il ministro presbiteriano, era presidente della Borsa di New York quando scoppiò la Seconda guerra mondiale e si arruolò come soldato semplice. “Un bell’esempio di che cosa significa democrazia nel nostro paese”, scrisse il New York Times.

 

Chi sostituirà Draghi alla Bce? Weidmann, come si dice, o uno stretto alleato di Berlino, adepto della tradizione monetarista e liberista?

Gli economisti accademici possono vantare Arthur Burns al quale toccò gestire la fine del legame esclusivo tra dollaro e oro (il sistema monetario creato nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods), le conseguenze della sconfitta in Vietnam nonché due crisi petrolifere: venne travolto dall’inflazione galoppante. Poi arrivò il torreggiante Paul Volcker, ricco di multiple esperienze nel pubblico e nel privato, che cambiò i connotati (non solo monetari) all’America e all’occidente con la “rivoluzione monetarista” e la grande stretta dei primi anni 80, con la quale stroncò l’aumento generale dei prezzi. Nominato dal presidente democratico Jimmy Carter, venne confermato da Ronald Reagan fino al 1987 quando fu scelto Greenspan, il brillante macinatore di numeri e fatti, talentuoso clarinettista, cocco del bel mondo, della stampa e delle star della televisione come le giornaliste Barbara Walters e Andrea Mitchell (la prima solo fidanzata e la seconda impalmata dopo 13 anni di convivenza, nel 1997). I banchieri centrali in America non sono affatto noiosi ragionieri.

 

Anche in Europa le amicizie politiche, o per dirla in modo più elegante le affinità elettive, contano. Tuttavia si preferisce calare un velo (e non solo di ipocrisia) tra il mondo degli affari e la guida di una istituzione pubblica così delicata come la Banca centrale. Al vertice della Bundesbank c’è un ex consigliere di Angela Merkel, ma Jens Weidmann non ha scheletri privati nell’armadio. François Villeroy de Galhau nonostante il nome altisonante ha seguito il cursus honorum dei grand commis francesi come pure il predecessore Christian Noyer, che ora è vicepresidente della Bce. Quanto a Draghi, ha costruito una brillante carriera come direttore generale del Tesoro prima di diventare governatore della Banca d’Italia. Del suo passaggio alla Goldman Sachs dal 2002 al 2005, ha mantenuto azioni e partecipazioni depositate in un blind trust. Nella più potente banca d’affari di Wall Street ha trascorso ben tredici anni Mark Carney, prima di essere chiamato alla Banca centrale canadese e poi alla Banca d’Inghilterra. Si era occupato soprattutto di mercati emergenti scommettendo sul decollo del Sudafrica post apartheid e sulla capacità della Russia di pagare i suoi debiti, finché nel 1998 è scoppiata la crisi che ha contribuito a far crollare Eltsin e portato al potere Putin. Carney è una eccezione americana che ha rotto la tradizione della Vecchia Signora della City, ai cui vertici erano sempre arrivati stimati e attempati economisti e funzionari pubblici.

 

La crisi ha rimescolato molte carte e c’è una spinta a trovare uomini nuovi per situazioni nuove, talvolta del tutto inedite. Per molti aspetti anche Draghi è stato visto come una figura anomala, italiano, anzi romano, educato dai gesuiti e poi a Boston, quindi con un forte background americano, pragmatico e innovativo, è entrato in quello che era stato concepito e costruito come un santuario della ortodossia monetaria tedesca e lo ha trasformato profondamente, tanto che sarà difficile tornare indietro. Chi lo sostituirà nel 2019? Weidmann, come si dice, o uno stretto alleato di Berlino, un adepto della tradizione economica austriaca, monetarista e liberista? Chissà, la scelta non è tra scuole e dottrine, ma tra governi e interessi politici. Di successione si parla da tempo, tuttavia è troppo presto per capire cosa accadrà. Draghi recentemente s’è messo a fare il sindacalista, come ha commentato qualche malalingua, invitando le organizzazioni dei lavoratori ad avanzare nuove richieste salariali perché le paghe sono troppo basse per sostenere la domanda interna, non solo in Italia, Spagna, Grecia nei paesi dove la recessione è stata più lunga e dura, ma anche e soprattutto in Germania.

 

Tra i banchieri ci sono buoni manager, alcuni ottimi nel dirigere aziende di credito, nessuno con una visione multiforme alla Mattioli

Negli Stati Uniti la riforma bancaria è diventata una questione dirimente. Fischer è arrivato alle dimissioni proprio per dissenso sulla legge Dodd-Frank difesa anche dalla Yellen. In realtà, non si capisce bene cosa voglia Trump. In campagna elettorale ha promesso di smantellare i colossi di Wall Street (compresa Goldman Sachs) tornando al Glass-Steagal Act, la legge del 1933 che separa nettamente le banche commerciali dalle banche d’investimento. Una volta eletto e circondatosi di Wall Street boys, ha firmato un memorandum per sciogliere lacci e lacciuoli che imbrigliano la finanza e le impediscono di sprigionare tutti i suoi animal spirits. Vedremo che cosa verrà fuori nei prossimi mesi, anche perché l’artefice della deregulation, Gary Cohn, capo consigliere economico e già direttore generale della Goldman Sachs, ha litigato con Trump dopo che il presidente ha messo sullo stesso piano gli opposti estremismi durante le violenze a Charlottesville in agosto.

 

La crisi delle banche è un vulnus anche in Europa. L’introduzione del bail-in, in modo talmente brusco che nessuno l’ha rispettato, l’incompleta unificazione del sistema creditizio (privo ad esempio di un fondo di sostegno), le eccezioni concesse per i salvataggi pubblici e per le banche locali tedesche, la spasmodica ricerca di capitali per i campioni dell’Eurolandia come Deutsche Bank o Unicredit, è tutto un ribollire attorno alla grande incompiuta che mina la stabilità della moneta unica. Allora, perché non scegliere un banchiere invece che un professore o un funzionario di stato? Sarebbe come mettere la volpe a guardia del pollaio dicono i No bank, però nel passato non è stato sempre così.

 

E in Italia? A parte la parentesi di Luigi Einaudi, al comando di Via Nazionale sono passati solo grand commis, esterni come Bonaldo Stringher, Donato Menichella, Guido Carli e Mario Draghi, o interni come Vincenzo Azzolini, Carlo Azeglio Ciampi, Antonio Fazio e Ignazio Visco. Avrebbe avuto tutti i crismi Giovanni Bazoli, che nasce come avvocato e non è un economista, tuttavia ha costruito un grande gruppo bancario partendo dalle ceneri del Banco Ambrosiano e conosce bene sia l’economia reale sia la politica. In più, è anche sposato con Elena Wührer, erede della dinastia della birra, un bel nome della borghesia industriale lombarda. Molti ricordano gli interventi del Professore alle assemblee annuali in via Nazionale quando, come capo di Banca Intesa, era il principale azionista dell’istituto di emissione che non è posseduto dal Tesoro, ma dalle banche. Talvolta si diceva che il governatore parlava poi Bazoli tirava le contro-conclusioni. Tuttavia il momento è passato, non è solo questione di età, ma di spirito del tempo. Da sempre vicino a Romano Prodi, da sempre lontano da Silvio Berlusconi, non ha mai legato con Matteo Renzi. A guardarsi attorno, bisogna ammettere che non si vedono grandi banchieri in carica; ci sono buoni manager, alcuni anche ottimi nel dirigere aziende di credito, ma nessuno con una visione multiforme, nessuno che sappia mettere assieme talenti diversi, alla Raffaele Mattioli, per intenderci. Allora, meglio restare come stiamo seguendo la tradizione che fa sistema. Ignazio Visco mantiene il suo posto, per la successione a Mario Draghi la partita è tutta da giocare. E chissà, anche Janet Yellen alla fine la vincerà su qualche gagà di Wall Street.