Colossi, fragili eroi

Giuseppe Fantasia

Soldati, pastori, ribelli: le figure dipinte da Georg Baselitz vent’anni dopo la guerra, simboli di un’ideologia fallita. Una mostra a Roma

La vitalità artistica e le tante bellezze di una città come Firenze possono restare dentro a lungo e scatenare reazioni varie e inaspettate. Tra le sue vie e le sue piazze, come nei suoi palazzi, nelle sue chiese e nei suoi musei, si respira talmente tanta - forse, troppa - bellezza che la stessa può fungere anche da spunto per fare, realizzare o semplicemente pensare a qualcosa di completamente opposto. Una cosa del genere accadde a Hans-Georg Kern, conosciuto nel mondo dell’arte con il suo pseudonimo, Georg Baselitz: nel 1965 era giovanissimo, aveva meno di trent’anni, e dopo aver trascorso sei mesi studiando a Villa Romana, forte di una borsa di studio, tornò nella sua Germania nel borgo di Deutschbaselitz (oggi un quartiere di Kamenz, in Sassonia), esteriorizzando a modo suo quanto visto e quanto vissuto nel periodo fiorentino, creando opere che avessero un impatto violento quanto sconvolgente nello spettatore.

 

In poco meno di un anno, realizzò ben sessanta dipinti, centotrenta disegni e trentotto stampe, un lavoro immane, opere che oggi risultano centrali non solo per la sua opera, ma per l’arte tedesca in generale. Stiamo parlando degli “Heldenbilder”, le immagini di eroi – come vennero chiamati in seguito, figure possenti ma allo stesso tempo mutilate e private della loro autorità, avvolte nelle loro uniformi rudimentali che rivestono a malapena. La sua fu un’esplosione artistica senza eguali, un dipingere contro il tempo che diede vita a opere monumentali e impressionanti, oli su tela alti quasi due metri che sono simboli indiscussi di un manifesto artistico oltre che pietra miliare nella storia della pittura contemporanea.

 

Sei mesi di studio a Firenze, nel 1965, poi, tornato in Germania, l'artista realizzò in poco meno di un anno sessanta dipinti

A distanza di quasi cinquant’anni da quelle creazioni, potrete ammirarle quasi nell’interezza della serie, grazie a una mostra, “Georg Baselitz: gli Eroi”, che dopo Francoforte e Stoccolma, è arrivata anche a Roma, al Palazzo delle Esposizioni. Nelle grandi e luminose sale dell’edificio che domina via Nazionale, sempre più attivo e frequentato, soprattutto da scolaresche oltre che da appassionati d’arte, settanta di quelle opere hanno una giusta collocazione, soprattutto quelle poste sulle pareti laterali del salone centrale, che accolgono il visitatore in tutta la loro maestosità e drammaticità, spiazzandolo completamente. Sono soldati, pastori, ribelli, partigiani e pittori, sono uomini-simbolo di un periodo senza luce ma che sono capaci di emetterne una propria, sono gli “Eroi” di Baselitz, uomini monumentali e fragili insieme, robusti e letargici, aggressivi e vulnerabili, bloccati nel gesto o spezzati. Sono dei superstiti malinconici in un mondo distrutto e caotico, ma – soprattutto – dei padroni assoluti della scena in cui sono raffigurati dal basso tra vari elementi paesaggistici e con un forte senso di pathos, tutti dal tratto inquieto e volutamente incerto.

 

“Ogni volta che ripenso a quel periodo, mi stupisco sempre di me stesso, di come abbia fatto a realizzarne così tanti in così poco tempo e finisco sempre con l’emozionarmi”, confida Baselitz al Foglio nel giorno dell’inaugurazione ufficiale. “Negli anni Sessanta non piacquero quasi a nessuno e molti furono addirittura considerati scandalosi (in particolar modo, Il nuovo tipo e la Grande notte in bianco, già esposto all’antologica che gli dedicò il Museo Madre di Napoli nel 2008). Oggi, che di anni ne ha settantanove, non è così, visto che i suoi lavori sono molto apprezzati e hanno raggiunto quotazioni che superano anche i sei milioni di euro, ma lui è rimasto sempre “integro nella sua semplicità”, come tiene a precisarci, dividendosi, quando non viaggia per lavoro, tra la sua villa a Imperia e la casa a Berlino. “Quelle figure non sono solo manieristiche nei loro aspetti formali, nella scelta dei colori e nella distorsione delle proporzioni delle figure, ma anche nel messaggio di fondo, che è quello di smascherare il mondo con il suo ordine apparente, adottando una prospettiva inquietante fino a farlo vacillare e lasciando spazio a una forza e a un eventuale modo di agire nuovi”, ci spiega Max Hollein, curatore della mostra con Daniela Lancioni. “Le creò venti anni dopo la fine della guerra e assunsero subito lo status di figure rimosse da un passato latente, capaci però di reclamare una riflessione sul presente”, aggiunge.

 

Baselitz visse la sua infanzia in una Sassonia distrutta dalla guerra, senza radici e senza una terra d’origine, nel doloroso e faticoso passaggio dalla Germania dell’est a quella dell’ovest, fino ad arrivare ad allontanarsi sempre di più da quell’ambiente che – come scrive Hollein nel saggio contenuto nel catalogo ufficiale, pubblicato da Hirmer – “percepiva come estraneo e sbagliato”, proprio come quella società “che non rappresentava né una patria adeguata né un mondo onesto per affrontare la situazione”. Visti tutti nel loro insieme, quei dipinti offrono infatti una figura del tutto inedita di eroe, in netto contrasto con l’immagine positiva legata alla retorica e alla propaganda bellica e postbellica: mostrano fragilità, precarietà e molteplici contraddizioni. Sono colossi dai capi minuti che si contrappongono alla grandezza dei loro sessi - che significano natura allo stato primigenio, animale – ben in evidenza tra quelle uniformi lacere e misere e che li fanno essere ancora di più soggetti succubi dell’autorità e obbedienti silenziosi a cui è preclusa ogni forma di pensiero razionale e individualistico. Ognuno di loro, singolarmente, ha il suo modo per sottrarsi all’omologazione e alle costrizioni, ovvero attraverso le esperienze e le conoscenze derivate da quello che hanno vissuto, per non parlare poi delle tante ferite di cui portano ancora i segni.

 

Baselitz li ha voluti raffigurare così, con una pittura vigorosa in cui il colore, il segno e la figura raggiungono una forte intensità, fin quasi a sfidarsi. A loro modo, sono maldestri e vulnerabili, sono disperati, non c’è dubbio, ma il sentimento che trasmettono è attenuato dall’immagine di un medicamento come dal gesto di raccogliere nella mano un’arma, una bandiera, un pennello e una tavolozza o solo i frammenti di quella terra insanguinata. I loro atteggiamenti marziali sono più che evidenti, ma, alla fine, non fanno altro che emanare una delicatezza che sorprende.

 

Esposti anche i quadri "fratturati" del 1966, che precedono la stagione dei dipinti capovolti, e quelli del più recente ciclo "Remix"

“La loro è una sensibilità sorda e in crescita, da cui si può trarre una nuova forza rivoluzionaria nel momento in cui trappole, ostacoli e limitazioni di ogni sorta vengono lasciati alle spalle, creando così uno scenario ambiguo e ambivalente come le figure stesse”, precisa Hollein. “Quelle immagini – aggiunge – rappresentano uno stato d’animo in cui l’artista può riconoscersi e individuano un tipo d’uomo e un’esperienza con cui egli deve confrontarsi per creare qualcosa di nuovo e per non omologarsi a nulla e a nessuno”. Gli Eroi o Nuovi tipi ruotano attorno a tutti quei cambiamenti che ebbe la vita di Baselitz in quegli anni postbellici, tra il suo trasferimento nella Germania federale e i quattro anni dopo la costruzione del Muro di Berlino, tenendo bene in mente i mesi trascorsi a Firenze, ma non sono affatto personaggi mitici, perché – come è lui stesso a precisarci – “la mia pittura è soggettiva, i miei pensieri sono personali e la via politica non è mai stata tra i miei interessi”.

 

“Configurando la superiorità della razza ariana, si passò a qualcosa di fatale che finì, per fortuna, nel 1945, passando così al degrado del super-uomo: fu tutto questo a portarmi al mio ciclo pittorico”, aggiunge, dimostrando così che solo un artista – in qualità di individuo che si muove ai margini della società e che sa superare le avversità – può essere capace di creare dell’altro, al di là di ordini sociali contrastanti e di ideologie distruttive.

 

Quei simboli della fine di un’ideologia fallita sono tutti o quasi nella mostra romana – visitabile fino al 18 giugno prossimo (subito dopo sarà al Guggenheim di Bilbao fino al 22 ottobre) – dal Ribelle a Con Bandiera Rossa, dal Partigiano al Pastore, dal Nuovo tipo al Rossoverde, un altro quadro in cui il protagonista della tela esibisce uno stendardo rosso nel mezzo di un bosco. I loro occhi guardano a terra, sono fissi nel vuoto e portano con sé lo spavento, il terrore e il dolore, ma anche il pathos e la commozione necessari alla catarsi. Con quei corpi massicci e feriti, gonfi e deformi, diventano espressione di una forza innata e di una debolezza latente che in parte ritroviamo anche nella selezione di disegni e di xilografie dello stesso soggetto, presenti in mostra assieme ai primi esemplari dei quadri cosiddetti “fratturati” del 1966 (in parte già visti alla Biennale di Venezia del 2015) dove l’artista sperimenta una riorganizzazione dell’immagine che precede la stagione dei dipinti capovolti, fino ad arrivare – alla fine percorso – a quelli più recenti del ciclo Remix, che continuano a dimostrare quanto l’artista sia un outsider e per questo, sicuramente più autentico.

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