Il liceo “Arnaldo” di Brescia

Il mio caro liceo

Michele Masneri

E intendiamoci, la nostalgia è solo per il classico (che qualcuno oggi vorrebbe abbreviare). Ricordi dall’augusto “Arnaldo” di Brescia

Ridurre il liceo (nel senso di accorciarlo). E perché non abolirlo del tutto? Come uno di quei riti tribali lesivi di diritti umani, soprattutto in provincia, soprattutto il classico. Però talmente identitario. E’ la caccia alla volpe italiana, il classico. Nelle nostre biografie sgangherate, a Brescia: “E che liceo hai fatto?”, era una domanda che suggerisce l’unica risposta possibile. “L’Arnaldo”. L’augusto liceo-ginnasio Arnaldo, collocato sul corso più araldico, Magenta, in un austero palazzo di drammatico Seicento bresciano, con due telamoni con bicipiti speciali a reggere la balconata del salone d’onore. A fine anni Ottanta, di fronte, allignavano Range Rover bianche e lancia Thema metallizzate con gli antennoni dei telefoni “veicolari” Tim che stormivano nel vento del boom, con mamme e papà di rampolli pronti a partire verso il lago. Intitolato ad Arnaldo da Brescia, allievo di Abelardo, eretico, bruciato sul rogo, rivalutato dai giansenisti: e infatti il culto giansenista allignava all’Arnaldo intimando alle classi dirigenti un capitalismo dolente, cifra della brescianità. 

 

Le prime lettere dell’alfabeto (soprattutto la A e la D) erano le sezioni destinate all’aristocrazia: medici, avvocati, notai. Però c’erano anche i posti in quota poveri, a patto di essere bravissimi. La mia amica A. aveva genitori hippy che si spostavano da una comune all’altra tra Ibiza e l’India e cercava come me di camuffarsi da media borghesia, col risultato che tutti la consideravano erede di qualche patrimonio almeno di terza generazione. Il nostro travestimento consisteva soprattutto nell’utilizzo delle camicie smesse di uno zio milanese dandy con le sue iniziali “M.d.S” con la “d” minuscola che ammiccava a quarti di nobiltà a cui ci si aggrappava disperatamente (complesso dell’impostore) e di un cappotto di loden verde che il nonno aveva comprato da Caprettini, il Brooks Brothers della città, un negozio che esibiva in una facciata di marmo e legno gli stemmi dei reali inglesi, e vestiva da generazioni i casati bresciani (oggi in drammatica chiusura nella de-gentrificazione del centro storico bresciano, pronto a far posto a uno Zara).

 

La A e la D le sezioni destinate a medici, avvocati, notai. Però c'erano anche i posti in quota poveri, a patto di essere bravissimi

Venendo da famiglia vagamente comunista e fricchettona, si era stati destinati alla sezione G, la più moderna, che  si chiamava “sperimentale linguistico”, dove la sperimentazione consisteva nello studiare una sola lingua, in quel caso il francese, per tutti i cinque anni. Le ore di materie scientifiche rimanevano le stesse, tanto per   quelli(orrore) che volevano studiare le materie scientifiche c’era il Calini (augusto liceo scientifico, che però come prestigio non era nemmeno paragonabile: il Liceo classico doveva formare signori, non scienziati). Si uscì così dunque praticamente madrelingua francese, con una educazione da perfetti diplomatici pronti per il congresso di Vienna, senza sapere una parola di inglese o saper fare un’equazione, con tutte le carriere e le vocazioni precluse. Sei pazzo, fare l’architetto! Si narrava di qualche lontano parente che provenendo dal classico avesse fatto ingegneria, ma erano leggende. I professori di matematica erano poi selezionati tra i più isterici, forse perché considerati ininfluenti, dunque sfogavano rancori e frustrazioni sulle nostre giovani menti.

 

Venendo da famiglia di professoresse (di lettere mamma, di francese la zia dal lato paterno, di matematica la sorella di mamma, di lettere la nonna) c’era una solidarietà di classe, dunque presunzione di colpevolezza dell’allievo. L’unica volta che ci fu una ribellione fu verso il professore di educazione fisica. “A casa nostra non si guarda novantesimo minuto, sa!” disse la mamma con uno sdegno al maniaco del calcio.

 

 

Ma pur disdegnando la scienza, il classico temprava, con studio anche forsennato di “humanities”, e invece meticoloso delle strutture sociali. Momenti drammatici: quando, temprati dallo studio del latino, in quarta ginnasio, si scoprì costernati che anche in greco c’erano le declinazioni: dunque non ci sarebbe stata tregua allo studio micidiale mnemonico (ancora oggi ci perseguitano i 10 verbi greci che all’imperfetto fanno l’allungamento in -ei. Il Rocci con la sua copertina blu morbida e il lettering jugoslavo in bianco. “Il Tantucci”; “il Badellino-Calonghi”; erano tutti nomi capaci di far rabbrividire. Se sopravvivevi al ginnasio, potevi poi non fare più nulla per i tre anni di liceo (e forse per tutta la vita).

 

Allora l'Arnaldo dispiegava i suoi frutti con la severità dei suoi figli: Nanni Bazoli, Mino Martinazzoli, Guido Carli

I primi giorni erano esattamente come in “Ovo Sodo”. “Bianchi? Mi saluti il papà”. “Rossi, ah, il nipote del pediatra?”. “Abbracci a casa”. Vigeva una rigida divisione di casta. Per i non-nobili la scelta del classico si era guadagnata sul campo, c’era stato un giorno in cui alle medie  la professoressa convocava la famiglia e diceva “secondo noi (sospensione) potrebbe fare il liceo (pausa) classico”. I genitori campagnoli a quel punto rimanevano in silenzio, soddisfatti o terrorizzati di un percorso che poi avrebbe portato (argh) alla fatidica laurea. Era la fine dell’innocenza. Addio figli ragionieri e magutt, addio redditi veloci, benvenuto il dottore in famiglia, sussiego e discendenti che si sarebbero vergognati per sempre di loro: ecco l’alterità.

 

Tutti i parenti di mamma avevano peraltro fatto questo liceo, c’era la zia Luisa che trasgressiva era stata cacciata o sospesa perché aveva osato truccarsi (era a cavallo del ’68). L’araldica però essendo dal lato materno non compariva nel cognome, come dei Lucien de Rubempré molto dei poveri; quindi noi si era qui sconosciuti anzi noti per un cognome che rimandava piuttosto a una squisita gastronomia, autrice del miglior vitello tonnato della città e di celebri carciofini, non più della famiglia, purtroppo (ma l’odore dei carciofini per noi rimase a lungo intollerabile, una macchia di unto sul blasone, prima delle autoaccettazioni). 

 

Clash culturali: il papà poi aveva deciso d’andare a vivere in campagna a far vita semplice e sana, e si abitava dunque “in paese”, fruitori di corriera, che si prendeva di fronte alla celebre pasticceria Zilioli, in viale Venezia, cento metri dall’Arnaldo, verso le ville dell’old money bresciano (i Bazoli, i Wührer della birra, le dinastie democristiane dei Gitti e dei Fontana, tutti fruitori dell’Arnaldo). La corriera vergognosa Cav (Cooperativa Autolinee Valtenesi) portava nei paesi oscuri con orari rigidi, alzatacce mattutine, soprattutto lo stigma della paesanità.  Si diceva così d’abitare “al lago”, che pareva più chic, avendo già introiettato micidiali complessi: “indichi lo studente in quale settore lavora il capofamiglia” chiedeva uno dei primi test in classe al ginnasio, test conoscitivo, e noi che si era onesti, scrivemmo “primario”, perché il papà si era dato all’agricoltura, e la professoressa poi venne il giorno dopo a dire “ci dev’essere uno sbaglio, qualcuno ha scritto agricoltura”, dunque autodenuncia, spiegazioni, ludibrio. Il papà per niente complessato minacciava invece, contro “i fighetti”, di venirci a prendere a scuola col trattore Same con cui arava l’orto, e la minaccia poteva essere credibile, e si immaginava il rosso trattore in fila tra le Thema e Range Rover.

 

Si era già stati discriminati “in paese”, peraltro; bullizzati alle medie rustiche, dove si era imparato a dissimulare il benessere (sentendoci però in colpa contro quegli onesti figli della campagna); mentre poi “all’Arnaldo” si ribaltavano le parti, si era improvvisamente quelli “di paese”, quelli “della corriera”: dunque si imparò presto quella sensazione che non se ne andrà mai dell’esser fuori posto comunque, sempre. “In paese” si era gli unici infatti a non andare a catechismo e nessuno ci aveva visti mai a messa, dunque bistrattati e sospettati – mio padre siccome aveva la barba girava voce che fosse inopinatamente dei testimoni di Geova; un giorno un bambino locale ci fermò e disse: “tanto lo sappiamo che siete mussulmani!”, con due s nel testo. 

 

Ma pur disdegnando la scienza, il classico temprava, con studio anche forsennato di "humanities", e meticoloso delle strutture sociali

E dunque si voleva un po’ di integrazione e anonimato, e si decise per la cresima, e all’ultimo il prete don Alessandro disse però che il povero prevosto era malato, e se per caso qualcuno di noi aveva qualche conoscenza. Venne su allora il cugino Carlo Manziana che era stato vescovo di Crema (e aveva insegnato all’Arnaldo), con una Fiat Regata con autista, e il prete stravolto dovette rivedere tutti i suoi schemi e dette un piccolo party solo per noi. Da parte di mamma c’era tutto un  mondo Fuci, amici di padre Gemelli, con uno zio generale aeronautico molto belloccio grande amico di Papa Montini, ma questo il povero prete non poteva sospettarlo. (L’altro cugino, “don Agostino”, era poi Agostino Ferrari-Toniolo, nunzio alla Fao e poi pure beato, e si sperava in un bel vescovone da Grande Bellezza quando finalmente lo si andò a conoscere a Roma, trovando invece una stanzuccia a Roma a piazza Irnerio, con dentro un mistico e forse davvero un santo; si parlò di fede invece che di pranzi. Mai ‘na gioia).

 

Invece, al “ginnasio”, si esplorava questa borghesia che non si era mai vista, in casa: compagne di scuola mandavano cartoline hard da Gstaad e Sankt Moritz.  Il papà di una nostra amica, celebre avvocato, correva a casa a guardare “Non è la Rai”. Un altro aveva una villa liberty con saletta-discoteca, e una Thema 8.32, con motore Ferrari e un alettone sul cofano posteriore che fuoriusciva automaticamente a una certa velocità. Un deputato del Psi, con una moglie bellissima che aveva organizzato la festa per i suoi 40 anni al “Sesto senso” di Desenzano (al Sesto Senso c’era un rent-a-car che cinquecento metri prima affittava Ferrari o Lamborghini, per fare bella figura in quel breve tragitto). Soldi vecchi e soldi nuovi che disperatamente tentavano di confondersi. I figli dei leasing e delle banche in ascesa. Il sabato pomeriggio, le “vasche” su corso Zanardelli, intitolato al presidente del Consiglio bresciano che (ovviamente) aveva fatto il nostro liceo. Il negozio Naj Oleari. Il piumino Henry Lloyd ricevuto per una Santa Lucia ma poi ritirato con micidiale ritorsione e punizione per qualche blanda malefatta. La libreria Rinascita, dietro casa, prima degli algoritmi, consigliava sapientemente e creava dipendenze. “Se hai letto questo, ti piacerà questo”. E “reading” a chilometri zero poi storici, Aldo Busi col suo “Seminario”, prima edizione, con dedica.

 

Si cercava di sopravvivere. In quarta ginnasio, causa lavori in corso, si faceva lezione nell’aula magna, cioè il salone d’onore, sotto gli affreschi; con volumetrie che permettevano di fumare, stando in ultimo banco, senza che i professori si accorgessero. Neanche quella di lettere, plenipotenziaria al ginnasio, che aveva un nome latino, era discendente dell’abate Tosi che aveva fatto convertire il Manzoni, era un’illuminista lombarda di culto (ancora) giansenista. Ogni scusa era buona per andare a visitare la casa del Manzoni, sapevamo a memoria tutti gli Inni Sacri, tutte le edizioni dei Promessi Sposi, “la ventisettana, la quarantana”, avevamo studiato i personaggi della biografia che ormai ci erano parenti: il più simpatico ci sembrava naturalmente quel Carlo Imbonati molto hipster e proustiano che bazzicava donna Giulia. Il feticismo manzoniano attecchiva poi in giovani menti ingenue: quando si andò a Parigi per la prima volta nel 1989 s’ebbe tempo di andare nella chiesetta di San Rocco, dove “le célebre écrivan italian Alexandre Manzoni” il 2 giugno del 1810 “rétrouva la foi de son baptême”; aveva cioè avuto il celebre sbrocco agorafobico. Si erano portate le foto, della lapide, alla professoressa, e lei contenta (mentre i compagni sibilavano: lecchino!), ma poi il giorno dopo ci aveva interrogato lo stesso tre volte, in tutte e tre le materie, perché era illuminista e non ci si doveva fare illusioni. La professoressa aveva rinunciato al giorno libero perché credeva “nella continuità dell’insegnamento” e tra una visita in via Manzoni e l’altra però ci faceva fare schede di politica internazionale, leggere Ray Bradbury, andare al Piccolo Teatro, studiare Vargas Llosa come autore e come politico: senza pensare che con questo bagaglio di sapienze sofisticate saremmo finiti nell’Italia futura dei no-vax.

  

Ma allora l’Arnaldo dispiegava i suoi frutti con la severità dei suoi figli: Nanni Bazoli di una dinastia di “arnaldini” salvava le banche alzandosi in piedi sul diretto Brescia-Milano per far posto alle signore, in seconda classe. Sua cognata Giulietta poi morta nella strage di piazza Loggia insegnava da noi. E poi Mino Martinazzoli (anche lui utente povero, da corriera, giansenista dolentissimo; brescianità in purezza, più volte ministro, ultimo segretario della Dc, rimase poi ossessionato tutta la vita da una traduzione dal greco sbagliata all’Arnaldo), e Guido Carli. Eravamo tutti figli di quel liceo, una élite però penetrabile, le grandi famiglie lasciavano i posti alla media e piccola e microborghesia (a patto di farsi un mazzo così). A giugno la scuola finalmente chiudeva, con alto tasso di “ritiri” e “dropout”. Il Giornale di Brescia registrava i caduti e pubblicava le pagelle d’oro e d’argento, come medaglie al valor militare. La nonna Rina conservava i ritagli (d’argento era la media del 7, d’oro quella dell’8). E alla fatale maturità, qualcuno per rinviare all’infinito decisioni scomode, e in mancanza di vocazioni redditizie, con sindrome di Stoccolma, decideva di fare Scienze Politiche: cioè poi di rifare il liceo classico un’altra volta; e possibilmente, non uscirne mai più.

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