Il 17 giugno 1982 fu sciolto il consiglio d'amministrazione dell'Ambrosiano e arrivò un commissario della Banca d'Italia. Il 18 Roberto Calvi venne trovato morto a Londra. Foto LaPresse

Gli illustri precedenti del salvataggio delle banche venete

Stefano Cingolani

La soluzione trovata dal ministro Padoan per la Popolare di Vicenza e la Veneto Banca era già stata usata in passato. A cominciare dall’Ambrosiano

Corre l’anno 1978, mese di aprile e tutto è sossopra nel quartier generale del Banco Ambrosiano dove regna Roberto Calvi “l’indocile banchiere” (secondo Robert Buxton del Financial Times) dagli occhi di ghiaccio. La puzza di bruciato è arrivata fino in Banca d’Italia, ma i funzionari della Vigilanza inviati da Paolo Baffi non riescono a districarsi nel labirinto della finanza creativa ordito dal “banchiere di Dio” (secondo un altro ancor più celebre appellativo), soprattutto nel groviglio di filiali estere. Tanto che il rapporto viene depositato quasi un anno dopo, nel febbraio 1979. Gli emissari di Palazzo Koch registrano “segnali allarmanti” sia nella gestione sia nello stato di salute della banca nata per gestire i patrimoni della curia milanese. A marzo il governatore Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli vengono incriminati dai magistrati romani per “mancato esercizio dei poteri di controllo”. Baffi scampa la prigione per la sua età e la sua posizione, Sarcinelli invece trascorre due settimane a Regina Coeli. Le accuse crollano come castelli di sabbia sotto l’onda della verità. Si dirà poi che fu un atto di “terrorismo politico-finanziario”, ma la Banca centrale viene comunque decapitata (arriva Carlo Azeglio Ciampi) e per due anni Roberto Calvi fa di tutto e di più: aumenta il capitale, compera la Rizzoli con il Corriere della Sera in pancia, rafforza i suoi legami con lo Ior guidato da Paul Marcinkus, sigari avana e porpora cardinalizia, il quale ha eletto l’Ambrosiano come suo punto di riferimento. Finché il 20 maggio 1981 il banchiere non viene arrestato e poi condannato per esportazione illecita di capitali.

     

Un'operazione di sistema per salvare il Banco, ma diversamente da oggi, nessuno si sottrae alla richiesta di Calvi e Andreatta

La reazione dell’establishment economico e politico appare oggi paradossale: “Il gruppo Ambrosiano dà l’immagine di una costruzione solida – scrive Il Sole 24 Ore nel novembre 1981 – qualcuno l’ha definito persino un capolavoro e niente l’accomuna alle costruzioni e alle barchette di carta di Michele Sindona”. Gli eventi successivi lo smentiranno mostrando l’intreccio tra i due, eppure nel maggio 1982 l’Ambrosiano e la sua controllata Cattolica del Veneto fanno un ingresso trionfale in Borsa con tanto di visto della Consob, della Banca d’Italia e di Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, che poi cambierà drasticamente parere. Il 14 giugno gli ispettori aprono di nuovo i libri contabili, tre giorni dopo il consiglio d’amministrazione si scioglie e arriva un commissario dalla Banca d’Italia, Vincenzio Desario. Il 18 dello stesso mese viene ritrovato il cadavere di Calvi penzolante sul Tamigi, sotto il ponte dei Frati neri, abbandonato dai suoi sponsor ecclesiastici e politici (come Giulio Andreotti). La Banca centrale nomina tre commissari e comincia il complesso salvataggio che ci introduce al tempo presente. Il prudente Ciampi e il cauto Andreatta adottano la linea dura. Il 5 agosto viene revocato l’esercizio del credito all’Ambrosiano e il giorno dopo a Milano si costituisce la società per azioni chiamata Nuovo Banco Ambrosiano con la Banca nazionale del lavoro, l’Istituto mobiliare italiano, la Banca popolare di Milano, la Banca agricola di Reggio Emilia, il Credito romagnolo di Bologna, l’Istituto bancario San Paolo di Torino, la Banca San Paolo di Brescia.

    

E’ una operazione di sistema; ma a differenza da quel che accade oggi, nessuno si sottrae alla richiesta del governatore e del ministro: istituti creditizi di natura pubblica o parapubblica, privati, cooperative, banche popolari, insomma tutto lo spettro. E ci sono quelli che diventeranno protagonisti nella storia di questi giorni: il San Paolo di Torino (che esprime attualmente il presidente della Banca Intesa con Gian Maria Gros Pietro) e il San Paolo di Brescia dal quale Andreatta prenderà Giovanni Bazoli affidandogli il compito di guidare il Nuovo Banco Ambrosiano. Il professore, preclaro avvocato proveniente da un’antica famiglia cattolica grande amica dei Montini e di Giovan Battista, divenuto Papa Paolo VI, si reinventa banchiere e crea pezzo dopo pezzo il campione nazionale che oggi ha comprato la Banca Popolare di Vicenza e la Veneto Banca.

    

Il caso del Banco di Napoli. Il suo "tesoretto" nell'agosto dello scorso anno è stato destinato a sostenere il fondo Atlante

Bazoli ormai è solo presidente emerito e sta passando guai giudiziari per il ruolo avuto nella banca bergamasca Ubi. Ma non può non apprezzare che il sentiero storico dell’Ambroveneto, da lui tracciato, venga ripercorso oggi: la sua Intesa è diventata il soggetto creditizio egemone nel nord-est con evidenti implicazioni economiche, sociali, politiche. Il direttore generale Carlo Messina ha mandato un messaggio chiarissimo nella sua intervista alla Repubblica: “Il Veneto, che cresce ai livelli della Germania, con la nostra presenza può andare ancora meglio, anche grazie a un governatore come Luca Zaia”. Ci sarebbe da ringraziare anche il governo che si accolla i costi del salvataggio aumentando il debito pubblico, ma Messina ribatte che quei 4,8 miliardi già versati da Padoan sono tutt’altro che un regalo perché servono a evitare che vadano in fumo i 10 miliardi di obbligazioni emesse con la garanzia dello stato. Come dire che il favore lo ha fatto lui. Alcuni sostengono che esistevano alternative meno onerose per i contribuenti. La discussione andrà avanti e insieme ad essa il contenzioso giudiziario con azionisti e obbligazionisti, scaricato anch’esso sulle finanze pubbliche. C’è chi minaccia persino eccezioni di costituzionalità.

    

Certo, gli azionisti debbono pagare per i loro investimenti sbagliati, ma Guido Carli, in una dotta analisi delle crisi bancarie, fece “cadere un mito” quando scrisse che “il depositante meritevole di sostegno non è il piccolo e il medio bensì il grande. La legislazione americana prevede la difesa dei depositi fino a centomila dollari, però i depositi dai quali deriva il dissesto sono dell’ordine dei milioni di dollari”. Si riferiva al crac della Continental Illinois nel 1984, il più clamoroso dei suoi tempi. Ma succede sempre così, è la legge bronzea quanto iniqua del mercato finanziario. In Italia prevale l’ipocrita pudore sugli “ignari piccoli risparmiatori”, perché “il nostro sistema non è in grado di sostenere le conseguenze di dissesti bancari che disseminano le perdite tra i depositanti”, scriveva Carli. Quando fallì la Banca Italiana di Sconto nel 1921, “vi fu una sequenza di eventi che ebbero rilevanza politica non piccola, perché fu colpita quella media borghesia che cercò rifugio nel fascismo”. I tempi sono cambiati, Mussolini è una cupa ossessione. Gianni Zonin non è Calvi né tanto meno Sindona. E poi c’è l’Unione bancaria europea. Già, ma crac e salvataggi sono rogne lasciate ai governi nazionali con tutte le loro ricadute politiche, anche se la Vigilanza della Bce svolge un ruolo determinante e non sempre stabilizzatore.

    

Bazoli non può non apprezzare il fatto che il sentiero storico dell'Ambroveneto, da lui tracciato, venga ripercorso oggi

Gli stress test si sono rivelati esercizi teorici, l’insistenza dottrinaria che spinge per aumenti accelerati, talvolta forzati, di capitale puro (cioè senza utilizzo di bond o altri magheggi finanziari) ha finito per indebolire banche che avrebbero potuto cavarsela da sole con più tempo e una maggiore flessibilità. Il bail-in doveva mettere fine al dogma perverso del Tbtf, too big to fail, troppo grandi per fallire, liquidando le banche senza mettere le mani nelle tasche dei contribuenti, ma non è mai stato applicato per davvero. Tutti hanno usato denari pubblici come in Germania e in Gran Bretagna, oppure a spingere i pesci grandi a mangiare quelli piccoli come in Francia e Spagna dove il Santander ha ingoiato il Banco Popular. L’Italia ha seguito un po’ l’una un po’ l’altra strada. Il Montepaschi è stato nazionalizzato “temporaneamente”, le quattro piccole banche del Centro Italia vengono pagate dal Fondo di risoluzione alimentato dalle banche più solide, le due venete Bpv e Vb sono affidate a Intesa previo bonifico del Tesoro. Ma l’analisi comparata dei salvataggi è troppo complicata, meglio lasciarla agli esperti di credito e finanza. Noi raccontiamo storie.

    

La vicenda dell’Ambrosiano è rimasta sullo sfondo, invece tutti hanno evocato un altro salvataggio, quello del Banco di Napoli avvenuto esattamente vent’anni fa. Il caso è stato ricordato in un convegno storico sulle origini dei banchi pubblici napoletani (i primi a introdurre la moneta cartacea) organizzato dalla fondazione e dall’Università Federico II 16 e il 17 scorsi. I lavori sono stati conclusi da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia il quale ha citato le “storie terribili” del Banco di Napoli, Monte dei Paschi di Siena e Banco di Sicilia (finito in Capitalia e poi in Unicredit), per sottolineare che “la governance negli istituti di credito è fondamentale”. In tutti questi casi “c’è stato un coinvolgimento della politica e si è creato un binomio stretto dove bisognava separare gli interessi pubblici dagli interessi dei rappresentanti della politica locale”. Ma il caso napoletano è diventato anche un esempio virtuoso.

    

Quando, nel 1995, i funzionari della Banca d’Italia uscirono da via Toledo 177, dov’erano stati spediti dal governatore Antonio Fazio, si conobbe la reale dimensione dello sfacelo. L’ispezione era scattata subito dopo la morte del signore e padrone del Banco, Ferdinando Ventriglia, avvenuta l’11 dicembre 1994 a 67 anni. Lo chiamavano re Ferdinando, e non si trattava solo di uno sfottò perché il professore era Napoli nella sua quintessenza, raffinatezza intellettuale e clientelismo politico. “Per chiedermi i contributi mi chiamano perfino quando me ne sto chiuso al cesso”, diceva con una delle sue frequenti battute plebee. Nato a Capua il 29 marzo 1927, studia Economia e commercio all’Università di Napoli iniziando subito dopo una carriera durante la quale dà prova di grande capacità di sintesi e di visione, insieme a una conoscenza tecnica non comune. Studente modello, si diploma a soli 16 anni e a 20 è già laureato. L’apprendistato del giovane Nando è duro, ma anche fruttuoso. Il suo nome viene fatto a Pietro Campilli, ministro democristiano plenipotenziario per il Mezzogiorno, già al Tesoro con Alcide De Gasperi, che lo porta a Roma come suo braccio destro. Di qui, Ventriglia passa al Tesoro con Emilio Colombo. Torna al Banco di Napoli nel 1966 e diventa presto direttore generale. Tre anni dopo viene nominato amministratore delegato del disastrato Banco di Roma, uno dei tre istituti dell’Iri azionisti e finanziatori di Mediobanca. E inciampa su Michele Sindona entrando nel carosello delle consociate estere. Quando la Banca Privata finisce in bancarotta, Ventriglia viene convocato dai giudici. Contro di lui non c’è nulla di penalmente rilevante, ma perde la più grande occasione della sua vita: diventare governatore della Banca d’Italia.

    

Nel 1974 Guido Carli, suo grande amico, lo aveva già designato per la successione, ma all’ultimo momento viene stoppato da uno dei suoi più acerrimi nemici, Ugo La Malfa, che si era formato all’ufficio studi della Commerciale, era vicinissimo a Enrico Cuccia e si faceva paladino della finanza laica contro quella cattolica romana o lombardo-veneta. Per ricompensa arriva la nomina a direttore generale del Tesoro, dove rimane fino al ’77 guadagnandosi l’encomio solenne della comunità finanziaria per aver negoziato il salvataggio dell’Italia da parte del Fondo monetario. Il professore torna in banca e nel 1983 diventa direttore generale del “suo” Banco di Napoli. Nel 1991, con la legge Amato, l’istituto di credito viene privatizzato sempre secondo lo schema che affida alla Fondazione bancaria il ruolo di azionista di riferimento. Ma la lotta interna s’inasprisce e su Re Ferdinando, consumato dal male e amareggiato, maramaldeggia la magistratura. Subisce un avviso di garanzia, viene sospeso, ne esce “con le mani pulitissime”, ma ormai non può che gestire il suo declino, professionale, fisico, umano. “E’ tutto finito, i nuovi del Banco mi hanno addirittura murato una parte dell’ufficio”, confessa poco prima di morire divorato dal cancro. Intanto, gli ispettori della Banca d’Italia aprono i cassetti e spalancano il sancta sanctorum. Paradossalmente la via d’uscita viene suggerita dallo stesso Ventriglia che, insieme a Guido Carli, aveva lavorato alla legge Sindona. In sostanza, la Banca d’Italia viene autorizzata a erogare un prestito all’un per cento, per un importo pari ai titoli di stato concessi in garanzia. A fronte di questo materasso pubblico, si crea la Sga, una società veicolo che con i denari ottenuti acquista tutti quei crediti a rischio (allora ammontavano a 17.400 miliardi di lire), non al loro valore nominale, bensì al prezzo scontato di 12.442 miliardi (pari a 6.425 milioni di euro). Il Banco di Napoli gira alla Sga il finanziamento al tasso di mercato che nel 1997 è in media il 9,6 per cento. In questo modo, può anche ottenere un beneficio sul conto economico. Grazie agli incassi delle somme recuperate nel 2015 la “bad bank” ha fatto registrare un utile di quasi mezzo miliardo di euro.

    

Il Banco di Napoli è stato assorbito da Intesa Sanpaolo insieme alla bad bank, ma nel maggio 2016 il ministro dell’Economia riporta la Sga al Tesoro. E qui cala l’ombra del sospetto. Come mai? Guarda caso è la stessa società che adesso deve gestire i crediti marci delle banche venete, è lei che si è presa in pancia quel che Intesa non ha voluto. Ma allora era già tutto previsto, insinuano i complottisti in puro spirito grillino. In realtà nell’agosto dello scorso anno il “tesoretto” del Banco di Napoli è stato destinato a sostenere Atlante, il mitologico fondo che avrebbe dovuto salvare le banche senza denari dei contribuenti. Un mito, fascinoso, ma irreale come ogni mito. “Vedrete che alla fine lo stato ci guadagna”, ha scommesso Fabio Panetta, vice direttore generale della Banca d’Italia che si occupa di vigilanza anche a Francoforte. Già, tra altri vent’anni. L’esperienza dimostra che nel primo quinquennio si può recuperare anche il 40 per cento dei crediti deteriorati, poi tutto si fa più difficile. Chi vivrà incasserà, a meno che non spunti un’altra crisi bancaria pronta a diventare emergenza nazionale. E allora, impauriti dai forconi delle classi medie, i politici aumenteranno il debito pubblico o mungeranno i contribuenti che non possono sottrarsi; il che è la stessa cosa, basta togliere la freccia del tempo.