L'urlo dei bancarellari

Angiolo Bandinelli

Quando il mercato di via Chiana era all’aperto e i venditori gridavano “peperò!” tra “carciofoli” e “persiche”

Un tempo a via Chiana, come in tante altre strade e piazze romane e italiane, c’era un mercato all’aperto, l’affaccendato, chiacchierino, colorato mercatino rionale. Un brutto giorno, come in tante altre strade romane e italiane, quel mercatino è stato trasferito al chiuso di un triste e buio capannone in cemento armato. Dissero che era più igienico. Il mercatino di via Chiana mi era caro, mi ricordava la guerra, la Seconda guerra mondiale, la sua scomparsa mi addolorò, ancora lo rimpiango.

 

Indispensabili
per un celebre piatto romano, la "coratella",
i carciofi trionfavano
nel gran fritto misto assieme a cavolfiori
e zucchine

Via Chiana si stende tra via Panama e quel corso Trieste da cui oggi prende il nome il quartiere, urbanizzato nel 1909 dall’architetto Edmondo Sanjust di Teulada, che nel 1926 venne ribattezzato Quartiere Savoia perché costeggia Villa Ada, la Villa Savoia residenza dei Re d’Italia. E’ una bella strada, dritta, con un ampio marciapiede centrale pavimentato di sampietrini e ombreggiato da magnifici lecci ormai secolari. Per un tratto la fiancheggiano solidi palazzi di appartamenti per la media burocrazia degli anni Venti del secolo scorso. Alcuni di questi palazzi sono decorati, all’ultimo piano, con fregi pittorici in piacevole stile floreale. Dai cancelli d’ingresso in ferro battuto si intravedono cortili e giardini. Il quartiere ha come suo centro piazza Verbano, con la grande aiola circolare arricchita di palme e oleandri, e un tempo si concludeva con le pretenziose villette dei ferrovieri, volute da Nitti ai primi degli anni Venti, in una delle quali ho vissuto infanzia e adolescenza. Troppo bella, via Chiana, un unicum nella zona; ma sentivo vociferare che era stata concepita per consentire a Re Vittorio Emanuele II di poter visitare in incognito, in carrozza, la sua amante, la contessa Mirafiori, alloggiata con decoroso garbo in una villetta sulla non distante via Nomentana, oggi sede degli Istituti di Linguistica e Filosofia della Sapienza.

 

Il mercatino consisteva in due file parallele di banchi, montati al loro posto prima ancora dell’alba e smontati a fine mattinata. I piani di legno, i cavalletti-zampe , venivano scaricati e poi ricaricati su carretti tirati da cavallucci e muli che sostavano ai margini del marciapiede centrale e , nel loro forzato ozio, riempivano la strada di sterco e urine, maleodoranti ma parte essenziale, anche loro, della scena e della vita che vi ferveva attorno. Io amavo le grida dei venditori, “peperò, peperò” o “polli, polli”, che salivano dai banchi strabordanti di quei bellissimi ortaggi, vere sculture naturali, rossi, gialli, verdi o violacei. Il richiamo ai polli si doveva al fatto che a Roma era tradizionale e amatissima la tegamata di pollo e peperoni, affogati nel pomodoro e ornati di basilico scintillante. I peperoni cedevano il passo solo ai “carciofoli”, i carciofi indispensabili per un altro piatto celebre della cucina romana, la “coratella”, un misto di fegato, polmone, cuore e frattaglie varie di bovino mischiate con i sottili spicchi di carciofo, romanesco ovviamente. Che, infine, trionfava nella spadellata del gran fritto misto, assieme a cavolfiori, zucchine e magari mozzarella e cervelletto di abbacchio, il tutto sapientemente infarinato e alla fine, caldo ancora da scottare la lingua, irrorato con succo di limone.

 

Sui banchi troneggiava la stadera, uno dei tanti tipi di bilance che oggi, tra elettronica e digitale, non usano più. Il settore dei "macellari"

Si alternavano, in un diapason infernale, i richiami dei fruttaroli: “Donne, donne, ciavemo le persiche… ciavemo le bricoccole… le prugne, le cerase!” e, in autunno, “a signò, venga qua, l’uva pizzutella!”, una varietà coltivata solo a Tivoli, con gli acini allungati come minuscole dolcissime banane. E le verdure, la “bieda”, il broccolo o le zucchine romanesche, gli asparagi, quelli coltivati o i selvatici raccolti a mano dalle donne come la cicoria o la “misticanza” di insalata, le enormi zucche gialle. Arrivavano secondo la stagione ovviamente, erano quindi sempre fresche e croccanti. A Pasqua non mancavano mai le fave da accompagnare, nelle scampagnate “fòr de porta”, al “cacio” pecorino romano. Per dare loro un aggiuntivo, meritato splendore, di quando in quando il bancarellaro irrorava le sue verdure di una secchiata d’acqua. Talvolta sbagliava il tiro e si “fracicava” il grembiulone e i pantaloni.

 

Un po’ nascosta, un po’ più piccola, la bancarella degli “odori” indispensabili per un buon brodo o per il ”battuto”, prodromo profumato del “minestrone” o della “pasta e facioli”: il basilico, la cipolla, la carota, il “sellero” (sedano), le teste d’“ajo”, il prezzemolo, magari una manciatina di amarognola rughetta per insaporire l’insalata di lattuga... Ma su tutti gli altri trionfava il profumo dei pomodori, i grandi pomodori da insalata, dai colori digradanti tra il rosso, il verde e l’oro. Era un profumo – oggi perduto – inebriante, che solleticava le narici e si insinuava dappertutto. Allora non c’erano gli ogm o le selezioni genetiche, il packaging e gli standard del marketing, ogni pomodoro come ogni mela, ogni arancia, ogni grappolo era diverso dall’altro in forma, dimensioni e colore. Non c’erano due mele renette o annurche identiche, te le dovevi “capare” dal mucchio, a una a una. Fare la spesa era un godimento per tutti i sensi.

 

L’ultimo settore del mercato, oltre via Tagliamento (o via Sebino, l’una strada iniziava dove l’altra finiva), era riservato ai “macellari”. All’inizio del marciapiede con i loro banchi spuntava una fontanella pubblica, uno dei famosi “nasoni” in ghisa tipici – allora – di Roma. Il “nasone” era il becco da cui sgorgava allegramente l’acqua, dotato di un forellino che consentiva di proiettare il getto, con grande gioia di noi “regazzini” , a una distanza di almeno due metri (ma era meno divertente di quando noi “regazzini”, in branco, facevamo a gara a chi “pisciava” più lontano, naturalmente alla larga dai nostri genitori). I macellai avevano sempre bisogno di acqua per lavare e nettare i tagli sanguinolenti. Tra i macellai un posto a parte spettava a quelli che vendevano carne di cavallo, molto rossa e un po’ dolciastra, raccomandata per i bambini anemici.

 

Il "barroccio" portava
a Roma il vino
da Frascati
o dai Castelli.
Vidi gli ultimi all'ingresso di certe trattorie che offrivano trippa alla romana

Su ogni banco troneggiava la stadera, uno dei tanti tipi di bilance che oggi – tra elettronica e digitale – non usano più. Era costituita da un piatto di ferro con un piccolo bordo, sostenuto da tre catenelle che si congiungevano in un anello, a sua volta collegato ad una delle estremità di un braccio sospeso, con tacche a distanze regolari, lungo le quali scorreva una specie di batacchio di ottone. Deposta nel piatto la merce da pesare, si faceva andare il batacchio su e giù, finché il braccio si fermava in un instabile equilibrio, a volte inquinato e falsato dal furtivo colpetto con il quale il bancarellaro riusciva a trattenerlo su una tacca che lo favoriva sul peso. Quasi tutti i bancarellari erano anche ortolani, le verdure, la frutta provenivano dai loro appezzamenti, tutti nelle vicinanze della città, oggi diremmo a chilometro zero. Arrivavano prima dell’alba, coi carretti al trotto – sentivamo nel buio lo scalpiccio ritmato degli zoccoli – lasciando in mezzo alla carreggiata lunghe scie delle cacche del cavallo o del mulo. C’erano anche ortolani che vendevano i loro prodotti direttamente alle massaie, sostando casa per casa. Avevano clienti fedeli e pigre, che si risparmiavano così l’andata al mercato. Mia madre riconosceva le voci, ed era pronta dinanzi al cancello di casa per comperare verdure ancora stilllanti di rugiada o incrostate di terriccio e di umide zolle. Da loro comperava, quando ne avevano, le rane. Si vendevano già spellate ed eviscerate, legate a mazzetti per le zampe con la rafia. Mia madre le faceva “fritte dorate”, cioè inzuppate nel tuorlo d’uovo, ed erano meglio del pollo, delicatissime. Da questi ortolani si poteva acquistare anche ricotta di pecora, “fresca fresca!…”, avvolta nelle lucide foglie del “pane delle serpi” e chiuse in formelle intrecciate di sottile vinco; e persino le lumache, cibo obbligato, a Roma, per la festa di San Giovanni, il 24 giugno.

 

Quel giorno, lungo le strade dell’omonimo, popolare quartiere, le lumache si vendevano a quintali. Bisognava “spurgarle”, tenerle cioè ventiquattro ore a digiuno per far loro svuotare l’intestino. Venivano messe dentro una capace pentola, ben chiusa con il coperchio. Sul coperchio era però necessario sistemare dei pesi – quasi sempre ferri da stiro in ghisa – per evitare che le bestiole fuoruscissero. Ma molto spesso quelle riuscivano a sollevare e rovesciare pesi e coperchio, bisognava recuperarle, striscianti nella loro bava dentro la vasca da bagno dove la pentola era stata prudentemente piazzata. Le lumache erano cucinate in umido, con un bel sugo rosso. Per mangiarle, dovevi pazientemente estrarle dal guscio, a una a una, con l’aiuto della forchetta o di uno stuzzicadenti, e succhiarle via, poi ti toccava lavarti la bocca impiastrata fino al mento.

 

Con la guerra
e l'occupazione
mia madre cominciò
a mandarmi al mercato a fare la fila, per un po' di sardine o per un chilo di zucca

Un incontro frequente per le strade e piazze sotto casa era il “barroccio” – o la “barrozza” – che portava a Roma il vino da Frascati o dai Castelli Romani, un limpido vinello bianco, il “cannellino” da consumare, magari, in una “fiaschetteria” ornata, secondo tradizione, della “frasca”, un bel ramo fronzuto. Il barroccio era un lungo carretto a due ruote, largo il necessario per contenere un paio di file sovrapposte delle tipiche botticelle di vino, tenute saldamente assieme, perché non scivolassero fragorosamente a terra, da due lunghe funi tese, all’estremità, attorno a un cilindro fatto girare da robuste maniglie, a guisa di argano. Il barroccio mi metteva malinconia quando lo vedevo arrivare in certe umide uggiose giornate, col mantice sollevato a proteggere il barrocciaio. Il mantice era una sorta di soffietto di grossolano tessuto nero impermeabile, che si poteva sollevare o abbassare, un po’ come nelle spider decappottabili di oggi. Gli ultimi barrocci, ormai caduti in disuso, li vidi troneggiare all’ingresso di certe trattorie che offrivano la trippa alla romana, i rigatoni “co’ la pajata”, la coda “alla vaccinara” o gli spaghetti alle “telline“, il bivalve tipico delle spiagge di Ostia.

 

Il mercatino di via Chiana mi riporta, con ricordi tristi, alla guerra. Via via negli anni, e specie durante gli otto mesi dell’occupazione tedesca, il cibo scarseggiò sempre più, qualche sera cominciammo ad andare a letto con ancora nello stomaco un po’ di languore se non proprio di fame. Il pane – “rosetta” o “sfilatino”, le tipiche forme romane – diventò sempre più grigio, scherzando dicevamo che forse era fatto di manici di scopa; forse no, ma un po’ di saggina dentro le croste mollicce c’era davvero. Una mattina, agli inizi della guerra, ricordo incontrai una vicina di casa che si lamentò: “Dal panettiere la pasta è finita”. Io commentai, sarcastico: “Mangeremo il riso”. Non avevo capito cosa stava accadendo, ma non ci volle molto perché lo capissi. I negozi erano più vuoti che pieni, bisognava correre dall’uno all’altro inseguendo voci, suggerimenti, spiate di questo o quell’informatissimo vicino. Vennero distribuite le “tessere”, con i bollini che davano diritto ad acquistare la razione spettante: del pane innanzitutto, ma non solo. Una volta tornai a casa tutto fiero perché, non so come, avevo comperato del cioccolato in polvere, per il quale non era richiesta la tessera, bastava sobbarcarsi una lunga fila. Mia madre lo ricevette senza troppo entusiasmo, aveva altre priorità sul cibo da procacciarci. Tra tessere, razionamenti e divieti, cominciò a fiorire il mercato nero: con un quintale di patate si faceva una fortuna.

 

Per arricchire una mensa che di giorno in giorno si impoveriva, mia madre cominciò a mandarmi al mercato a fare la fila, per un po’ di sardine o perfino per un chilo di grossa zucca gialla. Dovevo alzarmi, inverno o estate, molto prima dell’alba e, munito della solita “sporta” di tela cerata nera, avviarmi al mercato, a via Chiana appunto. La fila era già lunga, mi accodavo pazientemente. Tra i palazzoni, l’alba non saliva mai. Qualche volta nella fila scoppiava una rissa, c’era sempre qualcuno che cercava di rubare il posto. Il peggio accadeva quando una furbacchiona si infiltrava esibendo un pancione da incinta e si scopriva che il pancione era un cuscino infilato sotto la gonna: le altre donne cominciavano a urlare e a menar schiaffoni alla “puttana”, che si sottraeva a stento, scappando fino in fondo a via Chiana.

 

La guerra finì, le file non finirono subito. I governo militare alleato, per alleviare i disagi della popolazione, fece aprire nelle parrocchie delle mense dove si distribuiva una specie di polenta di piselli. C’era anche qui da fare la fila. Mia madre mi ci spedì, munito di una capace pentola. Io vissi la faccenda come un’umiliazione, mi sottrassi appena possibile. Mio fratello una volta rubò da un camion americano incustodito un grosso barattolo di purè di patate condito con strutto, mi pare. Quella sera ci saziammo tutti. Io poi mi davo da fare come guida al Palatino per i soldati americani, e loro mi compensavano con una scatola di “K Ration”, la razione di guerra delle truppe, una scatola piatta di cartone impermeabilizzato con cera, contenente scatolette di formaggio, prosciutto, cinque sigarette, fiammiferi, dolcificante, ecc., per me vere leccornie. Non frequentai più il mercatino di via Chiana, preferivo ora l’immenso mercato di piazza Vittorio, dove si vendeva di tutto, dagli stivaletti usati dei soldati americani, ricercatissimi perché avevano la suola di gomma senza più gli stridenti chiodi delle scarpe di tutti gli altri eserciti, fino al tabacco per sigarette. Ci andavo con l’amico Lucio. Rubacchiavamo qualche soldo in casa ma ne valeva la pena, gli “sfilatini” farciti di prosciutto erano profumati, squisiti.

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