Sex & the startup

Michele Masneri

Dalla figlia di Wolfe (sulle tracce paterne) alla rivelazione Tulathimutte fino al trumpiano Vance. Prove di grande romanzo della Silicon Valley

San Francisco. Cinquant’anni fa uno sciopero editoriale sulla costa est spinse un giornalista talentuoso di nome Tom Wolfe a venire a San Francisco per seguire, per un long form e un new journalism che ancora non pronunciavano il loro nome, la band scapestrata dei Merry Pranksters, gli Allegri Burloni, su un pulmino chiamato “Oltre”.

 

A New York infatti i giornalisti scioperarono per mesi e l’editore spedì Wolfe in California, piuttosto che non fare nulla. Ne venne fuori un grande classico, The Electric Kool-Aid Acid Test, con lo sgangherato road trip di questa band lisergica in cerca della condivisione universale, incontri a base di Lsd nel succo d’arancia (il Kool-Aid in questione) ma anche di Hells Angels, di Grateful Dead, con un twist d’Allen Ginsberg.

 

Vorrebbe essere uno spiritoso hommage alla California del papà degli anni Sessanta, in realtà pare un po' strenna dedicata a Peter Thiel

Adesso, mentre varie mostre celebrano la Summer of love che importò qui fricchettoni d’ogni dove, in città è calata la figlia del giornalista più sartoriale d’America, la signorina Alexandra Wolfe che è stata qualche mese qui a incubare questo Valley of the Gods (Simon & Schuster), ennesimo librone sulla Silicon Valley che vorrebbe essere spiritoso hommage alla California del papà, e un parallelo improvvido del regno tecnocratico di oggi con quello lisergico di ieri. Come tante ricette inutilmente elaborate non è venuta fuori però molto bene, è più che altro un monumento a Peter Thiel, l’immaginifico fondatore di Paypal, azionista di Facebook, anima nera della valle e oggi persino consigliere del presidente Trump. La critica ha preso il libro wolfiano abbastanza freddamente, considerando l’autrice troppo embedded al trucido Thiel, che, ammiratore di Wolfe padre, si è aperto alla figliola prendendosi in cambio molto spazio – e dunque sprigionando il solito circo di sventatezze contrarian, tra cui l’abolizione delle tasse e della morte fisica, l’ossessione rosicona contro scuole e università, da cui la sua celebre borsa di non-studio che eroga 100.000 dollari a chi abbandona gli studi.

 

Sostiene peraltro Wolfe che l’idea editoriale di Thiel era di caricare su un pulmino lei insieme a questi borsisti dropout per rifare il viaggio fricchettone paterno cinquant’anni dopo (però con pulmino naturalmente ipertecnologico, perché Thiel come un Michael Jackson del venture capital vive in una specie di camera iperbarica nutrendosi di semi); ma poi lei non se l’è sentita e non se n’è fatto nulla. Il quadretto della valle che vien dal libro è comunque molto stereotipico, droghine leggere e pesanti per startupper da riunione-fiume, le case sorprendentemente piccole e sfigate dei magnati causa boom immobiliare, le manie alimentari del glutine e suoi derivati, e “la nuova droga qui è il lavoro”, ma va?

 

Il primo capitolo riguarda l’ormai classico giovedì delle cougar, la “Cougar Night” organizzata al Rosewood Hotel di Menlo Park (il paesotto di Facebook), dove il genio di una manager di cuori solitari con spirito startupparo ha fatto incontrare una domanda e un’offerta prima difficilmente conciliabili. Il giovedì sera infatti – ma qui lo sanno tutti, ne ha scritto chiunque – calano sul bar dell’albergo ventenni e trentenni etero brufolosi miliardari, che hanno sacrificato adolescenze sui manuali di programmazione e Playstation e pippe, e non sanno come offrire un drink a una signora. Dall’altra parte, milfone e cougar rifattone o “nature” ricche di esperienza e fascino, che agognano il brufoloso e molto liquido techie (altro che Macron).

 

Il vero Great Silicon Valley Novel sembra dunque piuttosto il romance-verité della quasi omonima Whitney Wolfe (che non c’entra niente). Già manager del fondamentale sito di acchiappo digitale Tinder, ha creato una app per il rimorchio etico dopo una storia d’amore e quasi di coltello con un suo principale. Wolfe ebbe infatti una realissima storia col cofondatore di Tinder Justin Mateen, che finì malissimo con denunce di arrassment e mobbing vari, e le dimissioni di entrambi. Nel frattempo, sui giornali finirono tutti i whatsapp della coppia, peggio della sguattera del Guatemala. Wolfe rimase scioccata, e il risultato è questa app “100 per cento femminista” da poco lanciata che si chiama Bumble dove il maschio tipo fuco non può fare la prima mossa, e deve stare buono in attesa di essere scelto; se poi non risponde entro 24 ore alla profferta muliebre, viene pure cancellato.

 

Il primo capitolo riguarda l'ormai classico giovedì delle cougar, a Menlo Park. Il romance-verité della quasi omonima Whitney Wolfe

Abbastanza scapestrati e grandi utenti di Tinder sono anche i Private citizens, romanzo come si dice rivelazione del trentenne Tony Tulathimutte, che mette in scena un gruppo di ragazzotti on the road per San Francisco e la valle. Quattro millennial in una macchina, Linda e i suoi amici si muovono tra la città gentrificata, tra “Silicon Valley che ha incorporato la Mission” (il quartiere sgarrupato-messicano, Pigneto sanfranciscano), City Lights (la libreria di Lawrence Ferlinghetti ove nacque il movimento Beat) che ormai è solo “un buon nome per qualcosa che oscura le stelle”. Linda con scelta controcorrente vive a New York e vorrebbe fare la scrittrice, ma non scrive, scopa molto e prende molte droghe (una Hannah di Girls, però carina); Cory lavora invece per una non profit che si chiama Socialize, organizza feste per la raccolta fondi e sfreccia per San Francisco con la sua bici Bianchi e prende anche lei molte sostanze e naturalmente Xanax (sembra la Caroline delle Correzioni con un po’ di trasgressioni alla Bret Easton Ellis, che più su, a Los Angeles, ha detto che non scrive neanche lui più niente). Ci sono poi Will, un programmatore di origine asiatica ossessionato col porno; e Henrik, un burnout con storie di abbandoni scolastici e nevrosi.

 

Protagonista però naturalmente è la città, la San Francisco invasa dai techies. A differenza di New York, è città “uterina, passiva, non vitale. Qui le gocce d’acqua erano più piccole, la frenesia allentata, tutto tollerato. E le città che tollerano tutto tollerano anche la mediocrità”. Il libro parte una domenica di elezioni comunali, curioso come regga sulla pagina, mentre difficile sarebbe immaginare un plot ambientato nella domenica di Sala contro Parisi, o Appendino versus Fassino (però chissà, forse mettendoci dentro dei preti pedofili).


Foto di Peter Thoeny via Flickr


Tra gli ammiratori di Tulathimutte, di cui dice giustamente di non saper pronunciare il nome, c’è anche Jonathan Franzen, secondo cui è “brillante, è un vero libro. E’ un grande talento”. E del resto Franzen è ormai nordcaliforniano adottivo, imperversa a Santa Cruz, novanta chilometri da San Francisco, trasferitosi perché la moglie tiene lì la mamma malata (per i feticisti, sulle montagne di Santa Cruz, ci sono tutti i luoghi di Purity). Per altro genere di feticisti, leggere Envy, cioè Invidia, il romanzo della signora Kathryn Chetkovich in Franzen che racconta la difficile convivenza con uno scrittore di grande insuccesso che a un certo punto fa il botto (genere “romanzi consorti”, del tipo Leaving a Doll’s House, memorie dell’attrice Claire Bloom già signora Philip Roth, che fa un bel ritrattino a uno scrittore-mostro di nome Philip).

 

Protagonista di "Private citizens" è San Francisco, a differenza di New York città "uterina, passiva, non vitale"

Quando poi non è intento a pedinare cinciallegre, Franzen volentieri concede interviste contro Silicon Valley, che ha prodotto populismo, trumpismo, fake news (mancano solo le cavallette e la morìa delle vacche). Così colloca i suoi protagonisti nei dintorni, la sua Purity dell’omonimo ultimo romanzo prende molte corriere tra Santa Cruz e Oakland, sobborgo sanfranciscano dove abitano i tanti che non riescono a permettersi gli affitti capitali, ed epicentro culturale politico siliconvallico: città di Jack London, che qui aveva una celebre tenuta di campagna, e delle Black Panthers (con vasta mostra appena terminata al brutalista Oakland museum). Qui fu poi rapita Patricia Hearst nipote di William Randolph (quello di Quarto potere), di cui è appena uscita una nuova biografia, American Heiress, di Jeffrey Tobin (Doubleday). La signora come è stranoto venne sequestrata dall’Esercito di liberazione simbionese, ammiratori delle Br italiane, poi in piena sindrome di Stoccolma divenne felice e attiva terrorista, per la gioia della famiglia più importante di San Francisco, old money da corsa all’oro e poi giornali, tutt’oggi titolari dell’impero Hearst ove non tramonta il sole. La signora, con nemesi romanzesca, oggi è la più premiata allevatrice di cagnolini da concorso d’America, ha vinto il primo premio al Westminster anche quest’anno coi suoi bulldog, che trasporta tra le due coste sul suo aereo privato. 

 

Chissà cosa ne penserebbe il cupo J. D. Vance, autore del romanzo “contro” Silicon Valley. Si chiama Hillbilly Elegy, in italiano Elegia americana, appena pubblicato da Garzanti, opera di questo trentenne che racconta la sua epopea di famiglia bianca devastata dalla crisi. La parola Hillbilly è la seconda volta che la si legge, la prima era in Fratelli d’Italia, quando Arbasino narrava la bellezza rustica di questi maschi di campagna americana “coi capelli corti e la pelle che sa di Old Spice”. Ma qui siamo alle prese con un antiromanzo e bildunsgroman trumpiano, ove il protagonista dopo essersi faticosamente emancipato dal male di vivere del Kentucky, primo della famiglia non solo a laurearsi ma ad andare addirittura a Yale, una volta raggiunta la meta, San Francisco e un fondo di venture capital, gli stipendi “six figures” e tutti i comfort, invece di strafogarsi di caffè organic e quinoa e dimenticare il passato decide inopinatamente che questo mondo non fa per lui, e vuole tornare sui monti Appalachi.

 

Potrebbe essere il Kerouac di questi anni, un Beat di un’America in crisi però al contrario, coi fricchettoni e gli hippie al potere (economico) e l’America profonda e perbenista bastonata. Stessa incomunicabilità di allora, ma rovesciata: chiediamo se hanno il libro nella bella Citylights, nel cuore del quartiere italiano di North Beach, e il commesso tra le pile di Noam Chomsky e le cartoline turistiche hipster a 5 dollari ci dice “no di certo”, come se avessimo chiesto il Mein Kampf. Vance è “public figure” da un anno, commentatore, opinionista tv, è “lo” scrittore trumpiano per eccellenza. Repubblicano, è stato in Iraq. Ma ha sofferto di più qui tra le bici a scatto fisso. “Ho vissuto per due anni in Silicon Valley”, ha detto in una recente intervista al New York Times, “circondato da altri emigranti super qualificati con vite apparentemente perfette. E’ strano vivere in un mondo dove ognuno ritiene che la sua vita possa solo migliorare, se vieni da un mondo in cui molti a ragione ritengono che le cose siano peggiorate”.

 

"Hillbilly Elegy" di J. D. Vance, romanzo "contro" Silicon Valley. Epopea di famiglia bianca devastata dalla crisi

“Non dobbiamo vivere come le élite della California, di New York o di Washington, non dobbiamo lavorare cento ore la settimana in studi legali e banche d’investimenti. Non dobbiamo socializzare ai cocktail party”, scrive nella sua elegia di pentito. Vance ricorda un po’ Franzen (altro malmostoso del Midwest), per la foga antisiliconvallica e antimoderna. La casa della nonna, la casupola di famiglia che passa di mano e che unisce i capitoli del libro, va in pezzi come quella dei Lambert delle Correzioni, e come l’America stretta tra le due coste. Lui adesso torna a Columbus, Ohio, perché vuole fondare una startup e un’associazione contro la droga: nel mondo che racconta nel suo libro, quello dell’America dei “fly over”, che si sorvola ma non usa scendere dall’aereo. Lì, ricordi di un’infanzia smandrappata-tragica, mamma tossica con uomini improbabili, denti e stomaci rovinati dalle bibite gassate e dal junk food dell’America Wal-Mart, quella che gli Obama con gli orti bio hanno tentato di redimere, “a nove mesi di vita la mamma mi dà la prima Pepsi nel biberon”.

 

Però anche posti in cui tutti si salutano per strada, spirito di comunità, una nonna fondamentale che spara col fucile ai ladri che stanno rubando la mucca di casa. “Il fatto è che sono nel profondo un uomo delle colline. Come lo è la maggior parte della classe operaia bianca d’America. E noi gente di collina non ce la passiamo molto bene”, scrive.

 

Posti ormai desertificati dove “una casa lasciata sola è una casa perduta”, come dice il principe del Gattopardo durante l’invasione dei garibaldini in Sicilia, ma qui è piuttosto l’invasione di tossici e spacciatori che si infilano in ogni edificio non presidiato. Il bacino elettorale di Trump, i bianchi umiliati e offesi.

 

Adesso Vance sta tornando in questo suo inferno di Pepsi, insieme a degli amici che vogliono fare una sorta di ri-gentrificazione. Fondando imprese e startup, “realizzando che quello di cui molte comunità necessitano non è solo finanziamenti, ma talento ed energia e cittadini impegnati a costruire imprese affidabili e altre forme di collaborazione civica”.

 

Puro lessico sanfranciscano, però: segno dunque che un po’ dello spirito siliconvallico l’ha preso, inoculato forse a sua insaputa. E’ come se Vance intercettasse un altro libro (forse il più importante) su Silicon Valley, opera dell’economista italiano Enrico Moretti che insegna a Berkeley, si chiama (è strafamoso) La nuova geografia del lavoro, e spiega come cambia l’America oggi, tutti si spostano nei grandi centri dell’innovazione, San Francisco in primis, abbandonando la “seconda America”, quella bianca e disperatissima centrale, delle aziende decotte, e dei Vance. Nella “prima America” costiera, i talenti vogliono stare vicino ai talenti, e questi centri continueranno a prosperare sempre di più, come calamite. Attraggono non solo cervelloni ma anche camerieri, avvocati, infermieri, massaggiatori, perché c’è un moltiplicatore, ogni talento brufoloso che arriva in queste oasi informatiche genera pil poiché richiede professionisti al suo servizio, dall’uberista al dog-sitter.

 

Vance rientra in pieno nel romanzo morettiano, ma non vuole farsi calamitare, ribalta la trama e il finale. Vuole portare la sua personale Silicon Valley in Ohio. Al di là dei notevoli risparmi sull’alloggio, un pensiero (equo e) solidale corre alla moglie, chissà come si troverà tra gli Appalachi ostili senza latte di soia e kale (è californiana di San Diego, poveretta).

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