Viggo Mortensen e Liv Tyler interpreti di Aragorn e Arwen nell’adattamento cinematografico del “Signore degli Anelli” di Peter Jackson (2001)

Quando amore è morte

Edoardo Rialti

Ulisse, Aragorn e Arwen. Da Omero a Tolkien, storie di chi rinuncia all’immortalità in nome di una passione

“Che zitella divento, se mi manca il coraggio di amare la morte!” (Arthur Rimbaud)

 

“Più straziante del morire è la morte per amore di chi sta per morire” (Emily Dickinson)

 


 

Ci sono momenti in cui lo sguardo di un artista intercetta un evento, un dettaglio, piccolo o grande che sia, ed esso pare schiudergli l’accesso a un altro mondo, che gli si sovrappone. Pensiamo al primo sorriso che Bice, figlia di Folco Portinari, rivolge a Durante Alighieri, detto Dante, nelle strade di Firenze, o Dostoevskij in Siberia che riceve la stessa elemosina che Raskol’nikov getterà nel fiume in Delitto e Castigo, o al suicidio politico dell’amico e poeta Gallo per Virgilio, che pare riverberarsi in tutti i suoi vinti, da Didone a Turno, e si unisce alla costante riflessione sull’esilio e gli scartati dalla Storia che già compare – nos patriam fugimus – fin dai primi versi delle Bucoliche. Non si tratta, naturalmente, di ridurre l’espressione artistica alle occasioni che l’hanno innescata, ma comprendere come certi eventi si carichino d’un valore e una profondità che evoca una storia, simile e dissimile, che di quell’evento non è semplicemente la morale o il significato.

 

Anche la vita immaginativa del piú importante creatore di miti del Novecento nasce con uno di questi cortocircuiti, di queste visioni che si sovrappongono e fondono. Il giovane J. R. R. Tolkien continuava a correggere quella che chiamava la “lingua delle Fate”, il futuro elfico, nel fango e nei terremoti delle trincee della Prima guerra mondiale, e dalla impensabile fusione di questo “vizio privato” con una grande tragedia collettiva iniziarono a delinearsi le vicende epiche della Prima Era della Terra di Mezzo. E fu proprio quando Tolkien tornò convalescente in Inghilterra, nel 1917, che una passeggiata serale con l’appena sposata Edith Bratt (l’amore per la quale aveva sostenuto un forzato silenzio di ben tre anni, imposto dal precettore di Tolkien, padre Morgan) fece sbocciare in lui una storia che avrebbe continuato a cantare per tutta la vita. Mentre si udiva la musica di un pianoforte, Edith si tolse le scarpe e danzò alla luce della luna. Lì, nella radura “dove le cicute ondeggiavano fiorite e belle” nacque Lúthien, la principessa Elfica che viene scorta dal mortale Beren, stanco e piagato dalla lunga guerra con gli Orchi: “Era di sera, nel momento in cui la luna saliva in cielo, e Lúthien danzava sull’erba sempre verde nella radure lungo le rive dell’Esgalduin. Ed ecco il ricordo di tutte le sue sofferenze abbandonò Beren, ed egli cadde in preda a un incantesimo, poiché Lúthien era la piú bella di tutti i figli di Iluvatar [Dio]. Azzurro era il suo abito come il cielo senza nubi, ma grigi i suoi occhi come la sera stellata; il suo mantello era contesto di fiori dorati, ma i capelli erano scuri come le ombre del crepuscolo. Simili alla luce che resta sulle foglie degli alberi, alla voce di acque chiare, alle stelle che stanno sopra le brume del mondo, tali erano il suo splendore e la sua grazia; e il suo volto era luminoso”.

 

Una passeggiata serale con l'appena sposata Edith Bratt fece sbocciare in Tolkien la storia che avrebbe cantato per tutta la vita

E’ l’inizio di una delle sue leggende piú celebri e amate, che capovolge il mito di Orfeo, in tutti i sensi. Perché i due innamorati non sosteranno solo le impossibili imprese richieste dal re-padre di lei, ma sfideranno anche la morte che aveva strappato Beren al mondo per una ferita di un lupo mostruoso che l’ha privato d’una mano. Lúthien si recherà allora, con coraggio e audacia impensabili, al cospetto del Valar Mandos, l’angelo-dio preposto alle sale della morte, e il suo canto, che aveva già conquistato il cuore di Beren e acceso la lussuria del satanico Melkor, ottiene l’impossibile: “Fu il piú bello che sia stato contesto in parole, il canto piú triste che il mondo udrà. Immutato, imperituro, ancora lo si canta in Valinor, inaudibile al mondo, e ad ascoltarlo i Valari si rattristano. Ché Lúthien intrecciò due temi di parole, quello del dolore degli Eldar e quello della pena degli Uomini, le due stirpi che sono state fatte da Iluvatar per dimorare in Arda, il regno della Terra tra le innumerevoli stelle. E mentre gli stava inginocchiata davanti, le lacrime cadevano sui piedi di Mandos come pioggia sulle pietre; e Mandos fu mosso a pietà, come mai era stato prima né è mai stato in seguito”. Ma anche Lúthien deve rinunciare alla sua immortalità, e i due godranno solo d’una breve isola di felicità condivisa, prima di spegnersi entrambi. Tolkien stesso la considerava “la principale delle storie del Silmarillion” e – significativamente – “un anello fondamentale all’interno del ciclo”. Vi riechieggiano il folklore gallese del Mabinogion, il norreno Tyr che perde una mano nelle fauci d’un lupo, la valchiria Svava, innamorata del mortale Helgi, che proteggeva in battaglia sotto forma di cigno; rinata come Sigrun, la semidea morirà di dolore dopo il consorte. La fanciulla fatata intravista nei boschi è un leitmotiv che dai Lai di Maria di Francia arriva alle ballate popolari (e forse persino nella Matelda dantesca), mentre, ovviamente, la storia degli amanti ingiustamente divisi è un topos di tutte le letterature e le latitudini, da Romeo e Giulietta al persiano Firdusi.

  

Quanto peso avesse sempre avuto per Tolkien, lo si comprende bene recandosi sulla sua tomba, accanto a quella della consorte. Entrambe portano anche i nomi del guerriero umano e della principessa elfica. Come scrisse in una lettera al figlio dopo la morte di Edith, la vita insieme non era stata sempre facile, ma “Lei era la mia Lúthien (E sapeva di esserlo). Sempre (specialmente quando eravamo soli) continuavamo a ritrovarci in quella radura e camminavamo mano nella mano. Ma la storia è finita male e io non posso invocare l’inesorabile Mandos”. Beren il Monco doveva aggirarsi da solo nella Terra di Mezzo.

 

"Non vi sono più navi che mi porteranno sin là, e devo attendere la Sorte degli Uomini, volente o nolente: la perdita e il silenzio"

“Questa storia è cresciuta nel raccontarla”, scrisse Tolkien del suo Signore degli Anelli (dove la stessa vicenda si verifica ancora una volta nell’amore tra l’umano Aragorn e la principessa elfica Arwen). E’ un’espressione che vale non solo per tutto il suolegendarium, ma anche per i singoli episodi. La vicenda di Beren e Lúthien fu da lui variata e rinarrata decine di volte, in prosa e in poesia. Il figlio Christopher, curatore della sterminata eredità narrativa paterna (da bravo filologo, Tolkien ha lasciato di che far esultare, o impazzire, chiunque si arrischi a un’edizione critica), ripercorre l’evoluzione di questo nodo immaginativo nel volume Beren e Lúthien, appena uscito in contemporanea mondiale. Certamente vi se avverte la carenza di un ceppo centrale (una delle tante e belle versioni complete) intorno a cui far ruotare le altre, ripercorse per accenni e versioni antologiche, ma il libro permette di cogliere la permanenza e al contempo trasformazione di alcuni nodi fondamentali (il mostruoso gatto Tevildo delle prime versioni diventa il Sauron che conserverà la pupilla felina anche nel Signore degli Anelli). Il perno decisivo è decidere che Beren sia a tutti gli effetti un mortale. E’ proprio su questa differenza qualitativa, ben piú radicale di qualsiasi contrasto razziale, che si innestano i grandi temi tolkieniani d’un amore che si ribella ai ghetti e ai confini, che è in grado di varcarli e far sbocciare nuove alleanze (intorno a Beren e Lúthien si addensano le incomprensioni dei loro popoli, ma anche la solidarietà del mondo animale), e che è capace di abbracciare il dolore e la morte. Come notò lo stesso Tolkien in una lettera, le storie sulle coppie piú celebri della poesia “non parlano del matrimonio felice di questi grandi amanti, ma della loro tragica separazione; come se persino nella dimensione del racconto la grandezza e lo splendore in questo mondo corrotto si raggiungano attraverso il fallimento e la sofferenza”.

 

E’ davvero interessante notare come, in questa mitologia privata, venga esplorato un filone particolare del nostro immaginario collettivo. Sappiamo bene, come ci insegna Dante, che “Amor condusse noi ad una morte”, ma se siamo abituati a tornare, ancora e ancora, sul tema della passione che, per errori e opposizioni, porta gli innamorati a una sconfitta condivisa e prematura (da Antonio e Cleopatra a Paolo e Francesca, da Romeo e Giulietta alla Tosca), diverso è il caso dell’amore che abbraccia la morte, che rinuncia a una condizione superiore, magica o divina, per condividere la condizione dell’amato o dell’amata, “vestir i panni di funerea vita”, come canterebbe Leopardi.

 

Il cosmo greco è impostato proprio sull’abisso che corre tra gli dèi immortali e gli uomini, che invece non sono semplicemente i mortali ma – con ben piú sinistra precisione – “i morenti”, quelli che muoiono un po’ alla volta, ogni giorno, ogni secondo. Non tutti notano che, quando Odisseo rifiuta l’immortalità della Ninfa Calipso per tornare da Penelope a Itaca, egli faccia compiere un salto quantico alla celebre scelta di Achille (una vita breve ma gloriosa rispetto a una lunga ma nel nascondimento). “Calypto” vuol dire proprio “nascondere”, e a questa atemporalità, sempre giovane e beata, Odisseo ha il coraggio di preferire le zampe di gallina e i capelli ingrigiti della sposa che lo aspetta da vent’anni. Meglio morire a Itaca, con lei, nel cuore limitato ma autentico della propria storia. La principessa Alcesti si offre coraggiosamente al Demone della Morte, Thanatos, al posto del marito Admeto (sacrificio a cui padre e madre del medesimo avevano affettuosamente risposto picche). Gli dèi classici non commetterebbero mai un simile gesto. Possono elevare alle stelle, e perfino commuoversi per la sorte dei loro umani prediletti, ma mai piegarsi al giogo della morte. L’Artemide di Euripide visita Ippolito, il suo devoto morente, ma si allontana ben presto, “Conosci il destino a cui devi la tua fine. E ora addio! A me non è concesso di vedere chi muore e di contaminare con la vista dell’estremo respiro e della morte i miei occhi”. In pieno Novecento, Pavese farà dell’immortalità degli dèi classici – memore di Leopardi che contrapponeva il “corso immortale” degli astri al nostro “vagar breve” – un’immagine della beata atemporalità e atarassia della natura, a cui si contrappone la ridicola, eppure commovente tensione umana: “Cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?”.

 

Diverso, lo abbiamo già accennato, è il caso della mitologia nordica: piú di una valchiria si innamora – o è condannata a innamorarsi – di un mortale. Certo, c’è la kenosis, lo spogliamento del Cristo paolino, ma si tratta di abbracciare la morte per salvare l’intera umanità e poi risorgere vittorioso, e non di un amore passione che si vincola per sempre alla sorte di una creatura inferiore. Questo pare possibile o concepibile solo in chiave femminile (con piú di un’eco della perdita della condizione verginale e del biblico “lasciare la case del padre”), ed è molto facile che l’elogio “delle donne- capaci di fare sacrifici che nessun altro sa fare” sottenda vecchi stereotipi, come se, trattandosi d’amore, in fondo loro potessero e perfino dovessero permetterselo.

 

"E mentre gli stava inginocchiata davanti, le lacrime cadevano sui piedi di Mandos come pioggia sulle pietre; e Mandos fu mosso a pietà"

In attesa dunque di chi riesca finalmente a immaginare un Apollo o un Thor che si faccia mortale, possiamo tornare alla seconda storia tolkieniana che racconta un amore eroico tra Elfi e Uomini, quella di Aragorn ed Arwen, perché proprio nelle sue battute finali e piú strazianti, che non sfumano nelle nebbie misericordiose che avvolgono la dipartita dell’altra celebre coppia, è contenuta un’intuizione che ha il sentore inesorabile della verità, qualcosa che abbiamo sempre saputo e che risuona in noi, simile e dissimile a Odisseo e Penelope che si ritrovano invecchiati e sorridono tristi. Anche Arwen ha rinunciato all’immortalità per vivere con l’uomo che ama, ma, in questa versione, è comunque lui a dover morire per primo: “‘Non ti dirò parole di conforto, perchè per simili dolori non vi è conforto entro i confini del mondo, Ti attende un’ultima scelta: pentirti e recarti ai Rifugi, portando con te all’ovest il ricordo dei giorni trascorsi insieme, un ricordo sempre verde, ma pur sempre soltanto un ricordo; o, altrimenti la Sorte degli Uomini’. ‘No, mio amato sire’, ella rispose, ‘quella scelta è stata fatta oramai da molto tempo, Non vi sono più navi che mi porteranno sin là, e devo attendere la Sorte degli Uomini, volente o nolente: la perdita e il silenzio. Ma voglio dirti, Re dei Numenoreani, che sinora non avevo compreso la storia della tua gente e la loro caduta. Li deridevo come se fossero stupidi e cattivi, ma ora finalmente li compiango. Perchè se questo è, in verità, il dono dell’Uno agli uomini, è assai amaro da ricevere’. ‘Cosi sembra’, egli disse. ‘Ma non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!’. ‘Estel, Estel!’, ella gridò”. Ed è proprio quest’ultima frase, apparentemente secondaria, il vero colpo di genio artistico. Perché Arwen chiama l’amato morente, urlando il suo nome elfico, che però significa “Speranza”. Come il cuore stesso della disperazione gridasse il suo contrario, e i due sentimenti si fondessero a loro volta, come le razze dei due innamorati. V’è in ciò un’ironia tragica e una commozione che sfuggono a qualsiasi analisi. Eternità e caducità, potere e fragilità si sono davvero mescolate in un’unica bevanda, che conosciamo bene tutti, visto che gli elfi e gli dèi sono comunque immagini dentro di noi cui attingiamo per esprimere i nostri sogni e aspirazioni, le immagini d’una vita perfettamente realizzata. Abbiamo tutti i nostri momenti “elfici”, immortali, perfetti, eppure sappiamo che essi sono inestricabilmente fusi a quelli piú deboli e caduchi, in noi e in coloro che amiamo. E anche noi conosciamo momenti in cui ci troviamo a gridare, come Arwen, una disperata speranza.

 

Si cita spesso la celebre espressione di Gabriel Marcel “Ama chi dice all’altro: tu non puoi morire”. Un’affermazione suggestiva ma dibattuta (sono parecchi millenni che continuiamo a romperci la testa essenzialmente su questo, da Socrate al “peso dell’anima” in sala operatoria). Ma chiunque abbia mai amato sa che ce n’è un’altra, che invece è sicuramente vera: “Se tu devi morire, allora io voglio morire con te”.

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