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L'incompiuta dell'antimafia

Riccardo Lo Verso

Studia, coordina, teorizza i sistemi criminali. La procura nazionale si occupa di tutto tranne che di indagini

Per alcuni è un approdo sicuro, persino un paracadute di lusso. L’epilogo di una carriera fra le file dell’Antimafia. Quella che da sempre teorizza i massimi sistemi criminali e si fa breccia lontano dalla Sicilia, guadagnandosi la ribalta mediatica nazionale. E’ a Roma, alla Direzione nazionale antimafia, che i discorsi si fanno alti che più alti non si può, laddove si sottolinea l’immanenza delle mafie – ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra – nella società italiana. Sguardi d’insieme, anni di studio che confluiscono in copiose relazioni, frutto del coordinamento delle varie Procure distrettuali del Paese.

 

La missione della Dna è, appunto, il coordinamento. Un ruolo che di operativo ha nulla o quasi. E dire che la Direzione nazionale, ideata negli anni Novanta, quando la mafia alzava l’asticella dell’orrore con le stragi, voleva essere lo strumento in più contro chi sfidava lo stato. Doveva nascere una superprocura a immagine e somiglianza di Giovanni Falcone, uno che la mafia l’aveva capita fino in fondo. L’obiettivo era lasciarsi alle spalle il provincialismo e il protagonismo giudiziario delle singole procure per creare un organismo capace di offrire una riposta complessiva allo strapotere dei boss. Le polemiche furono aspre da parte di chi denunciava il pericolo della concentrazione di potere in una sola persona e la commistione, se non addirittura l’ingerenza, della politica nel lavoro della magistratura.

 

Un rischio che non si è mai concretizzato anche e soprattutto perché quasi tre decenni dopo le armi della Dna sono rimaste spuntate. Le indagini non sono materia della Procura nazionale che supporta, coordina, rimpingua il cervellone della banca dati, studia i fenomeni di criminalità organizzata e terrorismo, esprime pareri non vincolanti, cura i rapporti con le autorità giudiziarie di paesi stranieri. Un ufficio che si occupa di tutto tranne che di indagini, le quali restano appannaggio quasi esclusivo delle procure distrettuali. E quando qualcuno ha provato ad andare oltre il recinto del coordinamento ha consegnato alle cronache un guazzabuglio, simbolo di tutte le impotenze e forse anche delle presunzioni di questo organismo.

 

L’unico guizzo operativo si registra quando il procuratore nazionale o uno dei suoi venti sostituti deve intervenire per mettere pace fra procure “gelose” delle proprie indagini. Come accadde fra i pm di Palermo e Caltanissetta che arrivarono ai ferri corti sulla gestione di Massimo Ciancimino. Nel 2011 Francesco Messineo e Sergio Lari, alla guida dei due uffici giudiziari, sottoscrissero una tregua davanti all’allora procuratore nazionale Pietro Grasso. I pm nisseni si sentirono scippati dell’inchiesta che aveva portato all’arresto di Ciancimino jr per calunnia. Un arresto chiesto e ottenuto dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia, il cui approccio con il figlio di don Vito non era stato certo laico, a tal punto da definirlo una “quasi icona dell’antimafia”. Un po’ pochino, quel “quasi”, per lasciare aperto il beneficio del dubbio sull’attendibilità del super testimone che sarebbe presto crollata. Ciancimino jr falsificò, così recita l’atto d’accusa, un documento consegnato ai magistrati del capoluogo siciliano inserendo il nome dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, in una lista di servitori infedeli dello stato attribuita a don Vito Ciancimino.

 

Episodio diverso, ma reato uguale a quello per cui Ciancimino jr, un anno prima del suo arresto, era stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Caltanissetta che gli contestava di aver accostato il nome del super poliziotto a quello del signor Franco, il fantomatico agente dei servizi segreti. Franco o Carlo – avrebbe pure il doppio nome – è stato più volte riconosciuto da Ciancimino jr che servì l’ultima bufala indicando la fotografia di Ugo Zampetti, segretario generale della presidenza della Repubblica. Il consigliere per l’informazione del Quirinale si affrettò a scrivere appena qualche riga per dire che la vicenda era talmente ridicola da non meritare alcun commento. L’arresto di Ciancimino fu l’ennesimo episodio di una diversa valutazione, chiamiamola così, del testimone. A Caltanissetta si sorpresero che i colleghi avessero deciso di “scavalcarli” per arrestare Ciancimino, allora come oggi uomo chiave del processo sulla trattativa stato-mafia.

 

Grasso mise pace, obbedendo ai compiti del procuratore nazionale antimafia. Ci sarebbe anche un margine di maggiore operatività come previsto dall’avocazione delle indagini. Per “strappare” un fascicolo ai colleghi distrettuali, però, gli si dovrebbe contestare un’imperdonabile inerzia. E allora si va avanti nell’onesto, e volte anche utile, lavoro di coordinamento e supporto da parte dei magistrati in servizio alla Dna. Gente preparata, per carità, che vi arriva a fine carriera o nell’attesa di tornare in trincea. E’ il caso di Francesco Del Bene, pubblico ministero a Palermo che ha indagato sui clan di una grossa fetta della provincia e inserito nel pool del processo sulla Trattativa. Adesso da sostituto nazionale coordina le indagini sui clan di Agrigento e Trapani.

 

Per altri il trasferimento a Roma è un’occasione per liberarsi di lacci e lacciuoli che zavorrano la ricerca della verità. Una ricerca che, a onor del vero, è stata tutto fuorché frenata od ostacolata. Va avanti da anni, dilatando le categorie spazio-temporali. Le indagini si fanno e pure i processi, con esiti che, però, finora hanno picconato le ricostruzioni dell’accusa. Negli uffici della Direzione nazionale antimafia, lo scorso giugno, è arrivato Antonino Di Matteo. Per la memoria storica della Trattativa l’approdo romano ha segnato la fine di una parentesi che riteneva soffocante. Non si sentiva messo nelle “condizioni di lavorare a tempo pieno su inchieste delicatissime”. I procedimenti della piccola (?) giustizia quotidiana – furti, truffe e reati comuni – lo distraevano dalle indagini che contano. “Non poteva continuare all’infinito”, spiegava Di Matteo. A toglierlo dall’imbarazzo è arrivato il nuovo incarico, ottenuto dopo una paio di tentativi andati a vuoto, ricorsi amministrativi respinti e le polemiche per l’immissione nel nuovo ruolo congelato dal “posticipato possesso”. Di Matteo si sentirà finalmente libero di continuare a concentrarsi, almeno a Palermo, solo ed esclusivamente sulla Trattativa a cui, fra indagini e processi, lavora ormai dal 2010. E chissà quanto tempo ancora sarà necessario. L’ultima incognita riguarda i racconti carcerari di Giuseppe Graviano. Migliaia di pagine riversate nel processo, tutte da trascrivere, che incidono di parecchio nella stessa impostazione accusatoria.

 

Sono stati giorni di polemica, a Palermo, prima che il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti firmasse – anche questo rientra fra i suoi compiti – il provvedimento di applicazione di Di Matteo al processo Trattativa. Il capo dell’ufficio Francesco Lo Voi espresse solidarietà ai pubblici ministeri. Non citava mai per nome Di Matteo, ma è a lui che si riferiva nella e mail spedita ai tutti i pm. Il concetto era semplice: non esistono magistrati di serie A e altri di serie B. E la “notorietà effimera” scaturita da alcuni processi non è certo “un valore”. Ogni riferimento alle precedenti parole di Di Matteo e alla Trattativa non sembrava puramente casuale, anche se la luce dei riflettori sul processo si è via via spenta.

 

Alla fine il ministero della Giustizia è tornato sui propri passi dando il via libera all’immediato trasferimento che per i militanti delle Agende Rosse, Scorta civica e movimenti antimafia è diventata una sorta di incoronazione. Tutti pronti a scandalizzarsi e a gridare al complotto ordito per frenare Di Matteo, a urlare contro chi voleva trattenerlo a Palermo mettendo a rischio la sicurezza di un magistrato minacciato dalla mafia e per questo super scortato. Qualcuno fra i supporter del pm ha corretto il tiro in corsa. Prima ha manifestato nella piazza virtuale dei social network il dissenso nei confronti di chi voleva insabbiare le indagini cacciando Di Matteo, salvo poi scoprire che era stato il magistrato a chiedere il trasferimento.

 

Trasferimento ottenuto sulla base anche di una una nota del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, che aveva espresso riserve sul provvedimento di posticipato possesso. Un segno di distensione dopo che Scarpinato e Di Matteo sono arrivati allo “scontro” quando il procuratore generale ha avocato l’indagine sull’omicidio del poliziotto Nino Agostino (ucciso il 5 agosto dell’89 con la moglie Ida Castelluccio), adombrando inerzia investigativa dei pm assegnatari, e cioè Di Matteo e Del Bene, entrambi nel pool Trattativa. Quella Trattativa da cui Scarpinato ha cercato di affrancarsi nel tentativo, non riuscito, di fare condannare in appello il generale Mario Mori per il mancato arresto di Bernardo Provenzano.

Scarpinato è uno dei nomi in lizza per subentrare a Franco Roberti nel gradino più alto della Dna. La partita per la successione, prevista a novembre, è già aperta. Il grande favorito è il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Specie dopo che il plenum del Csm gli ha preferito Giovanni Melillo per la guida della Procura di Napoli. In corsa ci sono lo stesso Scarpinato, il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, quello di Firenze Marcello Viola, il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino e il procuratore di Siracusa Francesco Paolo Giordano.

 

Nel frattempo Roberti ha assegnato a Di Matteo il coordinamento delle indagini antimafia su Catania, mentre quelle su Palermo sono andate a Franca Maria Imbergamo, pm della procura di Giancarlo Caselli. Imbergamo subentra nell’incarico a Maurizio De Lucia, al quale da più parti si riconosce il merito di avere svolto al meglio il ruolo di coordinamento, ma che ha deciso di tornare in “trincea” come procuratore capo di Messina.

 

La competenza su Caltanissetta è passata a Teresa Principato, l’ex procuratore aggiunto di Palermo alla quale, scaduto il mandato, la legge ha consentito di tornare nell’incarico precedente all’ultimo ricoperto. E dunque è di nuovo sostituto alla Dna dove si studia molto e si indaga poco. Come da contratto, mica per colpevole inerzia. Principato non avrà più a che fare con la ricerca di Matteo Messina Denaro che le è costata tempo, fatica e interviste. A volte il tempo è stato pure sprecato per verificare improbabili piste come quelli inventate dell’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino, finito in carcere per calunnia. Nel panorama desolante ci si è aggrappati a tutto pur di acciuffare il latitante. Con il trasferimento di Principato le strategia in Procura, a Palermo, è cambiata.

 

Inerte non lo è stato Gianfranco Donadio, che prima di diventare consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nelle vesti di procuratore aggiunto della Dna si rese protagonista di un’indagine “parallela”, stoppata e denunciata nel 2016. Per quattro anni, tra il 2009 e il 2013, se n’era andato in giro per le carceri italiane a sentire centinaia di indagati, testimoni e pentiti con l’obiettivo di trovare una personale chiave di lettura sulle stragi di mafia del ’92. In pratica si era sovrapposto al lavoro di cinque procure – Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria – che lavoravano e lavorano sugli stessi fatti. Sono stati due colleghi – l’allora procuratore di Caltanissetta Sergio Lari (oggi procuratore generale) e quello di Catania, Giovanni Salvi (oggi procuratore generale a Roma) – a chiedere l’intervento del procuratore Roberti per evitare il pastrocchio. Donadio era convinto che per l’Attentatuni di Capaci sarebbe stata utilizzata una doppia carica esplosiva grazie alla manina dei servizi segreti e deviati. Una ricostruzione scartata dai magistrati di Caltanissetta, gli stessi che hanno smontato i processi sulla strage di via D’Amelio costruiti sulle bugie di Vincenzo Scarantino e degli altri falsi pentiti. A Roberti toccò il compito di regolare il traffico delle indagini antimafia e bloccare l’esuberanza di Donadio, finito nel frattempo sotto procedimento disciplinare davanti alla Procura generale della Cassazione.

 

Tra le iniziative di Donadio ci fu l’interrogatorio di Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il Nano, così è soprannominato Lo Giudice, si era “dimenticato” di raccontare che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”. Si era pentito nel 2010, ma tre anni dopo Lo Giudice era evaso dagli arresti domiciliari. Trovò il tempo di scrivere due memoriali per accusare i magistrati Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e l’allora capo della Squadra mobile di Reggio Calabria, Renato Cortese, di averlo obbligato a raccontare fesserie. Di balle c’erano soltanto le sue. Arrestato in una villetta, si pentì di nuovo. Ed ecco spuntare gli immancabili uomini dei servizi segreti che lo avevano avvicinato per tappargli la bocca. Sapevano che Lo Giudice aveva parlato di faccia da mostro alla fine del 2012 al procuratore Donadio. Poi, la circolazione delle notizie, ha fatto sì che anche i pm della Trattativa interrogassero il Nano e che quelli di Reggio Calabria accogliessero a braccia aperte la ricostruzione dei colleghi palermitani. Ecco servita la declinazione calabrese della Trattativa che sarà oggetto della futura stagione giudiziaria. C’era un patto segreto tra Cosa nostra e ’ndrangheta per costringere le istituzioni a frenare l’azione antimafia.

 

E’ alla Direzione nazionale antimafia che Aiello, ex poliziotto della Mobile di Palermo, ha vestito per la prima volta i panni di “faccia da mostro”, lo sfregiato della stagione del misteri. Senza le dichiarazioni di un pentito l’intuizione di un magistrato non avrebbe acquisito lo spessore necessario. Qualche giorno fa Massimo Bordin sulle colonne di questo giornale ha riportato il resoconto di un colloquio investigativo. Una chiacchierata, perfetta per il ruolo dei sostituti della Direzione nazionale antimafia, partita con un’insicurezza e chiusa con una certezza. Si ha l’impressione – magari ingannevole come tutte le impressioni – che pm e collaboratore di giustizia sapessero esattamente cosa volessero l’uno dall’altro. “Non riesco a visualizzarne il volto”, diceva il pentito a proposito dell’uomo sfregiato. Il pm chiedeva: “Era stato coinvolto in fatti stragisti?”. “Sì, metteva le bombe”. “Le faccio un esempio che può apparire stupido – proseguiva il pm – lei ha mai messo una bomba in un asilo?”. “No”. “E quello dove metteva le bombe?”. “Le ha messe in un asilo”. “Era coinvolto nella strage di Capaci?”. “Ma chi? Quello? Ah, sì”. “Le ha parlato di altri attentati?”. “Non ricordo”. “Della strage Borsellino?”. “Sì, se non ricordo male”. “Dell’Addaura?”. “Mi pare di sì”. “Della strage alla stazione di Bologna?”. “Come no? Si vantava di aver partecipato”. “Quell’uomo era calabrese?”. “Aveva un accento calabrese”. “Si chiamava Giovanni?”. “Giovanni, sì”. “Di cognome Ajello?”. “Sì. Giovanni Ajello. Sì”. Da un’insicurezza a una certezza. I toni del colloquio erano diventati rassicuranti, confortevoli e il sistema criminale teorizzato.

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