LaPresse/Elisa Contini

Urne di antimafia

Salvo Toscano

Dove c’era un blocco granitico ora ci sono scandali e polemiche. In Sicilia si fanno difficili le elezioni per i professionisti della lotta a Cosa nostra

Un tempo qui era tutta antimafia. Ma lo sputtanamento non c’era ancora stato. La Sicilia tra poco più di un mese va a votare per le attesissime regionali ed è la prima volta dopo i tormentati anni di scandali, screzi e anatemi che hanno sconquassato il potente movimento dell’antimafia organizzata, quello che in questi anni ha sempre giocato un ruolo da protagonista sulla scena pubblica isolana, con alterne fortune. E che da qualche tempo colleziona dispiaceri, tra inchieste giudiziarie che ne travolgono i campioni, reciproche scomuniche e divorzi eccellenti. E così stavolta al voto la galassia dell’antimafia organizzata arriva più che frammentata, se non polverizzata per lo meno divisa e in ordine sparso. Un sintomo della crisi che il “professionismo” di sciasciana memoria vive da un pezzo a queste latitudini.

  

La lista di Fava "Cento passi". Giovanni Impastato l'ha accusato di usare il fratello Peppino "come un marchio pubblicitario"

Di antimafia si litiga in Sicilia. Là dove c’era un granitico colosso, oggi restano baruffe e polemiche sempre nuove. L’ultima ha investito un veterano come Claudio Fava, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa Nostra, scelto dal fronte alla sinistra del Pd come candidato governatore. Fava, che è anche sceneggiatore di successo, ha battezzato la sua lista “Cento passi”, un richiamo al film da lui scritto che fece conoscere all’Italia intera la figura di Peppino Impastato, attivista di sinistra ucciso dalla mafia. Una mossa che non è stata gradita dal fratello di Impastato, Giovanni, che ha accusato il candidato di usare Peppino “come un marchio pubblicitario”, lamentando di non essere stato avvisato prima. Fava dal canto suo ha risposto che i “Cento passi” sono di tutti i siciliani onesti.

  

D’altronde, se dissapori e divisioni hanno attraversato negli ultimi tempi persino le famiglie di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, figurarsi altrove. Anche un simbolo vivente come Nino Di Matteo, magistrato minacciato da Cosa nostra e pm del processo sulla trattativa, è finito nel calderone del batti e ribatti polemico, dopo le durissime esternazioni di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, sul fallimentare processo sula strage di via D’Amelio, imbastito sulle balle di un pentito farlocco a cui una affollata sfilza di toghe ha bellamente abboccato. E tra quelle, appunto, Di Matteo. Che in Sicilia, e non solo, è un punto di riferimento robusto per attivisti e simpatizzanti del Movimento 5 stelle. Di lui si parla come di un ministro in pectore di un eventuale governo di Gigino Di Maio. Un asso nella manica per il Movimento che fino a qualche mese fa sembrava il favoritissimo e che invece adesso, fiaccato da scandali come quello delle firme false o la più recente inchiesta che ha travolto il Comune di Bagheria a guida pentastellata, insegue nei sondaggi il candidato della destra Nello Musumeci. Di Matteo, fresco di audizione a San Macuto (e di cittadinanza onoraria concessa dalla sindaca grillina Virginia Raggi), intanto scalda i motori per tornare a puntare al bersaglio grosso, Silvio Berlusconi, nella infinita indagine sulle stragi del ’92, che si apre e si chiude all’infinito come la tela di Penelope. E resta defilato nella disfida elettorale sicula, non entrando nella campagna elettorale come invece fece in occasione della campagna referendaria, quando si espose in prima persona per le ragioni del No con uscite pubbliche di chiara matrice politica. Ma in quel pezzo di antimafia doc che guarda al magistrato palermitano come a un faro, i vessilli pentastellati raccolgono diffuse simpatie. Basti pensare agli endorsement che in passato sono arrivati ai grillini da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e icona delle “Agende rosse”, che con l’altro movimento "Scorta Civica" (di cui il candidato grillino Cancelleri fu fondatore e attivista nella natia Caltanissetta) sono in primissima linea nella solidarietà a Di Matteo.

  

 Antimafia ormai divisa in correnti (tradizionale, di governo, movimentista, destrorsa). Un po' come la vecchia Dc

Vuoi o non vuoi, l’antimafia resta un robusto filo nell’intramatura politica isolana. Allo scorso giro fu proprio un campione dell’antimafia a spuntarla, quel Rosario Crocetta che i suoi hanno messo di lato stavolta, accordandogli però la licenza di presentare una propria lista, il Megafono, creatura politica gestita in tandem con il suo alter ego, altro generalissimo dell’antimafia politica siciliana, ossia il senatore Beppe Lumia, già potente negli anni di Raffaele Lombardo e nel quinquennio crocettiano. Che è stato anche il lustro dello “sgoverno” dell’antimafia, una stagione politica costellata di inciampi, delusioni e figuracce, che ha spinto il Pd di Matteo Renzi a puntare sulla candidatura all’insegna della “discontinuità” del rettore dell’università di Palermo Fabrizio Micari, nome buttato nella mischia dal veterano dell’antimafia politica, il sempiterno sindaco Leoluca Orlando. Che resta sulla breccia e che in questi anni ha incrociato le lame con Crocetta a ogni occasione, rivendicando per sé e la sua storia il bollino dell’antimafiosità doc, derubricando a sceneggiata un bel pezzo di quella che gravitava attorno al governatore, in primis la lobby confindustriale.

   

E sì, perché questi sono stati gli anni delle baruffe antimafia. E degli scandali. Come quello più fragoroso, ossia la vicenda giudiziaria che ruota attorno a Silvana Saguto, già presidente della sezione del tribunale di Palermo che gestiva i beni sequestrati e confiscati ai mafiosi, che secondo le accuse dei magistrati di Caltanissetta si erano trasformati in un dorato business per un circoletto di amici e parenti, con profili di illegalità che saranno oggetto di un processo ormai alle porte. Ma non solo. Tra gli dei dell’antimafia finiti nella polvere si annoverano anche l’ex presidente degli industriali siciliani Antonello Montante, finito sotto indagine per concorso esterno (e in attesa da anni di sapere qualcosa dell’inchiesta che lo riguarda) per via dei ricordi di un pentito nisseno – lui si protesta estraneo a ogni addebito – e il giornalista barricadero Pino Maniaci, finito a giudizio per estorsione, accusa da lui respinta con forza, per la quale viene processato a Palermo con l’assistenza legale di un’altra ex star della parrocchia antimafiosa, quell’Antonio Ingroia già pm teorico della trattativa, già aspirante premier, oggi avvocato e grand commis del sottogoverno crocettiano. Scandali che avrebbero dovuto forse spingere il potente moloch antimafioso a un esame di coscienza sulla trasformazione avvenuta negli anni da movimento di popolo, ai tempi dei lenzuoli bianchi esposti a Palermo dopo le stragi del ’92, a conventicola autoreferenziale nonché comoda scorciatoia per carriere e rendite. Sarebbe stata un’occasione ghiotta, si è preferita invece la via breve della bad company da liquidare, tracciando (per mano della stessa antimafia e di chi sennò?) la linea tra buoni e cattivi, tra “tragediatori” e “autentici”, patentati ovviamente dai medesimi azionisti del circolo.

   

Fiaccato da scandali come quello delle firme false, il M5s insegue nei sondaggi il candidato della destra Nello Musumeci

Che arriva quanto mai diviso a questa tornata elettorale. Orlando e il Pd puntano su Micari, non disdegnando l’abbraccio agli alfaniani, che in Sicilia con la loro classe dirigente sono incappati in più di una grana giudiziaria. Nello stesso calderone ecco anche Crocetta e Lumia, che con la loro lista del Megafono cercano di garantirsi la sopravvivenza politica, con la benedizione di Matteo Renzi, dopo la deludente stagione di governo. Curioso trovare dalla stessa parte Orlando e Crocetta, che in questi anni hanno giocato al gatto e al topo dicendosene di cotte e di crude, dandosi tra l’altro del “forforoso” (Crocetta a Orlando) o del “tascio” (palermitano per “coatto”, Orlando a Crocetta). Il sindaco ha definito la stagione di governo del politico gelese una “calamità istituzionale”: oggi se lo ritrova fianco a fianco nel sostenere la difficile corsa del poco conosciuto rettore.

    

La sinistra-sinistra, invece, si è chiamata fuori. Cogliendo al volo l’occasione del patto del Pd con gli alfaniani (con cui le stesse sigle di sinistra si erano alleate senza battere ciglio quattro mesi fa alle amministrative di Palermo) i partiti a sinistra del Pd hanno mollato Orlando, con cui avevano avviato un percorso comune, attingendo ancora una volta al patrimonio dell’antimafia politica con la candidatura di Claudio Fava. L’intellettuale e politico catanese cinque anni fa aveva dovuto saltare la sfida per un cavillo burocratico (non aveva trasferito in tempo la residenza in Sicilia). Stavolta è della partita e attacca a testa bassa i competitor. Non risparmiando fendenti al suo mentore politico Orlando colpevole di chiudere gli occhi di fronte alla regione “trattata come una vacca da mungere” da Crocetta e i suoi, e prendendosela con Micari, reo di avere incontrato a inizio campagna Mario Ciancio, potente editore catanese sotto processo per concorso esterno in mafia. E sparando a zero sui silenzi “furbi” dei grillini proprio sul tema dell’antimafia: “Non fanno mai nomi e cognomi”, attacca il bersaniano Fava, sulla breccia ormai da 25 anni. E dire che solo una manciata di anni fa, lo stesso Fava consegnava il premio intitolato al padre proprio alla Scorta civica nissena di Cancelleri. Scherzi del destino.

    

Il fronte di sinistra può far male eccome al candidato del Pd, che rischia per i sondaggi circolati fin qui (o meglio fatti circolare da un centrodestra in cerca di rivincita) di finire addirittura terzo. Uno sgambetto a Renzi che certo non dispiacerebbe a D’Alema e compagni. In questo stesso listone sinistrorso doveva albergare da principio anche il sopravvissuto movimento politico di Ingroia, Azione civile. Che però s’è tirata indietro, contestando la candidatura di Fava “imposta dall’alto”. Pare che Fava e i suoi non si siano strappati le vesti per la disperazione.

    

E’ la diaspora dell’antimafia. Con i suoi campioni e campioncini, vecchi e nuovi. Come quelli che hanno goduto delle luci dei riflettori negli anni del crocettismo. Antonio Fiumefreddo, per esempio, raffinato avvocato catanese posto dal governatore alla guida del carrozzone Riscossione Sicilia e finito su tutti i giornali e le tv d’Italia per le sue crociate anti-evasione che hanno travolto persino gli inquilini dell’Assemblea regionale. Voleva candidarsi pure lui alla presidenza della regione, paladino legalitario di un rassemblement di “piccoli”, dai liberali a Scelta civica. Ma un problema di incandidabilità (è al vertice di una partecipata regionale) lo ha fermato. In un sobrio comunicato lui stesso ha annunciato il ritiro con un epitaffio tranchant: “La mafia ha vinto”.

   

Il nome di Micari buttato nella mischia dal veterano dell'antimafia politica, il sempiterno sindaco Leoluca Orlando

E a proposito dei nuovi volti dell’antimafia, per un certo periodo nel toto-candidati del Pd, quando Orlando e Renzi sfogliavano la margherita prima del sì di Micari, qualcuno aveva parlato anche di Giuseppe Antoci, presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi scampato a un attentato di stampo mafioso l’anno scorso e politicamente vicino a Crocetta. Così come corteggiatissimo è stato l’ex sindaco di Licata Angelo Cambiano, protagonista di battaglie contro l’abusivismo edilizio e sfiduciato di fresco dal consiglio comunale. Alla fine è stato arruolato dal Movimento 5 stelle. Perché non c’è antimafia senza simboli e con la mattanza dei vecchi, tocca coltivarne nuovi.

    

Intanto, anche a destra non si rinuncia al brand antimafia. Nello Musumeci, già missino di ferro, ha voluto chiamare #DiventeràBellissima il suo movimento, appropriandosi di una celebre frase su Palermo di Paolo Borsellino, di cui erano note le simpatie politiche destrorse. Musumeci in questa legislatura è stato presidente della commissione Antimafia regionale, dove, proprio come accadeva a San Macuto sotto la guida di Rosy Bindi, hanno sfilato in questa legislatura anche studiosi, magistrati e quant’altro, per le intense indagini conoscitive sul fenomeno mafioso, sempre molto utili ai saggisti per riempire paginate di libri di genere. Tra le sue iniziative nella legislatura un rigoroso codice etico per i parlamentari regionali, mai approvato, che prevedeva tra l’altro bacchettate per i cambiacasacca. Che non mancano nella coalizione di Musumeci, che raccoglie tutto o quasi l’ancien regime del centrodestra di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo, i due governatori finiti sotto processo per mafia (uno condannato in via definitiva per favoreggiamento aggravato, l’altro in appello ma “solo” per voto di scambio politico-mafioso). Tanto che, commentando l’endorsement per Musumeci dell’imprenditrice antiracket di Castelvetrano Elena Ferraro, Crocetta si è lasciato scappare un velenoso “bisognerebbe chiederle come fa a preferire uno schieramento in cui c’è Cuffaro”. Anche se Cuffaro notoriamente non ama Musumeci, tanto da aver dichiarato pubblicamente di suggerire il voto disgiunto, premiando la lista dell’amico Saverio Romano e del suo ex assessore Roberto Lagalla – che però stanno tutti con il candidato del centrodestra – e la candidatura sopra le righe di Vittorio Sgarbi, che nel frattempo però ha cambiato idea abbracciando Musumeci.

  

Accade anche questo nelle elezioni della diaspora dell’antimafia, ormai divisa in correnti – tradizionale, di governo, movimentista, destrorsa – che prendono ognuna la propria strada. Un po’ come la buonanima della Dc.

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