Philippe Noiret, Ugo Tognazzi e Andréa Ferréol in “La grande bouffe” di Ferreri (1973). Nella foto in basso, il regista. In programma a Venezia “Dangerous but necessary. La lucida follia di Marco Ferr

Ferreri di follia e colori

Fabiana Giacomotti

Ritratto del regista che esplorò il conflitto tra uomo e donna. A Venezia il documentario di Selma Dell’Olio

Prontoooo. Sono Marco Ferreri. Sto cercando un costumista che metta una pelliccia di leopardo a una scimmia. Sei libera?”. E’ l’autunno del 1977. Nicoletta Ercole ha ventitré anni. Libera, potrebbe esserlo. Ma riattacca il telefono. Sa già chi le ha fatto lo scherzo, imitando il vocione di Ferreri, appena lo becca gliene dice quattro. Il telefono squilla una seconda volta. “Sono sempre Marco Ferreri. Senti, se il lavoro ti interessa vieni qui adesso, subito”. E le dà l’indirizzo del suo studio di allora, ai Parioli. Telefonata vera, o almeno così sembra. Nicoletta salta sul motorino e vola. In un certo senso, non ne è mai scesa. Vent’anni di amicizia, dodici film, un numero incalcolabile e forse anche improbabile di costumi ideati, scelti e fatti indossare agli attori quasi in totale autonomia creativa dopo, Ercole è diventata produttrice, con Mauro Cappelloni, di un docu-film dedicato al regista di “La grande bouffe” e “Storia di Piera”, scomparso vent’anni fa, che viene presentato in queste ore alla 74esima Mostra del cinema di Venezia. Si intitola “Dangerous but necessary. La lucida follia di Marco Ferreri”; l’ha scritto e diretto Anselma Dell’Olio, simbolo di riconoscimento sul Foglio una bassottina, che i lettori conoscono dal 1996 per i suoi reportage cinematografici trasversali, un inestricabile e puntuto mix di costume, cronaca, vita vissuta, e gli spettatori della tardissima serata di Raiuno come il più implacabile dei critici della petite bande di Gigi Marzullo a “Cinematografo”.

 

Per uno di quei casi della vita che tali non sono mai, “Ciao maschio”, il film della pelliccetta di leopardo ma anche di un delizioso golfino azzurro da neonato che la scimmia Cornelio indossava con molto stile, fu risolutivo per entrambe. Contribuì a lanciare Nicoletta Ercole, fino a quel momento assistente di nomi come Dante Ferretti, e offrì nuove prospettive, oltre a “un’esperienza sconvolgente e decisiva” anche ad Anselma, che fino a quel momento non si era mai troppo allontanata da Los Angeles, dove lavorava per il cinema dei grandi, da Dino De Laurentiis e Franco Cristaldi a Luchino Visconti, come adattatrice, aiuto regista per i dialoghi, producendosi insomma in tutte le attività favorite dal suo bilinguismo e dalla sua strabordante passione per il cinema.

 

Abbandonata Veterinaria, non gli animali, si occupò "dell'essere umano nella sua essenzialità corporea e desiderante"

Questi settantasette minuti di pellicola sono il loro omaggio a un nome che, temono, è stato dimenticato troppo presto: un viaggio “nel cosmo unico, insieme sovrannaturale e terragno, di un uomo che abbandona gli studi di veterinaria ma mai gli animali, scegliendo di occuparsi principalmente dell’essere umano nella sua essenzialità corporea e desiderante”. Fra i suoi film spagnoli, italiani e francesi, come “El cochecito”, “La cagna”, “L’ultima donna”, “Dillinger è morto”, “La grande abbuffata”, “Chiedo asilo”, “Ciao maschio”, “Storia di Piera”, “La donna scimmia”, nel docu-film compare come ovvio Ferreri, mentre riflette sulla propria nomea di provocatore; vi sono le risposte ironiche e taglienti dei suoi attori feticcio, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret, e molto Ugo Tognazzi, il suo alter ego. Sono molte anche le testimonianze nuove: Hanna Schygulla, Isabelle Huppert, Andréa Ferréol, Ornella Muti, oltre ai collaboratori più stretti come il musicista Philippe Sarde, e Radu Mihaileanu, oggi regista di buon successo di film come “Il concerto” e “Vai e vivrai”. Il prologo, poetico, è stato affidato a Roberto Benigni, il maestro Roberto di “Chiedo asilo”, Orso d’oro al Festival di Berlino del 1979, rassegna che ha sempre molto amato Ferreri. Per tutta la durata della pellicola, nessuno di loro pronuncia una sola volta la parola “convenzionalità”: non ce n’è uno che racconti di essere stato ingaggiato se non in modo del tutto eccentrico, personale, e anche un po’ brutale, affettivo, carnale, da quel milanese della provincia, con la parlata larga dalla sonorità tonanti.

 

“Chiederti il curriculum non era il suo metodo” racconta Anselma. “Oltre alla segnalazione di una persona competente, gli bastava guardarti e osservarti con quello sguardo azzurro traforante e – quando si sentiva a suo agio – incantevole, per decidere se fidarsi di te”. A lei, oltre al contratto di aiuto regista per i dialoghi di “Ciao maschio”, Ferreri offre un piccolo ruolo come attrice e drammaturga di un teatrino off femminista, carica che Selma aveva ricoperto davvero pochi anni prima, nel 1969, come co-fondatrice e direttore del New Feminist Repertory and Experimental Ensemble of New York City. Qui si impone la nota personale: conosco Selma da circa vent’anni, ma riconoscerla nelle inquadrature con i capelli lunghi pettinati di lato, il golfino abbottonato fino al collo e l’aria della femminista della prima ora, mentre spacca una bottiglia di birra in testa a Gerard Dépardieu perché Abigail Clayton possa violentarlo con calma, mi ha fatto un po’ impressione e la cronaca di questi giorni sulle violenze intraculturali non c’entra. La verità è che Ferreri mette sempre a disagio chi vorrebbe lasciare le redini della propria vita in mano al superIo. Il controllo assoluto non faceva per lui, né nel rapporto con gli attori né tanto meno con i collaboratori, e per questo non è un caso che si sia sempre affidato a personalità decise e capaci di totale autonomia anche sul tema, fondamentale, del costume. Piero Tosi nella “Donna scimmia”, per esempio: qualcuno maligna che non ebbero praticamente mai modo di confrontarsi perché tutte le mattine alle cinque Tosi doveva chiudersi in sala trucco con Annie Girardot per farle applicare la barba un pelo dopo l’altro, lavoro di inimmaginabile meticolosità che forse solo Tosi avrebbe potuto svolgere senza impazzire, e dire che arrivava dal set del “Gattopardo”. Eppure, basta riguardarsi il film, che fra l’altro figura in buona posizione nella lista dei Cento capolavori italiani da salvare, per rendersi conto che non andò così: l’eleganza pacchiana, brillante fino all’untuosità, di cui è vestito l’ambiguo sfruttatore Tognazzi, nasce da una profonda comunione di intenti fra il regista e il suo costumista. Tosi e Ferreri, Ferreri e tutti gli altri si erano già detti tutto quel che c’era da dire prima del ciak. Era il suo metodo: zero curricula e anche zero rotture di scatole, possibilmente.

 

Nicoletta Ercole, la produttrice del film che è stata costumista per Ferreri, e l'abito da Madonna confezionato in una notte

“Non si può neanche immaginare quanto  fosse allarmato per un’attrice straniera che voleva sapere a tutti i costi come dovesse aprire una porta” dice il fotografo Fiorenzo Niccoli, che lo ritrasse in un meraviglioso servizio fra le botteghe artigiane del ghetto di Roma, nei pressi di palazzo Mattei dove abitava, fra barbieri e calzolai ora scomparsi: “Come tutte le persone adorabili, detestava le complicazioni”. Con Ferreri, la costruzione dei personaggi avveniva quasi da sé: “Non esisteva copione, dunque bisognava prevedere l’imprevedibile”, dice Ercole, che aveva preso l’abitudine di ficcare sempre nel bagaglio una grossa confezione di coloranti per tessuti Iride, e di setacciare i mercatini dell’usato con una frequenza inusitata perfino fra i costumisti, che di trouvailles e di recuperi vivono: la modisteria anni Cinquanta rivisitata di Hanna Shygulla in “Storia di Piera”; le pellicce maculate, già allora messe all’indice, acquistate sui banchetti della provincia e rimontate per un effetto cromatico ricco e sensuale. La stessa, molta, nudità, il costume più difficile da indossare, quello più amato da Ferreri. E’ difficile immaginare un regista come Ferreri fissato su ambientazioni e costumi come Luchino Visconti che, è storia, esigeva set allestiti come case abitate, con la biancheria nei cassetti e gli asciugamani in guardaroba.

 

E’ però molto possibile che, nella sua “compassione per noi incespicanti figli di Eva”, Ferreri provasse all’improvviso l’esigenza di un abito, di una forma, di un colore che di questo cammino accidentato fosse testimonianza e simbolo. L’abito rosso di Piera, lupa e ninfa, che svolazza ai due lati del sellino della bicicletta mentre pedala verso una nuova avventura sessuale lungo la piazza metafisica di Ferrara, è immagine di una potenza erotica e al tempo stesso di una conoscenza della natura femminile così precisa e limpida da lasciare senza fiato. Due pennellate di rosso vivo fra le gambe: sesso, sangue, potenza generativa. L’abito ispirato alle Vergini tardo-quattrocentesche di Ornella Muti che partorisce in una buca sulla spiaggia: il mistero celestiale e bestiale della nascita nella sua iconografia più conosciuta.

 

“Eravamo già tutti in albergo, quella sera”, racconta Nicoletta Ercole, “quando Marco mi chiama e mi dice di aver bisogno di un abito da Madonna, blu, per la mattina successiva. Per cosa, dico io: “Per Francesca, per la scena del parto”. Ancora prima di rendersi conto che nel piano di lavorazione non era prevista nessuna delle due cose, Nicoletta si guarda attorno e vede che, nella camera d’albergo dove si trova, il materasso è rivestito di broccato bianco. Sveglia assistente e sarta, lo taglia e lo fa cucire in una più che discreta imitazione della “Madonna Aldobrandini” di Raffaello Sanzio, lo tinge nella vasca da bagno dando fondo alla solita, provvidenziale fornitura di Iride Color, e finisce di asciugarlo verso le sei del mattino con il phon. Francesca, cioè Ornella, lo indossa mezz’ora dopo; Ferreri non chiede spiegazioni e non si felicita, regale e dimentico, esattamente come aveva fatto pochi anni prima sul set di “Storie di ordinaria follia” trovandola sul set nuda a eccezione di un paio di calzini bianchi e di scarpe di pezza col cinturino, trouvaille di un negozio tradizionale cinese. Visconti neanche a citarlo ma nemmeno Fellini, a cui Ferreri molto può essere avvicinato, avrebbero preso per decisa e inappellabile la scelta, concordata fra la Ercole e la Muti per ovviare a una insicurezza personale dell’attrice.  Ferreri, che è protagonista e ritiene ogni suo film “girato esattamente come si doveva”, ma non estende il proprio egocentrismo a un calzino o a una toque, la trova evidentemente geniale e la sfrutta, senza perderci neanche un minuto.

 

Nel film il regista riflette sulla propria nomea di provocatore. Rispondono gli attori feticcio Noiret, Mastroianni, l'alter ego Tognazzi

Le sue uniche fissazioni erano spaziali, com’è chiaramente percepibile da ogni inquadratura, e cromatiche. In ogni suo film, c’è almeno un elemento arancio sole, fosse pure un asciugamano come in “Dillinger è morto”, e appena possibile un abito, un drappo, un mantello in una variante più o meno accesa o stemperata dell’indaco. Ed ecco allora Hanna Schygulla, l’Anna di “Il futuro è donna”, in camicia azzurra nell’assalto al concerto di Pierangelo Bertoli dove, in un passaggio fra morte e vita, perisce il marito Gordon, e si salva, protetta dai loro corpi, Malvina, Ornella Muti incinta. L’azzurro, il colore della Vergine, che si trasferisce dalla camicia della Schygulla alla veste rinascimentale di Ornella: “Ferreri, oltre alle sue idee, sempre all’avanguardia, di cui impossessarsi a poco a poco, aveva una sua palette, molto precisa”, dice Ercole, che orchestra praticamente l’intero “Banquet de Platon”, dalle toghe degli ospiti alle tovaglie del simposio, attorno a queste due tinte. Il colore della potenza maschile, della rinascita, della fertilità, della creatività artistica e sessuale, della fiducia in se stessi e negli altri. L’indaco, la tinta dell’elevazione spirituale e del risveglio interiore. Fuoco e acqua, elemento maschile e femminile.

 

“Intorno a Marco Ferreri spesso aleggiava una sostanza cosmica; una magia, un incantesimo, una trascendenza. Aveva antenne che captavano sonorità nascoste, rimosse, spesso pericolose (per sé e per gli spettatori), lungimiranti e primarie”, scrive Anselma Dell’Olio nelle note di regia: e per esserne certi “basterebbe il modo in cui ha assorbito e restituito prima di tutti con chiarezza e senza storpiature la questione femminista e della coppia nei suoi film. Nemmeno Mary Wollstonecraft o Simone de Beauvoir avrebbero saputo drammatizzare con tanta affilata lucidità la condizione femminile e il tormentato, contraddittorio dialogo maschio-femmina quanto l’ha fatto lui in ogni suo film”. La libertà che Ferreri garantiva a collaboratori, amici, alla stessa amatissima moglie, Jacqueline, è la stessa che ancora offre a chi lo guarda: Anselma dice che i suoi film sono “così limpidi e poco ermetici” che si rischia di restarne perplessi e anche sconvolti. Ma è della scoperta, e della catarsi, quello di cui molti hanno paura. Del colore arancio.

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