La statua di Cristoforo Colombo è rimossa da alcune università. E si susseguono atti vandalici contro le sue statue (qui a Detroit)

Isteria americana

Giulio Meotti

I nuovi iconoclasti. La guerra al passato è sfociata in violenza politica a Charlottesville. Complice un autismo culturale per cui siamo diventati tutti razzisti, compreso Cristoforo Colombo

In principio fu lo scandalo dell’Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba su Hiroshima. Nel 1994 lo Smithsonian di Washington, il museo più importante d’America, decise di limitare la commemorazione del cinquantenario della bomba a un semplice troncone della carlinga del B-29, accompagnato da un breve video. Eliminati i testi che avrebbero dovuto illustrare l’attacco a Hiroshima, in cui si sottolineava la “responsabilità” di Truman di usare la bomba contro un Giappone sconfitto, “da punire” nel nome della vendetta “bianca”. Da allora, le “history wars” sono uscite dai musei per entrare nelle piazze d’America, toccando picchi di isteria sociale e di violenza politica, con il rischio di disintegrazione non soltanto delle statue, ma dell’identità e della coesione nazionale.

  

Prendiamo quanto è avvenuto in sole ventiquattro ore. A Durham, in North Carolina, un gruppo di manifestanti abbatteva con una corda la statua di un soldato confederato davanti alla sede del tribunale. Giovani attivisti si sono accaniti sulla statua deposta, fra schiamazzi e grida di giubilo. Intanto le statue dedicate agli eroi confederati venivano rimosse a Baltimora, pochi giorni dopo che una donna era stata uccisa da fanatico suprematista bianco a Charlottesville, in Virginia. A mezzanotte, una squadra di operai e agenti di polizia ha iniziato a strappare via i monumenti dai parchi e dalle piazze di Baltimora. A Phoenix, intanto, catrame e piume venivano gettate sul monumento ai confederati. A New York, i “guerrieri della giustizia sociale” prendevano di mira la statua dell’ex presidente Theodore Roosevelt, esposta al Museo americano di storia naturale. “Decolonizzate il museo”, scandiva la folla di attivisti. A qualche chilometro di distanza, alla base militare di Fort Hamilton, il reverendo Khader El-Yateem, candidato democratico al consiglio comunale, guidava una manifestazione per cambiare nome alle strade che onorano il generale Robert E. Lee e il generale Thomas Jonathan “Stonewall” Jackson, due simboli della confederazione sudista. Intanto, alla Duke University, qualcuno pensava bene di spezzare il naso di una statua di Robert Lee, mentre a Washington imbrattavano il grande monumento ad Abramo Lincoln e ad Atlanta la folla attaccava il monumento alla pace al Parco Piedmont, scambiandolo per un simbolo sudista. Intanto uscivano articoli, come quello sull’Atlantic, in cui si chiedeva di abbattere le statue dei confederati che si trovano nella hall del Congresso. L’isteria dilagava anche oltreoceano. Il King’s College di Londra annunciava la rimozione dei busti dei suoi padri fondatori per sostituirli con un “muro della diversità”.

  

E’ una infanzia della storia che passa dalla guerra al passato, un revisionismo viscerale che sfocia in un autismo culturale, alimentando un desiderio di “libertà dalla storia”, di anno zero. Scene che ricordano gli zeloti che hanno attaccato le cattedrali durante la Riforma, mozzando teste alle statue, distruggendo reliquie, spezzando vetrate e spruzzando vernice sulle pareti delle chiese. Gli iconoclasti credevano di purificare la chiesa dall’eresia, così come in America si attaccano simboli, statue e dipinti per purificare una cultura giudicata “razzista”. Ma in un momento in cui le divisioni americane si stanno drammaticamente approfondendo, in cui scrive Ross Douthat sul New York Times si rischia la “guerra fredda civile”, e gli americani si stanno raggruppando attorno a fazioni ideologiche sempre più ostili l’una all’altra, si dovrebbe unire il paese. Donald Trump non lo sta facendo, ma anche eliminare i monumenti culturalmente ostili non sembra la via più saggia per farlo.

  

Due giorni prima delle statue confederate, nel mirino c’era finita una scultura in pietra che raffigura un indiano e un puritano all’ingresso della Biblioteca Sterling di Yale. L’opera è stata “ritoccata”. La bibliotecaria, Susan Gibbons, ha dichiarato che il “comitato dell’università per l’arte negli spazi pubblici” ha rilevato che la presenza di quella scultura non era “appropriata”. Yale ha ordinato che l’arma del puritano venisse cancellata. Un mese prima, a censurare i puritani era stata Harvard, che aveva deciso di cambiare l’inno recitato alla cerimonia di laurea eliminando ogni riferimento ai padri fondatori dell’università. A maggio, la statua del presidente dei sudisti, Jefferson Davis, è stata rimossa a New Orleans da operai dal volto coperto, mentre manifestanti con le bandiere confederate gridavano “vigliacchi” e “totalitarismo”. L’isteria si autoalimenta. Il sindaco di New Orleans, Mitch Landrieu, ripeteva che la rimozione “porta un messaggio chiaro e inequivocabile” della città per celebrare “la nostra diversità, inclusione e tolleranza”. Molti di questi monumenti furono installati negli anni Cinquanta, in segno di protesta per la desegregazione, quando la linea Mason and Dixon delimitava nettamente il sud e già sulla porta che dava accesso alle toilettes era affisso un cartello: “For whlte only”. Questi monumenti possono essere facilmente portati via. Ma la gran parte sono stati installati oltre un secolo fa, durante la grande elaborazione del lutto nazionale per la guerra civile e mostrano soldati sudisti sconfitti, tristi, battuti. George Washington, come Thomas Jefferson, James Madison, James Monroe e Andrew Jackson, erano proprietari di schiavi. Così come James K. Polk, che ha invaso e annesso la metà settentrionale del Messico, tra cui la California. Verranno abbattute anche le loro statue e rimossi i loro nomi? Sfregeranno anche il loro volto scolpito sul Monte Rushmore?

  

All’Università del Missouri è partita una petizione per rimuovere la statua di Thomas Jefferson. E’ in corso una damnatio memoriae, il cui scopo nell’antica Roma era super politico, non certo per diffondere la “tolleranza”. Si trattava di disonorare gli imperatori depositati spogliandoli dalla memoria pubblica. Come ha fatto l’Università del Texas quando ha rimosso una statua di Jefferson Davis. Il dibattito sui simboli confederati ha preso vita quando nove persone sono state uccise in una chiesa nera in Carolina del Sud nel giugno 2015 da un suprematista bianco. C’è chi chiede di spostare i monumenti in musei e altre istituzioni culturali. Come Anna Lopez Brosche, presidente del consiglio comunale di Jacksonville, Florida: “È importante non dimenticare mai la storia della nostra grande città”. Campagne sono lanciate anche contro i monumenti a John Breckinridge, procuratore generale degli Stati Uniti. Se ci si sposta a nord, in Canada, impazza la stessa guerra al passato. Brian Hutchinson ne dà un resoconto su Macleans: “Cornwallis, Langevin, Ryerson, Begbie: nomi simboleggianti il razzismo, il colonialismo, l’odio e la violenza. Ecco perché le statue e altre rappresentazioni di questi uomini bianchi e defunti – e ho nominato solo alcuni dei padri fondatori, giudici e coloni del Canada – devono essere rimosse dalla vista del pubblico. Così insistono alcuni, le cui voci sembrano diventare più forti giorno dopo giorno. E invece no, sono statisti della nazione i cui nomi non devono essere dimenticati, dicono altri. C’è chi suggerisce che, al posto della rimozione, si potrebbero mettere intorno al monumento ‘pannelli interpretativi’, che aiutino nel difficile compito di ponderare le diverse e complesse sfaccettature della storia”.

  

In Inghilterra, l’Università di Oxford è stato teatro di furiose proteste e dibattiti sulla rimozione della statua di uno dei più antichi benefattori dell’università, Cecil Rhodes, cui intitolata la Rhodesia (oggi corrispondente a un territorio fra Zambia e Zimbabwe). “Rhodes deve cadere”, questo il nome della campagna iconoclastica. Alla Queen Mary University, attivisti hanno rimosso la placca in memoria del re Leopoldo II, cugino della regina Vittoria, dopo le proteste contro il monarca belga “genocida e colonialista”. Nel 1992 la Regina d’Inghilterra venne contestata all’inaugurazione del monumento a Londra a Sir Arthur Harris, lo stratega dei bombardamenti a tappeto sulla Germania.

  

Ma nel mirino della “giustizia sociale” in America non ci sono soltanto gli eroi sudisti. Dopo proteste e petizioni, l’Università di Pepperdine, in California, ha abbattuto la statua di Cristoforo Colombo, “simbolo dell’oppressione” e “genocida”. A Detroit, una statua di Colomba è stata vandalizzata con un’ascia conficcata in fronte. Anche a Barcellona, politici e attivisti vorrebbero tirare giù la statua dedicata a Colombo sulle Ramblas, uno dei monumenti più caratteristici della città catalana. La guerra a Colombo è fatta dal movimento “indigenista” che mira a una condanna senza appello degli europei. Università, città, stati persino, stanno cambiando il nome della festa di Colombo che si celebra ogni secondo lunedi di ottobre. Come Cambridge, Massachusetts, che celebra la giornata non in omaggio allo scopritore, ma alle sue “vittime”. L’iconoclastia non è un nuovo fenomeno. Nel 1640, il regime puritanico inglese di Oliver Cromwell raggiunse il suo apogeo istituendo un “Comitato per la demolizione di monumenti alla superstizione e all’idolatria”. E, dalle statue di Lenin e Stalin in Russia a quelle di Saddam Hussein in Iraq, alla caduta dei regimi c’è sempre un abbattimento di statue e monumenti. Ma c’è un’importante differenza tra una iconoclastia in cui i leader di nuovi regimi sostituiscono i simboli dei vecchi, e la nuova iconoclastia. Quello che vediamo oggi è una campagna senza precedenti per rimuovere i simboli che incarnano l’essenza della civiltà occidentale. Lo spirito occidentale di avventura e scoperta è diventato qualcosa di cui vergognarsi.

  

Così, sotto le gru e le ruspe oggi non ci finiscono soltanto gli eroi sudisti della storia americana, i simboli della “alt right” trumpiana, ma anche la statua di un grande gesuita all’Università di St Louis come il grande belga Pierre-Jean De Smet, il cui monumento è stato rimosso perché colpevole di “suprematismo cristiano”. Quella statua era lì da sessant’anni, accusata di “simboleggiare la dominazione culturale e la schiavitù bianca”. Dove non c’è una statua da abbattere, c’è un nome da esorcizzare e cancellare. E’ la campagna per il “renaming”. Yale ha cambiato il nome del Calhoun College, vicepresidente degli Stati Uniti e schiavista. La Rutgers University ha cancellato il nome di Sojourner Truth, filantropo e schiavista. Harvard ha rimosso uno scudo con il vessillo di una famiglia di schiavisti. Si attacca pure Woodrow Wilson, presidente americano e promotore della Società delle Nazioni, il cui nome è nel mirino a Princeton per le sue idee sul razzismo.

  

Stessa foga contro la statua di Junipero Serra, il francescano spagnolo che nel Settecento cristianizzò la California. Al Wellesley College lo scultore Tony Matelli aveva installato un’opera nel campus chiamata “Sleepwalker”, che raffigura un uomo calvo e in mutande. Studentesse femministe arrabbiate hanno scritto al direttore del museo: “Cosa fa questa statua se non ricordarci il privilegio maschile?”. Alla fine, l’università ha ceduto e rimosso la statua. Ci sono docenti, come Sarah Bond dell’Università dell’Iowa, che teorizzano lo smantellamento delle statue perché la scultura bianca in marmo “continua a influenzare le idee suprematiste bianche”. Sarebbero capaci di abbattere anche il David di Michelangelo. E’ la stessa psicosi ideologica che porta le riviste di critical studies, i professori, i safe space degli studenti a trovare il razzismo pure nello yoga, nella feta greca, nello yogurt, nei balli latinoamericani, nei costumi di Halloween. Tutto diventa razzismo. L’unione degli studenti della Soas, la scuola di studi orientali di Londra, ha chiesto di rimuovere dal curriculum perfino Platone, Kant, Cartesio e Hegel in quanto “tutti bianchi”. All’Università di Yale, il corpo studentesco ha lanciato una petizione per “decolonizzare” il corso di letteratura, “è inaccettabile che si studino soltanto maschi bianchi”.

  

E non ci si accontenta di rimuovere le statue. Al rientro dalla pausa estiva, gli studenti dell’Università di Città del Capo, in Sudafrica, che avevano lanciato la campagna per rimuovere le statue di Cecil Rhodes, hanno pensato bene di andare in cerca di quadri di personaggi dalla pelle bianca e di bruciarli nel cortile. Un dirigente studentesco ha detto alla stampa locale: “Dobbiamo distruggere tutto”. Finiremo col chiedere scusa ai Talebani per aver condannato la distruzione dei bellissimi Buddha di Bamyan?

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.