Lo scatto di colpa. Sulla coscienza dell'occidente pesano alcune fotografie

Giulio Meotti

“Nella nostra utopia umanitaria nessuno deve più soffrire”. Parla il grande storico Victor Davis Hanson

Quattro settembre 2015. Quarantamila migranti siriani stanno attraversando i Balcani diretti in Austria e poi in Germania. “Siamo su un aereo senza carburante e non sappiamo cosa fare”, dice un ufficiale alto in grado della sicurezza ad Angela Merkel. La cancelliera si attacca al telefono con il ministro dell’Interno, Thomas de Maizière, che aveva accettato una serie di raccomandazioni delle autorità su come proteggere i confini. Migliaia di poliziotti vengono segretamente dislocati con i bus e gli elicotteri al confine. De Maizière chiede consiglio a Dieter Romann, il capo della polizia. “Possiamo vivere con le immagini che ne usciranno?”, chiede il ministro. “Cosa accadrà se cinquecento rifugiati con i bambini in braccio marciano verso le guardie di confine?”. Romann non parla pubblicamente dalla fine del 2015. Il capo della polizia ha un dottorato in Diritto amministrativo ed è stato un funzionario del ministero degli Interni come capo dell’unità per il terrorismo e l’estremismo. Anche da questa esperienza nasce il suo atteggiamento sobrio e non emotivo verso la “cultura di benvenuto”. Romann risponde a De Maiziére che l’uso appropriato delle misure da adottare sarà deciso dalla polizia al momento. Quando de Maizière gira la risposta di Romann alla cancelliera, Merkel ripudia l’impegno originario. I confini si aprono per 180 giorni. “Per ragioni storiche, la cancelliera aveva paura delle immagini di poliziotti armati che affrontano i civili al confine”, rivela Robin Alexander, giornalista di punta della Welt, che ha appena raccontato tutto in un libro da settimane in cima alle classifiche delle vendite, “I dannati”.

   

Alexander racconta le vere ragioni che hanno spinto Merkel ad aprire le porte a un milione di migranti in poche settimane. Il libro entra nel segreto delle discussioni di quei giorni fra il capo della Csu Horst Seehofer, l’allora leader dell’Spd Sigmar Gabriel, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble e il capo della Cancelleria Peter Altmaier. “Alla fine, Merkel si è rifiutata di assumersi la responsabilità, governando con i sondaggi”. Nacque così il famoso motto merkeliano “Wir schaffen das”: possiamo farcela. Merkel e il suo partito erano convinti che i migranti potessero essere fermati solo con l’aiuto della violenza non letale, come i cannoni ad acqua e gli spray respingenti. Sarebbe stato caotico e le immagini, forse, terribili. Merkel era estremamente preoccupata da tali immagini e del loro impatto politico e si convinse che la Germania non le avrebbe tollerate. La Cancelliera dirà, infatti, che il suo paese non sarebbe stato in grado di sopportare le immagini dalle condizioni del campo profughi di Calais “per più di tre giorni”. Il libro di Alexander ha raggiunto la vetta delle classifiche per aver rivelato un nervo scoperto nelle discussioni politiche sull’immigrazione. Il libro descrive un pezzo di storia contemporanea e si legge come un thriller.

Calais, il campo profughi conosciuto come "la Giungla", a pochi giorni dallo sgombero dei migranti (foto LaPresse)


La politica dei rifugiati della Merkel non viene raccontata come un capolavoro della politica del cuore, ma come una scelta dettata dalla paura delle immagini sulle televisioni di tutto il mondo. E’ la foto che pesa di più a dettare ormai il comportamento occidentale in tanti momenti chiave, l’immagine che ci disonora e ci fa orrore, il grande spettacolo di un rito espiatorio. Non ci sono limiti all’asta degli orrori dell’occidente. Il 30 aprile del 1975 cadeva Saigon. Fu la guerra, combattuta e persa dagli Stati Uniti alla televisione prima ancora che nelle foreste e nelle risaie vietnamite. Si concluse con una fuga affannosa degli elicotteri dai tetti dell’ambasciata americana. Immagini indelebili di quel conflitto rimasero nelle menti di tutti: bimbi nudi, bruciati dalle bombe al napalm; gabbie per tigri con dentro i vietcong; foreste defoliate dall’agente arancio. Durante la guerra, una sola fotografia, quella di una bambina vietnamita che corre sotto un bombardamento, nuda, pazza di dolore (Huyng Cong-ut, 1972), ha causato più danni nell’opinione pubblica americana di tutti i precedenti reportage delle reti televisive. Bob Simon un giorno si trovò alla periferia di Saigon, sull’autostrada numero tredici. Una mina sudvietnamita aveva fatto saltare un camion carico di civili sfollati. La Cbs filmò i bambini morti e le madri che piangevano. Bob Simon presentò il servizio con poche parole: “Queste le immagini. Non c’è più altro da aggiungere su questa guerra. Proprio nient’altro”.

Huyng Cong-ut, 1972


Nel 1958 i colonnelli francesi in Algeria avevano dedicato studi particolari alla guerra psicologica. Uno dei più noti comandanti pronunciò queste frasi: “L’uomo di oggi non pensa più che per immagini. Anche le sue idee sono immagini organizzate. La conseguenza è che nella nostra epoca le orecchie e soprattutto la vista sostituiscono l’attitudine al pensiero”.

   

Passano trent’anni e anche le moderne guerre degli Stati Uniti al terrorismo finiscono per essere decise dalla fotografia che pesa. Le vittime e le immagini di un soldato americano morto trascinato per le strade di Mogadiscio dopo il bombardamento del Black Hawk Down spingeranno Bill Clinton a ordinare un ritiro disonorevole dalla Somalia. Costrinsero la sua Amministrazione a ripensare ed, eventualmente, a smantellare i piani per utilizzare le truppe americane per le operazioni di pace delle Nazioni Unite in Bosnia, Haiti e altri punti strategici. Il generale David Petraues avrebbe descritto quella in Afghanistan come “la guerra percepita e condotta con le news”.

   

“Nel passato, le immagini dure provocavano rabbia nelle persone”, dice al Foglio il professore di studi classici della California University, Bruce Thornton. “Le fotografie della Guerra civile di Matthew Brady spinsero i civili del Nord e del Sud a combattere ancora più duramente. Oggi, invece, abbiamo creato una cultura terapeutica in cui la sofferenza ci disturba, anche la sofferenza dei nostri nemici più brutali, quindi siamo più proni a politiche di appeasement e al ritiro per non dover far fronte a questa sgradevolezza. Siamo ricchi e il resto del mondo non lo è. Quindi indulgiamo in una ‘colpa’ a basso costo, visto che la gente poi non fa molto per migliorare quelle vite, e quando lo fa di solito finisce per fare peggio. E’ la storia dell’aiuto umanitario in Africa, i trilioni di dollari che finiscono nelle banche svizzere di dittatori e satrapi. Nel caso dei tedeschi, più che la colpa, ha funzionato l’ostentazione di una virtù. I loro crimini storici li hanno resi disperati nel dimostrare che non sono nazisti, ma pacifici e sensibili alle sofferenze altrui. Ovviamente lo possono fare perché non devono pensare alla propria sicurezza nazionale. A quella ci pensano gli Stati Uniti”.

   

Immagini come super politica. “Sì, i real time della crudeltà eterna della guerra entrano nei salotti della gente durante il pasto serale”, continua Thornton. “Ma quelle immagini sono prive di contesto che dia loro un significato. Ad esempio, le immagini dei Vietcong nell’ambasciata americana di Saigon durante l’offensiva del Tet del 1968 ci fecero credere che stessimo perdendo la guerra. Il Tet fu un disastro per il nord, dove ci furono 40 mila morti. Ma negli Stati Uniti era ormai troppo tardi: tutti iniziarono a domandarsi come fare a ritirarsi e questo portò alla sconfitta degli Stati Uniti”.

Gli Stati Uniti hanno iniziato a perdere la guerra in Iraq con le fotografie di Abu Ghraib e delle salme dei soldati rientrate in patria, su cui l’Amministrazione Bush mise il veto, poi tolto da Obama. “Sfortunatamente, gran parte delle immagini di guerra dal fronte, in maniera pavloviana, sono usate dai nostri reporter occidentali per avanzare il tema predeterminato della colpa occidentale anziché il sacrificio e il coraggio investito in una nobile causa”, dice al Foglio il grande storico militare Victor Davis Hanson, anche lui docente alla California University e l’autore del bestseller “Massacri e cultura” (in Italia per Mondadori e Garzanti).

Iraq 1991: l'autostrada della morte (Wikimedia Commons)

Senso di colpa, come ha spiegato Pascal Bruckner? “Le élite occidentali esprimono l’umanitarismo del senso di colpa, ma anche una sorta di penitenza psicologica per non voler impegnarsi direttamente con ‘l’altro’. Pochi tedeschi vogliono ospitare i siriani nelle loro case e scuole. E’ dunque una virtù astratta, un paradosso ben noto a Merkel. I problemi esistenziali del mondo non occidentale atterriscono l’opinione pubblica, dall’uso della forza militare in Afghanistan e Libia agli aiuti umanitari. Capiscono che i loro sforzi raramente hanno la meglio sulle condizioni culturali preesistenti che hanno portato alla povertà e al caos. In questo vuoto, le élite teorizzano il post colonialismo, l’imperialismo e lo sfruttamento delle risorse per convincere gli occidentali che sono responsabili per la povertà endemica, la violenza e il caos in Asia, Africa e il medio oriente. L’orrore all’estero e l’inabilità di fare qualcosa porta alla reazione schizofrenica degli europei nell’aprire i confini a milioni di rifugiati non controllati, pur sapendo che gli europei mancano della capacità e forse anche del desiderio di integrare e assimilare i musulmani del medio oriente nella propria cultura. Il risultato di questa stasi sono le fiumane di immigrati, l’apartheid nelle città e la furia privata degli elettori europei che il loro liberalismo pubblico cozza con le loro paure private”.

Insopportabile l’immagine di Aylan al Kurdi su una spiaggia in Turchia. Insopportabile l’immagine delle persone “intrappolate” negli aeroporti americani dopo il cosiddetto “Muslim Ban” di Donald Trump. Insopportabili le tute arancioni dei prigionieri di Guantanamo (“il Gulag del nostro tempo” secondo la segreteria di Amnesty International). Il direttore di Twitter, Dick Costolo, ha sospeso gli account che mostravano le fotografie di John Foley, decapitato dagli islamisti. Nessuno ha potuto vedere la foto di Khaled al Asaad, l’archeologo decapitato e appeso a testa in giù a Palmyra da parte dello Stato islamico. Siamo fuggiti di fronte a tanto orrore. Nessuno ha potuto vedere la foto di Francesco Caldara, il pensionato italiano ucciso dall’Isis al Museo del Bardo di Tunisi, con una croce rossa e le parole “un crociato è stato schiacciato”. Perché l’umanitarismo cerca sempre la vittima perfetta, il derelitto senza identità che scappa dalle “guerre”. Questo vale anche per Israele. Un funerale dei bambini israeliani non è mai degno di premi e pubblicazioni, mentre quello a Gaza ottiene le prime pagine dei giornali. La barriera di sicurezza di Israele è più fotografata di qualsiasi star di Hollywood, ma solo nelle sezioni in cemento con i graffiti, sotto cui ha pregato anche Papa Francesco.

 

“Censurare le immagini crude dei terroristi è un errore: la gente deve vedere gli orrori perpetrati dai jihadisti”, ci dice Bruce Thornton. “Forse allora maturerebbero rabbia e desiderio di vendetta anziché appeasement e accomodamento”. L’esperienza dell’America nella guerra è sancita nella cultura popolare dal film “Apocalypse Now”, modellato sul romanzo di Joseph Conrad “The Heart of Darkness”. Il funzionario belga della società commerciale, Paul Kurtz, che muore con queste parole: “L’orrore! L’orrore!”. Non siamo più capaci di sopportarlo.

   

“Siamo così ricchi da aver creato un mondo in cui la sofferenza, la crudeltà, la malattia, la fame e la violenza che hanno sempre segnato l’umanità soltanto sporadicamente penetrano nel nostro mondo”, conclude nell’intervista Thornton. “Quindi pensiamo che la nostra pace e il nostro benessere siano la norma, quando in realtà sono anomalie storiche, senza garanzie di poter durare in eterno. Siamo dei tecnofili e degli utopisti: contrariamente alla tradizione occidentale di una natura umana imperfetta, crediamo nel mondo nuovo del progresso in cui nessuno dovrà soffrire e tutti saranno felici. E’ un sogno costoso che per ora possiamo permetterci. Ma non durerà”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.