Hillary Clinton ospite di un talk show a Berlino (foto LaPresse)

La Rai e le sue sorelle

Come si dice servizio pubblico nell'Europa delle tv

Marianna Rizzini

Dopo le dimissioni di Antonio Campo Dall'Orto arriva Mario Orfeo come direttore generale. Ma resta il problema: che cosa fare di Viale Mazzini? Si può ancora riformare? Uno sguardo agli altri paesi

Antonio Campo Dall’Orto si è dimesso dalla carica di direttore generale Rai, Mario Orfeo è stato designato come suo successore ma, come capita con il cambio di stagione quando gli armadi nascondono orrori ed errori, si rimanda di giorno in giorno la discussione sottostante (e ricorrente): che cosa fare della Rai medesima? Da innumerevoli anni, infatti, a ogni nuovo governo e a ogni smottamento di maggioranze e minoranze in Parlamento, sempre e comunque alla Rai si guarda: Rai come specchio di quel che accade, Rai come eterno punto da programma elettorale, Rai come foresta di simboli in cui addentrarsi per cercare gli indizi di un qualche cambiamento (nuove alleanze politiche) o di una qualche restaurazione (vecchie geometrie partitiche che da Viale Mazzini vengono rilanciate perché Montecitorio intenda). Ma è proprio quello il problema: non appena la si vuole meno “dipendente dalla politica”, la Rai, c’è qualcuno che insorge dicendo che la Rai “è troppo in balìa del mercato” (la questione compensi delle star è soltanto uno dei punti di attrito sul tema). Di Rai irriformabile si è parlato sotto i governi Berlusconi e sotto i governi Prodi, sotto Massimo D’Alema e persino in epoca tecnica (con Mario Monti e con l’arrivo del Luigi Gubitosi supertecnico in viale Mazzini). Di Rai irriformabile si parla oggi, dopo le dimissioni di Campo Dall’Orto e sull’onda della disfida sul cosiddetto piano news, bestia nera degli ultimi, tormentati mesi: tanto che sotto Natale, per via del piano news, si dimetteva l’allora direttore per l’offerta informativa Carlo Verdelli. Ed è dunque sul piano news, con contorno di polemiche sulla risistemazione dell’area digitale (per la quale era stata pensata una supervisione-direzione di Milena Gabanelli), che è finita l’epoca Campo Dall’Orto. “Con il suo siluramento sfuma ogni ipotesi di riforma”, ha scritto su Repubblica il critico Antonio Dipollina (“… toccherà rimpiangere la Rai dell’èra Campo Dall’Orto. Non per meriti particolari… quanto per l’inevitabile nuova discesa agli inferi a cui sarà soggetta l’azienda di Stato, la famosa prima industria culturale del paese, destinata a perpetuare la condizione di eterno trastullo per le smanie della politica in fiamme…”). E il critico del Corriere della Sera Aldo Grasso dice al Foglio che “non si può lavorare avendo sempre contro il Cda, i cui membri, spesso impreparati, sono stati scelti dal governo e dai partiti in nome di quel fantasma chiamato ‘pluralismo’. Nessuna industria moderna è in grado di sopportare un simile peso. Non si può lavorare dovendo rendere conto, a ogni piè sospinto, ai ‘guardiani’ della Commissione di Vigilanza, agli Anzaldi o ai Gasparri. Non si può lavorare credendo ancora alla favola delle ‘grandi professionalità interne’. La Rai ha fior di professionisti, nessuno lo discute, ma sono anni che la linea di comando è scelta non per competenze ma per appartenenza e il nuovo scenario mediatico non lo tollera più. Chiudere Viale Mazzini e rifondare la Rai. E’ l’unica strada praticabile”.

 

Non appena si vuole la Rai meno "dipendente dalla politica", c'è qualcuno che insorge dicendo che "è troppo in balìa del mercato"

Poi c’è chi, come Agostino Saccà, ex direttore generale Rai, già direttore del marketing strategico, direttore di Rai 1, direttore della Fiction e produttore cine-televisivo, da anni si dice convinto che la Rai possa ancora “volare”: la Rai, dice, “è come il calabrone che a rigore scientifico non dovrebbe volare, con quella massa, e invece vola, nel senso della quota di mercato miracolosamente mantenuta a dispetto dei cambiamenti in atto nei media. Chiediamoci però perché tutte le tv pubbliche europee sono grandemente facilitate nella loro realtà industriale di servizio pubblico e la Rai no. Chiediamoci che cosa è in realtà il canone, definito con espressione fuorviante ‘soldi pubblici’, quando è invece un’imposta di scopo per finanziare il servizio pubblico’: io ti do soldi perché tu mi dai un servizio, è una transazione commerciale. E, se si guarda all’estero, si vede che la Bbc prende, tra canone e sovvenzioni, oltre 5 miliardi di euro all’anno; la tv francese 3 miliardi e mezzo; la tv tedesca quasi 9 miliardi; la Rai neppure due miliardi. In Europa ci si è resi conto che, per essere veramente presenti, c’è bisogno di risorse fuori dalle risorse di mercato, specie in mercati nazionali piccoli e con gli Stati Uniti che hanno per mercato il mondo. E infatti Bbc, Ard e Zdf fanno fiction che vendono ovunque”.

 

E’ come se ora restassero sul selciato tutte le “irriformabilità” del caso Rai, anche dopo la parziale riforma della governance, con legge votata dal Parlamento a fine 2015, sotto il governo Renzi. E ci si domanda anche: ma così fan tutti? Se si alza lo sguardo alla situazione delle tv pubbliche nel resto d’Europa, infatti, si vede che la Rai-Gulliver, legata da mille fili al terreno lillipuziano dei partiti, dei partitini e dei gruppi di interesse è abbastanza un caso unico, per ragioni storiche, economiche e politiche. “Le grandi tv pubbliche europee”, dice Saccà, “agiscono in assoluto regime di concorrenza, mentre in Italia la tv pubblica agisce come in asfissia, trattata con una normativa da ente pubblico. Eppure un servizio pubblico fortemente concorrenziale è una necessità. Un tempo c’era scarsità di frequenze e c’era quindi l’esigenza di tutelare il pubblico interesse. Oggi, con tutte le frequenze che si hanno a disposizione, in teoria illimitate, i servizi pubblici, sulla carta, non dovrebbero neppure esistere. Invece c’è ancora più bisogno di una forte presenza pubblica nella comunicazione, proprio per tutelare l’interesse generale dalla moltiplicazione degli interessi privati. E poi, per reggere la concorrenza di altri paesi, in particolare gli Stati Uniti, e avere quindi un’industria audiovisiva forte che abbia la capacità di rappresentarsi, servono grandissime quantità di risorse fuori mercato. Questa è la ragione per cui Bbc e la tv tedesca hanno risorse imponenti, e non a caso hanno una produzione concorrenziale anche nei confronti degli Usa”. Nel momento in cui si frantumano le audience, e le opinioni si moltiplicano, aggiunge Saccà, “c’è anche bisogno di finanziare un’informazione e una produzione di carattere generalista che tuteli l’interesse generale del paese, e questa indicazione giunge anche a livello di Unione europea. Il servizio pubblico – di questo si rendono conto per esempio inglesi, tedeschi e francesi – è tanto più strategico oggi: ma se questa è la necessità, com’è possibile allora che un’azienda che, come la Rai, ha i conti in ordine e meno dipendenti di altre tv pubbliche europee, sia alle prese con il problema del tetto ai compensi? Il problema è che in Italia il rapporto tra Rai e sistema politico in realtà si è inceppato, più che essere troppo forte, anche per effetto di spinte populistiche. Ma la Rai, come tutte le altre tv pubbliche, è un’impresa, e ha necessità di massimizzare gli ascolti: e dunque deve essere libera di stare sul mercato”.

 

Ma perché in altri paesi le tv pubbliche si muovono come privati? Dice Rubens Esposito, ex capo dell’ufficio legale della Rai, avvocato e docente universitario, che “c’è anche un problema di applicazione delle direttive comunitarie in materia di contratti pubblici. Nel nostro sistema abbiamo un mercato tv aperto alla concorrenza, un’offerta pluralistica. Secondo logica, non si dovrebbero far valere le regole dei contratti di evidenza pubblica. Non si capisce insomma perché l’emittente pubblica debba essere equiparata a un ente della pubblica amministrazione quando è una Spa. E se prendiamo il codice degli appalti, vediamo che, all’articolo 17, è previsto un esonero dall’obbligo di fare gare per le emittenti tv ‘aventi ad oggetto l’acquisto, lo sviluppo, la produzione o coproduzione di programmi destinati ai servizi di media audiovisivi o radiofonici che sono aggiudicati da fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici, ovvero gli appalti, anche nei settori speciali, e le concessioni concernenti il tempo di trasmissione o la fornitura di programmi aggiudicati ai fornitori di servizi di media audiovisivi o radiofonici’. Per evitare che la Rai si trovi in svantaggio competitivo rispetto a un concorrente che, non avendo vincoli, ha tempi rapidi, si potrebbe estendere l’articolo 17 del codice appalti a tutto ciò che serve a produrre, per esempio all’acquisto dei bene strumentali. E io credo che, per quanto riguarda la Rai, il problema non sia tanto la governance quanto la limitazione dell’azione d’impresa. E trovo strana la giurisprudenza italiana per quanto riguarda le imprese pubbliche”.

 

E' sul piano delle news, con contorno di polemiche sulla risistemazione dell'area digitale, che è finita l'epoca Campo Dall'Orto

Chi ha studiato i modelli esteri, come Massimo Scaglioni, docente di Storia dei media e marketing dei media e autore di “Il servizio pubblico televisivo: morte o rinascita?” (edizione Vita e pensiero), nota “una sorta di linea di demarcazione tra tv pubbliche dei paesi del nord e del sud Europa, già a partire dai primi anni successivi alla Seconda guerra mondiale. La Bbc, dove da decenni si vede in azione la figura del direttore generale, ha un meccanismo di governance molto complesso, regolato dalla Royal Charter, recentemente riformata. In generale, anche in Gran Bretagna o in Francia ci si è posti il problema del condizionamento politico, ma i paesi del sud Europa, come la Spagna e l’Italia, anche per ragioni storiche, e per via dell’uscita tormentata dalle dittature nel secondo Dopoguerra, hanno avuto più difficoltà. Ma anche in Germania ci sono stati anni – specie durante l’emergenza del terrorismo rosso – in cui la Cdu parlava di condizionamento politico operato sulla tv pubblica dal ceto intellettuale orientato a sinistra. Ma lì, dove il meccanismo di governance rispecchia in parte il sistema dei Länder, non è neppure pensabile un’influenza diretta dei partiti”. Comune denominatore tra molti servizi televisivi pubblici, dice Scaglioni, è la “rappresentanza dei corpi intermedi” e la “forte critica al concetto di servizio pubblico in sé. In Svizzera, nel 2018, si voterà via referendum per abolire la raccolta del canone”.

 

Quanto alla gestione del rapporto col mercato, non c’è dappertutto lo stesso regime riguardo alla pubblicità: “Il servizio pubblico britannico non raccoglie pubblicità, in Germania la raccolta è fortemente limitata e la pubblicità è trasmessa soltanto in alcune fasce orarie”. La riforma dei servizi pubblici televisivi, dunque, non è tema di dibattito soltanto italiano, anche se la virulenza intermittente della battaglia sul servizio pubblico per com’è vissuta in Italia è abbastanza unica, specie per com’è stata condotta la lotta attorno alla Rai negli ultimi vent’anni. Ma la domanda (quasi ovunque) è un’altra. Scaglioni così la formula nell’introduzione del suo libro: “Abbiamo ancora bisogno del servizio pubblico radiotelevisivo (e, oggi, digitale) o si tratta piuttosto di un ‘ferrovecchio’ da destinare al pensionamento?… Alla luce delle trasformazioni che hanno attraversato l’industria della comunicazione mediale dagli anni Duemila in avanti, e che hanno condotto alla nascita di un sistema di broadcasting sempre più ricco nell’offerta e sempre più ‘convergente’ con altri media e con la rete, nel quale il peso della televisione direttamente pagata dagli spettatori (pay tv) è in costante crescita, ha ancora senso difendere il servizio pubblico?…”.

 

Ma anche sul “come” riformare i servizi pubblici ci si interroga, non soltanto in Italia. A fine 2016, scrive Scaglioni, “per una curiosa coincidenza storica, due paesi come la Gran Bretagna e l’Italia arrivano in contemporanea a un appuntamento importante”. Dopo un processo che ha coinvolto “oltre trecento tra esperti e associazioni, quattromila persone intervistate e 192.564 interventi raccolti in una consultazione generale aperta a tutti i cittadini, oltre a due report preparatori affidati a differenti team di studiosi che hanno messo a fuoco le questioni più scottanti (governance e specificità della missione), il Regno Unito si appresta a ridisegnare la Royal Charter che regola i rapporti tra lo stato e la Bbc, affidando a quest’ultima, per i prossimi undici anni, il compito di svolgere il ruolo di servizio pubblico radiotelevisivo e digitale”. Solo che la Bbc, con 5 miliardi di sterline di ricavi annui (di cui 3,7 miliardi provenienti da un canone del costo di circa 170 euro l’anno), è, più che un broadcaster, “la più imponente e influente impresa mediale del mercato britannico. La revisione della convenzione con la Bbc, dopo la stesura di un libro verde e di un libro bianco, ha portato alla bozza per la nuova Royal Charter, in vigore dal 1 gennaio 2017”. Invece in Italia, a fine 2016, “è scaduta la convenzione che assegna alla Rai s.p.a. la concessione in esclusiva di diffusione sull’intero territorio nazionale di programmi radiofonici e televisivi”. A fine 2015, intanto, il Parlamento ha approvato una legge di riforma della governance, considerata però da molte parti insufficiente a risolvere i problemi di un’azienda con circa 11.700 dipendenti, azienda che raccoglie 2,49 miliardi di euro ogni anno (secondo i dati 2015, la Bbc supera i 6 miliardi di euro). Di questa cifra, il 65 per cento proviene dal canone, il resto dalla pubblicità e da altre offerte commerciali. Nei mesi precedenti all’approvazione della legge di riforma italiana, si era discusso, anche guardando al parallelo caso inglese, al “come” modificare la governance: in Gran Bretagna si propone, nel libro bianco, un board unico di professionisti scelti dal governo e dalla stessa Bbc. Si prevede anche la supervisione affidata a un’autorità competente e indipendente e la “trasparenza” sugli ingaggi di artisti e conduttori. Trasparenza non significa però “tetto” ai compensi. Dati alla mano, sempre Saccà parla “di un’assenza di tetto ai compensi negli altri paesi europei”, e più che altro di “autoregolamentazione, con l’Italia caso “unico”, a parte Cipro dove, dice Saccà, la troika Ue ha imposto un tetto agli stipendi dei manager nella tv pubblica, ma poi “l’obbligo è stato applicato d’imperio dal governo, che non ha mai portato in Parlamento la legge relativa”.

 

Non che la Bbc non si sia occupata per niente del tema “stipendi”. Non ha posto alcun tetto agli stipendi, né dei manager interni né delle strutture artistiche. Però, dopo la tempesta sui compensi elevati scatenatasi ai tempi del dg Mark Thompson, aveva assunto motu proprio l’obbligo di trasparenza dei compensi (nel senso di rendere pubblici gli importi pagati annualmente a persone fisiche). Questo impegno volontario, con la nuova Royal Charter è diventato obbligo verso lo stato. Quanto al sistema di governance, la Bbc è una corporation la cui proprietà è al cento per cento dello stato inglese, ma è regolata da uno statuto speciale e dalla suddetta Charter, rinnovata ogni dieci anni.

 

Saccà, ex dg Rai: "Una quota di mercato miracolosamente mantenuta a dispetto dei cambiamenti in atto nei media"

La tv spagnola Rtve, invece, è una fondazione di diritto privato, la cui proprietà è al cento per cento pubblica (nella mani di una holding delle partecipazioni statali che però non ha potere su di essa, perché tutti i poteri sono devoluti al Parlamento che controlla, nomina ed eventualmente “invita” alle dimissioni. In Germania la Ard è un consorzio di enti a statuto speciale di proprietà dei Länder o di consorzi tra Länder. Ognuno di essi ha un proprio statuto, basato sui principi approvati dalla Corte costituzionale che può chiederne modifiche in caso qualcosa si discosti dai principi costituzionali del servizio pubblico. Il controllo di ognuno di questi enti speciali è affidato a un Cda composto da personalità di chiara fama elette in rappresentanza di una serie di organi: pubblici (come i governi dei Länder), ma soprattutto della società civile (università, chiese, sindacati, imprenditori). Dal 2015 c’è un tetto al numero massimo di politici ed ex politici che possono essere nominati in questi organi dirigenti. Il consorzio Ard è invece retto dal consiglio composto dai top manager delle emittenti regionali del consorzio. E Zdf, sempre in Germania, segue lo stesso principio, ma la componente politica è il governo centrale, sempre con elementi di “società civile” in maggioranza nel Cda. In Francia, invece, Ftv e Radio France sono società speciali di proprietà al cento per cento dello stato francese. Ma i poteri di nomina del top management sono affidati all’autorità indipendente Csa, mentre il board – che ha limitati poteri di sorveglianza del management – è di espressione parlamentare con componente dei sindacati interni (dirigenti, lavoratori, giornalisti).

 

Quanto agli organismi di controllo, in Italia abbiamo la commissione parlamentare di Vigilanza Rai e l’Agcom, mentre in Gran Bretagna l’Office of Communication e il Bbc Trust, organismo indipendente dal management Bbc. In Francia il Conseil Supérieur de l’Audiovisuel è un’autorità amministrativa indipendente, incaricata di garantire la libertà di comunicazione audiovisiva. Per le tedesche Ard e Zdf il controllo è affidato ai Consigli radiotelevisivi, consigli rappresentativi che nominano i vertici delle società, mentre il controllo finanziario è in capo al Kef, una commissione indipendente di esperti provenienti da diversi campi. La tv spagnola Rtve, invece, è controllata da una commissione parlamentare di Vigilanza che osserva l’ottemperanza degli obblighi di servizio pubblico, coadiuvata da varie autorità regionali.

 

Può poi far riflettere il confronto tra numeri di reti (la Rai, tra canali generalisti, semigeneralisti e specializzati ha una delle offerte più ricche rispetto alle altre tv) e quello tra numero di dipendenti (circa undicimila e settecento per la Rai, circa ventimila per la Bbc, circa diecimila e seicento per France Télévision, circa seimila e trecento per Rtve spagnola, circa ventinovemila per Ard e cinquemila e quattrocento per Zdf. Nel 2013, poi, l’Organismo europeo per le tv pubbliche aveva fotografato la situazione ricavi e utili: e se il totale ricavi era di due miliardi e settecentocinquanta milioni per la Rai (ricavi da canone, sovvenzioni statali, altre entrate pubbliche e pubblicità – con zero utili), la Bbc totalizzava sei miliardi e 207 milioni (con 181 milioni di euro di utili), la tv francese 3 miliardi circa (in perdita per 42 milioni di euro), le tv tedesche nel complesso ottenevano ricavi per circa 8 miliardi di euro con una parte di perdite (per 200 milioni circa) e una parte di utili (per 21 milioni circa).

 

Sempre l’Organismo europeo per le tv pubbliche aveva poi fotografato (nel 2014) la situazione degli ascolti: 37, 5 per cento del totale per la Rai (con il privato Mediaset al 32, 6), la Bbc al 32,2, la tv francese al 28,8, le tv tedesche al 27,8 Ard e 17, 9 Zdf, e la Rtve spagnola al 16,7. (Dati, questi, che avevano fatto dire a molti osservatori di sommovimenti in Viale Mazzini che la Rai “non era messa poi così male”).

 

E però, al di là dei dati, forse non si può fare a meno di soffermarsi su quello che lo storico dei media Jérôme Bourdon, in “Il Servizio pubblico - Storia culturale delle televisioni in Europa”, scrive a proposito della “cultura di massa visiva” e sull’Europa, “continente attraversato da una cruciale tensione tra la volontà d’integrazione economico-politica, da un lato, e la dinamica prevalentemente nazionale della sua cultura di massa, dall’altro”. In questo senso, scrive, “il dibattito sul deficit democratico dell’Europa è certamente di natura culturale: gli europei non si sono sentiti rappresentati in modo efficace in quanto europei. Per far sì che ciò avvenisse, bisognava soddisfare una condizione preliminare… avere la possibilità di forgiare un sentimento d’appartenenza… almeno intorno a simboli e figure del loro presente (simboli e figure che, oggi, devono necessariamente passare attraverso il mezzo di comunicazione dominante, la televisione). La cultura di massa è stata, invece, il luogo del ritorno di un rimosso nazionale che si è creduto troppo facilmente limitato al riemergere dei partiti nazionalisti, ma che, al contrario, tocca più profondamente le coscienze collettive europee, in cerca di eroi e drammi nazionali”. Di sicuro, scrive Bourdon, “la cultura televisiva è stata oggetto di una crescente standardizzazione: le strutture testuali (i ‘format’…) dei telegiornali, dell’intrattenimento e anche delle fiction hanno finito per assomigliarsi sempre di più. Ma questo avvicinamento formale non impedisce, nei contenuti, una persistenza dell’elemento nazionale…”. Il tema tv europee pone quindi il tema “che cos’è l’Europa?”. Ma che cos’è l’Europa della televisione? si domanda Bourdon. E la sua risposta è nientemeno che “il servizio pubblico”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.