Foto LaPresse

Ecco i tedeschi d'Italia

Stefano Cingolani

Negli ultimi dieci anni i colossi della Germania hanno acquisito importanti industrie italiane. Dall’Italcementi alla Lamborghini

“Noi non siamo i protagonisti d’Europa, ma i protagonisti non possono fare senza di noi”

Dino Grandi

 

Francia o Germania? Per centocinquant’anni almeno l’Italia ha sempre oscillato tra i suoi due più potenti vicini. E continua a oscillare ancora. Emmanuel Macron con i suoi voli pindarici sulla “rifondazione dell’Europa” ha acceso gli animi del partito francese in sollucchero di fronte alla proposta di un “patto del Quirinale” che faccia da pendant al “patto dell’Eliseo” tra Parigi e Bonn firmato nel 1963. Il partito tedesco, benché deluso e allarmato dal ridimensionamento di Angela Merkel ancor più che dai nazi-nostalgici nel Bundestag, è pronto al contrattacco. Il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso “il massimo rispetto” per la cancelliera che “paga scelte molto corrette e coraggiose, sull’integrazione europea, sui profughi e nel duro confronto con il presidente americano Trump”. Autorevoli opinionisti sottolineano che la bonanza del 2013 quando la Cdu-Csu ha superato il 40 per cento era una eccezione, basta guardare le serie storiche: nel 2009, per esempio, l’alleanza cristiano-democratica ottenne gli stessi voti del 24 settembre scorso.

 

Il partito tedesco è solido e ben radicato in Italia. Si è sempre parlato e scritto, spesso male, dello shopping francese che da Parmalat fino alla fusione tra Essilor e Luxottica passando naturalmente per il lusso (Loro Piana, Fendi, Bulgari per fare qualche nome altisonante) non si è mai fermato negli ultimi vent’anni fino a diventare frenetico durante la crisi. Ma, tomi tomi quatti quatti, i tedeschi non sono stati da meno: la Germania è il primo partner commerciale per l’Italia con oltre 112 miliardi di euro, ma importiamo più di quel che esportiamo (il deficit è di 6,7 miliardi). E l’Italia è il terzo paese straniero per acquisizioni tedesche, superato solo da Stati Uniti e Polonia; in media dieci aziende l’anno dal 2008 in qua, non solo piccole e medie, basti pensare a Italcementi che la famiglia Pesenti controllava da un secolo. E’ stata venduta un anno fa al colosso Heidelberg per 1,67 miliardi di euro. La società di revisione olandese KPMG ha stimato che la metà delle imprese comprate sono manifatturiere (Germania e Italia si contendono il primato in Europa nella produzione di merci a mezzo di merci) per un valore di circa 15 miliardi. Tra i grandi nomi dell’industria basti ricordare ThyssenKrupp che ha preso gli acciai speciali dell’Italsider privatizzata già nella seconda metà degli anni ‘90, o veri gioielli come la Lamborghini comprata nel 1998 dalla Volkswagen.

 

La Germania è il primo partner commerciale per l'Italia con oltre 112 miliardi di euro, ma importiamo più di quello che esportiamo

Si lavora meglio sotto i patron francesi o gli Arbeitgeber tedeschi? I primi applicano un modello di gestione centralistico dove il pdg (presidente e direttore generale) ha in mano tutto il potere, gli altri seguono la cultura della cogestione anche quando le aziende sono relativamente piccole e non adottano quindi il modello duale (il consiglio che rappresenta gli azionisti separato dal consiglio di gestione composto di manager). E’ più frequente che i tedeschi lascino gli affari correnti in mano a dirigenti italiani, a differenza dai francesi i quali, quando prendono possesso, insediano i loro uomini, come accade per esempio alla Telecom Italia. Ma alla fine contano i risultati. Ci sono 1.800 imprese tedesche in Italia, con 125 mila dipendenti, mentre le italiane in Germania sono 2.100 e impiegano 81 mila persone. I gruppi a proprietà germanica (per esempio Laika, Lidl, Porsche, Bosch, Siemens) hanno ripreso ad assumere mentre gli italiani aspettavano gli incentivi pubblici. Secondo le stime di Mediobanca le imprese made in Germany sono quelle che fanno i maggiori investimenti in patria e all’estero. I 40 big della manifattura hanno cumulato utili per 400 miliardi tra il 2012 e il 2016, circa la metà frutto dei giganti tedeschi, appena 4 dalle imprese italiane.

 

Se usciamo dal perimetro schiettamente industriale, troviamo i servizi (Lufthansa o Deutsche Post che possiede anche DHL), la grande distribuzione, le assicurazioni e il credito, con l’Allianz o la Commerzbank, per non parlare della Deutsche Bank diventata una delle prime banche dello stivale. Arrivò nel 1883 l’anno dopo l’adesione del Regno d’Italia alla Triplice Alleanza. Cominciò collocando sul mercato il debito del comune di Roma (la storia non finisce mai di ripetersi) per poi partecipare insieme ad altri soci tedeschi, svizzeri e austriaci alla fondazione della Banca Commerciale italiana nel 1894. Sono gli anni in cui s’insediano anche la Siemens e la Bosch quando il partito tedesco era rappresentato al massimo livello da Giovanni Giolitti, secondo Benito Mussolini che allora era filo francese o meglio anglo-francese e lo resterà a lungo anche dopo la presa del potere, spinto da una lobby industriale e diplomatica guidata da Dino Grandi.

 

Il Regno di Sardegna aveva contato, in funzione anti-austriaca, sul sostegno di Napoleone III durato, nonostante la questione romana, fino al crollo del secondo impero nel 1870. In verit, c’era stato un avvicinamento alla Prussia guidata da Otto von Bismarck e destinata a diventare egemone nella nuova Germania unificata: la Terza guerra d’indipendenza appare come il primo passo di una evoluzione sfociata nella Triplice con l’avvento della Sinistra storica e di Francesco Crispi, grande ammiratore di Bismarck. Il motto del francofilo Emilio Visconti Venosta più volte ministro degli Esteri (“indipendenti sempre, isolati mai”) resta un precetto fondamentale per un paese piccolo e sostanzialmente povero, bisognoso di legittimazione, tuttavia ha finito per coprire i “giri di valzer” che hanno caratterizzato molto spesso la diplomazia italiana. Li chiamò così per la prima volta Bernhard von Bülow (già ambasciatore tedesco a Roma dove aveva sposato la figliastra di Marco Minghetti), il quale scommise fino all’ultimo sulla fedeltà italiana. Il secondo dopoguerra sembrava aver sciolto il dilemma Francia o Germania dentro il nuovo orizzonte pacifista e internazionalista. Nell’articolo 11 della Costituzione si ritrova il compromesso storico tra i partiti antifascisti, con il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e “le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. C’è infine il riferimento esplicito a promuovere e favorire “le organizzazioni internazionali”. Nenni avrebbe voluto che venisse aggiunto “ed europee”, Togliatti e De Gasperi restarono al generico riferimento alle Nazioni Unite. La Guerra fredda àncora i due nuovi principi all’atlantismo, quindi all’alleanza privilegiata sul piano economico e militare con gli Stati Uniti.

  

Un rilancio del progetto europeo, d'intesa con la Francia, è già scritto nella storia dei prossimi mesi. Gli italiani non sono tagliati fuori

All’indomani della implosione dell’Unione sovietica, la crisi valutaria del 1992 diventa un punto di svolta su ogni fronte. Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, che possiamo assegnare al partito anglo-francese, ha ricordato che sotto ferragosto, quando la lira italiana e quella britannica erano sott’attacco, chiese alla Germania di tagliare i tassi d’interesse. La risposta fu no, semmai avrebbe potuto rivalutare il marco. “Una domenica pomeriggio di fine agosto andai a Parigi e lo proposi a Pierre Bérégovoy”, ha rivelato Amato al Corriere della Sera. Ma la risposta del compagno socialista, primo ministro francese, fu: “Giuliano non ce la faccio”. Il 20 settembre si sarebbe tenuto il referendum su Maastricht e i sondaggi dicevano che il No era in testa. Perdere la parità tra franco e marco avrebbe significato la sconfitta sicura. Finché il pomeriggio di venerdì 11 settembre Helmut Schlesinger, presidente della Bundesbank chiamò al telefono Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, per annunciargli che dal lunedì successivo non sarebbe più intervenuto per difendere la lira.

  

Né Francia né Germania: quella volta nessuna delle due aiutò l’Italia. Ricordare quei momenti non è roba da storici o nostalgici. Il crollo della moneta coincide con il collasso della Prima Repubblica che lascia una eredità pesantissima (dal debito pubblico all’azzeramento del sistema politico). L’ingresso nell’euro ha chiuso la storia della lira, non si è chiusa invece la lunghissima transizione politica. L’adesione all’unione valutaria è stata favorita dalla Francia nonostante il presidente Jacques Chirac avesse tirato fulmini e saette contro la svalutazione della moneta italiana (40 per cento in due fasi) che metteva con il sedere per terra l’industria transalpina, soprattutto quella tessile. I tedeschi avrebbero preferito far entrare Roma in un secondo tempo, magari insieme ad Atene. E molti autorevoli personaggi erano d’accordo, compresi il governatore Antonio Fazio e Cesare Romiti, uscito dalla Fiat, ma dominus del Corriere della Sera.

 

Francia e Germania vanno a braccetto ai danni dell’Italia anche quando s’affaccia la crisi dei debiti sovrani. A Deauville, in Normandia, nell’ottobre 2010 Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si fanno beffe di Silvio Berlusconi, mentre le banche francesi e tedesche cominciano a liberarsi di buoni del tesoro, facendo schizzare in alto il differenziale tra titoli pubblici tedeschi e italiani. Comincia la guerra dello spread che non si conclude con la caduta di Silvio Berlusconi e l’arrivo di Mario Monti, ma soltanto nel luglio 2012 quando Mario Draghi annuncia che farà tutto quel che è necessario (whatever it itakes) per salvare l’euro.

 

Sono 1.800 le imprese tedesche in Italia, con 125 mila dipendenti. 2.100 le italiane in Germania: impiegano 81.000 persone

Per i partiti del centrodestra Monti e soprattutto Napolitano furono allora i veri capi del partito tedesco, protagonisti di quello che Berlusconi ha chiamato “un golpe”, una sorta di intesa segreta tra il presidente della Repubblica italiana e la cancelliera tedesca per detronizzarlo. Oggi lo stesso Berlusconi sembra aver cambiato idea sulla Merkel (e viceversa) certo per necessità (fare da diga contro le forze populiste) non per attrazione reciproca (in senso politico ovviamente). Ma quella ferita non si è rimarginata. E Draghi? Lui non sembra esattamente nell’orbita della Germania, anzi è stato accusato di essere piuttosto un “americano”, un ex “Goldman boy”. Dopo un primo periodo di prudente incertezza è scattata una intesa di fondo tra la cancelliera e il presidente della Bce, che diventa ferrea tra la primavera e l’estate del 2012, facilitando il cambiamento della politica monetaria in senso espansivo e consentendo a Draghi di resistere alla offensiva continua della Bundesbank schierata nettamente all’opposizione. Il presidente Jens Weidmann, un tempo consigliere economico della Merkel, si è fatto portavoce di posizioni intransigenti che spesso non sono piaciute a Berlino. Un gioco delle parti, il classico scambio tra poliziotto buono e cattivo? Lo vedremo presto, perché l’emorragia di voti a destra spingerà la cancelliera a mettere il freno lasciando molto più spazio alla Bundesbank e al ministro delle Finanze: chiunque andrà a sostituire Wolfgang Schäuble destinato a presiedere il Bundestag, avrà il compito del distruttore lasciando ad “Angie” la ricostruzione.

 

Il nuovo panorama politico tedesco, più complesso e conflittuale, solleva un interrogativo che era sorto vent’anni fa, all’indomani della unificazione: la Germania che sembrava così forte, si sta indebolendo? In tal caso è meglio oppure peggio per l’Italia e il resto d’Europa? L’idea di uno strapotere tedesco era diventata quasi una acquisizione comune negli anni scorsi. C’è chi non ha esitato a parlare di Anschluss, annessione. Prima la Repubblica federale si è annessa l’est, poi la nuova grande Germania si è annessa l’Europa centrale coronando il Lebensraum di bismarckiana memoria e durante la crisi lo ha fatto con l’intera Unione europea: Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, alimentando la propria potenza economica grazie all’asimmetria strutturale all’interno dell’area euro, un vero e proprio scambio ineguale tra le economie dei vari paesi, a cominciare dai sistemi bancari. E’ una tesi sviluppata da sinistra nel libro dall’economista Vladimiro Giacché intitolato, appunto, “Anschluss”, ma da destra ne è convinto anche Matteo Salvini. Un altro segno di rottura con la tradizione della vecchia Lega, quella di Gianfranco Miglio talmente filo germanico da immaginare il distacco del Nord dall’Italia centro-meridionale per confluire in una macroregione a cavallo delle Alpi, insieme alla Baviera e magari alla Svizzera. L’Umberto Bossi delle origini sosteneva nella sostanza la spinta secessionista con una sponda della Csu bavarese preconizzata dal suo mentore ideologico. Quant’acqua sotto i ponti della politica italiana, e scorre via con la leggerezza del vuoto.

 

Oltre al manifatturiero, grande distribuzione, assicurazioni e credito

Secondo Gian Enrico Rusconi, germanista di lungo corso, “le elezioni hanno seriamente pregiudicato lo status di egemone della Germania accettato come ovvio sino all’altro ieri”. Michele Valensise, già ambasciatore a Berlino e presidente del centro italo-tedesco Villa Vigoni, sottolinea che “L’avvio del suo quarto mandato consecutivo di governo, pur incerto e non privo di insidie, dovrebbe essere contrassegnato dalla libertà che le deriva dalla lunga esperienza e da minori condizionamenti nel dettare l’agenda nazionale ed europea. Un rilancio del progetto europeo, d’intesa con la Francia di Macron, è già scritto nella storia dei prossimi mesi. Anche se fedele ai suoi principi, la Germania sa che per rivitalizzare il processo di integrazione sarà necessaria qualche concessione. Occorrerà un confronto aperto, per il quale è bene che l’Italia sia preparata e si presenti con le carte in regola. In Europa la partita, ci piaccia o no, è nelle mani della Merkel che vuole risposte coordinate sulle grandi questioni globali e non crede in chiusure isolazioniste o arroccamenti nazionali”.

 

Non bisogna iscriversi al partito tedesco per capire che è meglio dar retta all’ambasciatore. Gli italiani non sono affatto tagliati fuori, hanno molte risorse da mettere sul tavolo del negoziato. Ma la premessa è abbandonare il lamentoso senso di inferiorità che ci impedisce di individuare con chiarezza i nostri interessi nazionali, quelli di fondo, e di farli valere. Fu Grandi a perseguire quella che definiva la politica del “peso determinante” rimasta una costante della nostra diplomazia. Oggi può essere rilanciata a patto di affrontare i due macigni che impediscono al paese di far valere le nostre potenzialità: il debito pubblico e l’instabilità politica che vivono in simbiosi come un mostro mitologico.

Di più su questi argomenti: