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Di buon Mattino

Marianna Rizzini

Così il giornale di Napoli e il suo direttore Alessandro Barbano sono diventati un avamposto di garantismo anti gogna

La città della Procura mediatica e delle inchieste arrembanti evaporate in fretta. La città degli arresti di massa (decine di persone) a cui seguono, spesso, assoluzioni di massa. La città del sindaco ex magistrato e del magistrato da copertina. Napoli in questi anni è stata (anche) questo. Ma, allo stesso tempo, è sempre a Napoli che si è levata una voce-antidoto garantista con valenza nazionale: quella del principale quotidiano della città, il Mattino. E’ dalle colonne del Mattino, infatti, che è stato criticato prima di tutto un metodo (intercettazione a strascico e presunti mostri – ma innocenti fino a prova contraria – messi alla gogna prima del processo). E il metodo non è stato criticato tanto nella forma dell’attacco al singolo magistrato, quanto attraverso una campagna costante contro il perseguimento della ribalta per l’inchiesta stessa, in spregio del giusto processo.

 

Le inchieste mediatiche della procura partenopea, e il controcanto del quotidiano (sul metodo Woodcock e non solo)

C’è insomma, nella Napoli di Luigi De Magistris e di Henry John Woodcock, un “caso Mattino”: il quotidiano storico della città, uno dei pilastri del gruppo Caltagirone, che, come fosse un giornale corsaro, si mette a chiedere all’establishment: “Ma vi siete accorti che abbiamo un problema, se tra il 2007 e il 2013 è stata messa sotto inchiesta, da vari pm, un’intera classe dirigente?”. E siccome il caso particolare (di Napoli e del Mattino) è anche un caso nazionale (cosiddetto “circo mediatico-giudiziario”), il controcanto del Mattino ha oltrepassato i confini della città, per esempio a inizio luglio, quando Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, intervistato dal direttore del Mattino Alessandro Barbano, ha definito “controproducente” la riforma del Codice antimafia che estende le confische e i sequestri di patrimoni nei confronti degli imputati di reati contro la pubblica amministrazione. E quando Barbano fa notare a Cantone che “uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale, Giovanni Fiandaca, ritiene la riforma di nulla utilità e ‘frutto di un populismo penale onnivoro, che strumentalizza politicamente la lotta alla corruzione come spot elettorale’” e che “uno dei maggiori costituzionalisti italiani, Sabino Cassese, la giudica contraria alla Carta e controproducente nella lotta alla corruzione, perché – dice – avrà solo l’effetto di scoraggiare gli onesti”, Cantone dice di condividere “le preoccupazioni espresse dai due illustri cattedratici… La modifica che si vuole approvare al Codice antimafia non è né utile, né opportuna e rischia persino di essere controproducente”. Poi Cantone dice una cosa che non ci si aspetterebbe da Cantone: e cioè che in alcuni parlamentari “prevale un’idea che non condivido ma che trova molto consenso nel paese, e cioè pensare di risolvere tutti i problemi con norme sanzionatorie che finiscono, di fatto, con il delegare la soluzione sempre alla magistratura penale”. E insomma il Mattino, negli ultimi mesi e negli ultimi anni, è stato in prima linea, dal lato garantista, contro alcune delle principali campagne mediatico-giudiziarie in cui spesso, anche se non sempre, c’entrava il pm Henry John Woodcock. Ma andando oltre Woodcock: il punto era ed è il metodo della Procura che, nel corso degli ultimi dieci anni, ha via via via messo sotto accusa (poi gli imputati sono stati assolti), tra gli altri, un vicecapo della Polizia, un capo della Squadra mobile, il vertice dell’Autorità portuale e della Commissione tributaria, oltre a vari esponenti politici (alcuni con vicenda giudiziaria ancora in corso), sempre con sollevamento di grande cagnara mediatica (da Antonio Bassolino a Clemente Mastella ad alcuni membri della giunta Iervolino). Solo che poi tanta aggressività inquisitoria non ha prodotto grandi risultati a livello di condanne (in molti casi, non ha prodotto alcun risultato).

 

Poco più che cinquantenne, ma con quasi 40 anni di esperienza, Barbano si definisce “uomo del Novecento”

Antefatto: Alessandro Barbano, il direttore del Mattino, è parte stessa del “caso Mattino”, pur mantenendo un profilo mediaticamente bassissimo. Ha 56 anni, è anche professore universitario (insegna giornalismo politico ed economico) e ha iniziato la carriera circa quarant’anni fa, ragazzino, al Quotidiano di Lecce, come cronista di qualsiasi cosa (cronaca bianca, nera, giudiziaria, mondana, sport). La versatilità forzata gli è stata utile in seguito, quando Barbano si è ritrovato alla Gazzetta del Mezzogiorno e poi in diverse redazioni – dal Sud al Nord – della Gazzetta dello Sport. Da lì è passato al Mattino e al Messaggero (di cui poi sarà vicedirettore), per tornare al Mattino come direttore, carica che ricopre dal dicembre 2012. Non è un volto da talk-show, quello di Barbano, autore di saggi giornalistici in cui si sofferma molto sulla linfa di cui si nutre il cosiddetto“circo-mediatico-giudiziario”, e cioè sui social media e sul “giornalismo partecipativo”. Chi lo conosce, a Napoli, indica un recente convegno all’Università Federico II (tema: “La crisi della delega”), come uno dei momenti in cui Barbano si è soffermato sul “cambiamento di mentalità” che alimenta alla base quella che potrebbe essere chiamata l’attitudine giustizialista: un atteggiamento perennemente e arbitrariamente indignato contro “la casta” (e i quindi contro i governanti). Diceva Barbano, in quel convegno, definendosi prima di tutto “uomo del Novecento”, che non soltanto è in crisi “la delega” per come è stata per decenni concepita (e, diceva, prima che Beppe Grillo considerasse “aberrazione” l’articolo 68 della Costituzione), ma che la delega è in crisi prima di tutto a partire dall’idea di sapere condiviso: il sapere “disintermediato e soggettivo” che non è più “appannaggio del sapiente”, da cui la diffusione delle varie mitologie antiscientifiche, con conseguente esplosione del pregiudizio-superstizione anti-vaccini. Poi la delega va in crisi a livello politico (“uno vale uno”: tradotto significa che la delega è diventata inutile, dice Barbano senza nascondere la propria non-simpatia per l’impostazione ideologica e la linea a Cinque Stelle).

 

Partendo dalla crisi della delega si arriva anche alla fiducia cieca nei giustizieri un tanto al chilo. Il Mattino diretto da Barbano ha posto la questione in questi termini: possibile che la classe dirigente cittadina venga messa alla sbarra e preventivamente mostrificata, magari a seguito di intercettazioni a strascico, come nel caso di “Appaltopoli”, inchiesta in cui a Napoli sono finite in carcere o ai domiciliari 66 persone, poi scarcerate dal riesame (l’impianto accusatorio parlava di una corruzione diffusa tra impresa, politica locale, università, professioni, ordini, municipalizzate, Belle Arti)? Scriveva infatti Barbano il 2 aprile: “Le scarcerazioni a Napoli hanno i piedi di piombo e i passi felpati. Sono macigni sul destino delle inchieste, ma rischiano di passare inosservate. Così, la sforbiciata del tribunale del riesame sugli arresti di Appaltopoli non riceve sui media neanche la metà dello spazio e della ribalta che l’inchiesta ebbe appena tre settimane fa, al suo deflagrare. Eppure, se su 28 custodie cautelari i giudici ne cancellano 15, ne riformano 9 e ne confermano solo 4, qualcosa di importante vorrà pur dire. Che, per esempio, la disciplina che consente in casi eccezionali di togliere la libertà ai cittadini, innocenti fino a prova contraria, qui ha regole diverse o, piuttosto, ha regole violate. Che, ancora, la magistratura a Napoli è una potente ma non giustificabile macchina di dolore umano. Dispiace dover dire ‘la magistratura’, usando un termine generico che coinvolge l’intero corpo dei magistrati, impegnati in una stragrande maggioranza a perseguire i reati con spirito di sacrificio e con rigore professionale… Dispiace che un malinteso senso dell’indipendenza rimetta la più delicata funzione di una democrazia, quella a cui è sottesa la libertà individuale, a un soggettivismo privo di controllo nella fragilissima catena gerarchica della magistratura inquirente, e privo di una verifica efficace nel filtro preliminare della magistratura giudicante…”. Ma il direttore del Mattino chiama in causa anche la politica e, in particolare, in ministro della Giustizia Andrea Orlando, anche capo della minoranza del Pd: “…Sembra che la giustizia sia completamente uscita dal suo radar. Preoccupata, com’è, a dilaniarsi nelle sue faide…continua a perdere contatto con il corpo del Paese…C’è un guardasigilli che ha mancato l’impegno, assunto alla sua nomina, di rifondare il sistema in direzione dell’efficienza, della velocità e soprattutto del garantismo. Da mesi è in tutt’altre faccende affaccendato, nel tentativo di contendere all’ex premier la leadership del suo partito. C’è un Consiglio Superiore della Magistratura che non ritiene di doversi occupare di come la custodia cautelare, cancro del sistema giudiziario italiano, dispieghi le sue metastasi nella società. Nessuna indagine conoscitiva, nessuna presa di coscienza responsabile, rispetto al numero di arresti puntualmente smentiti dai tribunali del riesame e all’impatto di inchieste deflagrate su media nelle indagini preliminari e poi evaporate nel percorso che porta al giudicato…”.

 

Altro caso-monstre, il caso Consip. Due mesi fa Barbano si è domandato: “A che titolo una procura indaga, senza averne la competenza, riguardo a fatti e ipotesi di reato su cui opera un’altra procura? E a che titolo intercetta, senza indagarle, persone indagate da un’altra procura per un reato per cui non è consentito disporre intercettazioni? Perché questo è accaduto nell’inchiesta Consip. Il controllo di legalità, funzione suprema della democrazia affidata alla magistratura, a Napoli si è svolto mettendo a rischio la stessa legalità. Questo in troppi, a ogni livello istituzionale, hanno finto di non vedere. Come se il fatto non li riguardasse. Come se tutto fosse opera esclusiva di un maldestro o piuttosto infedele capitano dei carabinieri del Noe”. Si continua a guardare il dito e non la luna, scriveva il direttore del Mattino: “…Dove il dito è la fuga di notizie che ha portato il colloquio privato tra l’ex premier Matteo Renzi e il padre Tiziano sulla prima pagina del ‘Fatto quotidiano’. …Ma c’è anche la luna. La luna è chiedersi come è stata motivata la richiesta del pm napoletano al gip di intercettare Tiziano Renzi, due mesi dopo che l’indagine era stata trasferita a Roma. Chi l’ha autorizzata e perché. Perché Napoli, che indaga ormai solo sugli appalti del Cardarelli, dovrebbe tenere sotto controllo il padre dell’ex presidente del Consiglio. Che non è indagato a Napoli, ma è indagato a Roma senza essere intercettato. E che rapporto ha quest’intercettazione con la famigerata relazione del capitano Scafarto, che fa falsamente dire all’imprenditore Alfredo Romeo di avere incontrato Tiziano Renzi. L’una è servita all’altra? Un falso è presupposto di un abuso, di un illecito, o di cos’altro?”.

 

Ed è sempre da un editoriale di Barbano che arriva un secondo appunto, per così dire, al ministro Orlando, l’uomo che, per il Mattino, poteva riformare la giustizia e non ha riformato abbastanza: “…Cosicché la fuga di notizie pare la cosa più grave di cui dolersi…Ma nessuno è disposto a mettere in discussione il potere della magistratura di intercettare persone non indagate, con motivazioni anche solo apparenti e di fatto insindacabili. Nessuno sembra comprendere che la casa di vetro, più volte richiamata quando si tratta di difendere tanta pervasività penale, somiglia sempre più a una casa degli orrori. Di certo non l’ha compreso il guardasigilli, dormiente fino a quando è stato tirato giù dal letto dalla gravità di ciò che emergeva, e solo l’altro ieri indotto a chiedere accertamenti che da almeno un mese erano indifferibili. Non c’è da stupirsi. Orlando ha fatto già approvare dal Senato (con il voto di fiducia!) un disegno di legge che legittima l’uso del virus informatico da parte del pm, salvo successiva convalida del gip, per intercettare a telefono spento…”. E si torna al punto fondamentale della battaglia “di civiltà” del Mattino (così dicono che la chiami il suo direttore): raddrizzare le storture a livello processuale e al momento delle indagini, evitando intanto che il centrosinistra al governo, e poi in campagna elettorale, si faccia trascinare dalle forze populiste sulla china del “dàgli al presunto colpevole” purché gli indignados (tra piazze e web) si plachino.

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.