Lezioni di caffè

Michele Masneri

Make espresso great again. A San Francisco ad ascoltare la versione di Illy. Perché qui la “coffee culture” è ancora in fase adolescenziale

San Francisco. Sono i Kennedy dell’arabica. Se il fratello Riccardo, già sindaco progressista di Trieste e poi presidente del Friuli Venezia Giulia, si è ritirato dall’agone, Andrea Illy, il presidente dell’azienda, adesso combatte una battaglia squisitamente diplomatica: conquistare l’America e sconfiggere (lo diciamo noi) il caffè-ciofeca californiano.

 

L’emergenza democratica a San Francisco, epicentro della “coffee culture” americana, non è infatti Trump ma il business tentacolare dei coffee shop che ti propinano una miscela verde di colore e acidissima, spacciandola per nettare degli dei, a non meno di 4 dollari. E mentre Starbucks sbarca in piazza Duomo a Milano, Illy senza bisogno di piantare palme (ce ne sono già a sufficienza, qui) zitto zitto apre a San Francisco, inaugurando il suo settimo punto vendita, e preparandosi ad aprirne altri. “Siamo presenti in 140 mercati e gli Stati Uniti sono quello più importante, vogliamo che diventino quello domestico. E partiamo da San Francisco, capitale americana del caffè, oltre che la più innovativa”, ci dice Illy il giorno dopo un grande party di apertura del nuovo bar-negozio nel Financial Center cittadino.

 

Ha studiato al Mit, frequentato Singularity University qui, fondato l’Università del caffè, i bar Illy, le capsule, una certificazione etica della filiera del caffè. Forse più che Kennedy è lo Steve Jobs dell’arabica, e del fondatore di Apple ha forse anche il carattere. Saliamo nel caffè del nuovissimo San Francisco Moma, non lontano dall’Apple Store, e “signore Illy”, come viene chiamato qui, viene omaggiato dalle maestranze. “Mi porti un cappuccino subito, e poi un espresso, tra dieci minuti”, ordina. Le maestranze eseguono. Controlla tutto. E’ smanioso. “Finestre aperte” dice, e qualcuno si precipita a chiuderle mentre entrano i primi avventori del bar in gruppi di visitatori al museo in braghe corte. “Colombi” dice, “odio i colombi”. Poi il tavolino traballa, panico. “Com’è che traballa questo tavolino”, addetto stampa americano sbianca e aggiusta il tavolino. “Certo che controllo tutto. Anzi, troppo poco controllo” dice mentre aggiusta le gambe. Siamo pronti con le domande scomode.

 

Com’è possibile che qui si bevano solo orridi caffè verdastri, “local” e “sustainable”, e grado di acidità micidiale? Se glielo dici, ti rispondono inorriditi che è il caffè californiano, che vanta una grande tradizione. Noi si sospetta che il business model in realtà è che pagando un premium su un caffè di merda si può bivaccare per ore in ambiente protetto e allacciare il proprio computerino per lavorare in remoto nella città dei senza-tetto e dei senza-ufficio.

 

Questi avvelenatori fanno poi miliardi: l’industria dei coffee shop, che sono 22 mila in America, vale 12 miliardi di dollari l’anno. Caso emblematico Blue Bottle, ventisei punti vendita, storia classica di dropout, studente di clarinetto al locale conservatorio, ritiratosi, fonda la locale startup di caffè. Aperto pure in Cina, ora lanciano anche il caffè alla marijuana (si è portato anche l’amico Franco Debenedetti a bere un espresso decaffeinato Blue Bottle, color verde pistacchio, un’acidità mostruosa, ci si è quasi sentiti male, il gentiluomo non ha fatto una piega, ma forse si è perduta la sua amicizia per sempre). Impiegano ore, tutto un sussiego, marketing scatenato, ti mettono anche la fettina di limone che tu secondo loro dovresti succhiare e ti dicono che “così si fa in Italia”, certo, come no.

 

Tradizione non vuol dire niente” dice Illy, con gli occhietti triestini che brillano. “Un conto è tradizione e un conto è conoscenza. Conoscenza vuol dire evidenze scientifiche, io devo fare l’analisi e la descrizioni. Ho reminiscenze del passato, sono un chimico. Si parte dalla definizione della qualità. La qualità ha due facce, quella oggettiva e quella soggettiva; corposo, intenso, aromatico, acido, sono caratteristiche induttive. Poi c’è la parte dei difetti: tu puoi avere una macchina fantastica ma se piscia acqua dal motore è lì che cade l’asino. Io posso anche inventarmi un prodotto innovativo, ma se è pieno di difetti i difetti rimangono. Siamo chiaramente in una fase adolescenziale per quanto riguarda il caffè” dice Illy. (Arriva una cameriera, possiamo procedere con l’espresso? “Non ancora”).

 

Noi beviamo il nostro americano, sul tavolo non c’è lo zucchero e fantozzianamente tacciamo. “Niente zucchero?” chiede Illy. Mah, veramente… “Presto, dello zucchero”, e arriva in un nanosecondo. Poi parte la lezione. “Nella storia recente del caffè in America ci sono state tre fasi, la prima era quella del caffè-commodity, materia prima di bassa qualità che si trova ancora in giro; poi è arrivata la seconda ondata, la second wave che imitava il caffè italiano e che è nata proprio a San Francisco con un signore olandese che si chiamava Alfred Peet e che nel 1966 ha aperto il primo coffee shop a Berkeley, un successo pazzesco”. Peet insegnò la torrefazione e un signore che si chiamava Howard Schultz, studente a San Francisco, che comprava il caffè da loro e poi fondò Starbucks. E Peet’s è un marchio che ancora oggi va alla grande, ma al pari di Starbucks è considerato qui il McDonald’s del caffè. “Il cambiamento è partito dai venditori che hanno fatto due scelte giuste, la prima è di usare solo arabica e lotti di alta qualità, la seconda di puntare sull’espresso. Ma la scelta sbagliata fu di tostare troppo. Poi hanno dei problemi di packaging”. Cioè, è cheap? “No, è la chiusura che non esalta l’aroma” (Illy è autorità morale anche in questo, coi suoi barattoli di latta, status symbol da cucina che tutti esibiamo, ma che anche i migliori di noi talvolta riempiono con miscele di sottomarche).

 

“Adesso siamo nella terza ondata, quella del caffè gourmet”. Ondata adolescenziale, appunto. “Certo. E se la seconda faceva bruciare troppo il caffè, quella in cui siamo adesso, al contrario lo tosta troppo poco”. Dopo tesi e antitesi ci si aspetta la sintesi. “La funzione d’uso del caffè è l’aroma. Certo c’è la caffeina, ma quella si può prendere con altre bevande. Orbene. Se uno vuole il caffè è perché vuole l’aroma. Per massimizzare l’aroma, orbene, i mille aromi del caffè si formano durante la tostatura. Mille tranne una ventina, orbene. Ed è una gaussiana”. Una che? “Mi segua. Io comincio a produrre aromi attorno a 180 gradi della tostatura ma se vado oltre i 220 li distruggo alla velocità del suono, perché si bruciano”. E “il caffè bruciato è un difetto, non è un gusto; dopo l’hanno capito, ma si sono sorbiti il caffè bruciato per vent’anni con la specialty coffee”.

 

Specialty coffee è una specie di Spectre del caffè ed è sorta anche questa qui a San Francisco quando una signora di origine norvegese, Erna Knutsen, si inventò il concetto di “caffè-specialità” nel 1976, una specie di Gambero rosso del caffè, bruciacchiato (lo scrive Illy nel suo libro “Il sogno del caffè”, Codice edizioni). “Perché gli americani ci mettevano tonnellate di latte dentro?” dice ancora. “Mica perché gli piace. Perché è pieno di zucchero e compensa l’amarezza. L’amarezza è un attributo che noi rifuggiamo antropologicamente, come il veleno. Cioè tu prendi il meglio degli ingredienti e poi distruggi tutto bruciando”.

 

Siamo finalmente alla terza, alla fase hipster, al soymilk e al barista tatuato che impiega mezz’ora per farti il caffè verde. “Anche questo deriva dalle regole della specialty coffee, che organizza pure la World barista championship, i campionati mondiali, e il protocollo prevede un quarto d’ora per fare un espresso, un cappuccino o una bevanda creativa, quindi sono abituati a impiegare tutto questo tempo. Glie l’ho detto, è una fase adolescenziale”.

 

“Così, in questa terza ondata, siamo cascati all’estremo opposto, i caffè tostati troppo chiari”. Verità scomode. “E quindi fanno questi caffè che sono acerbi, gli aromi non li hanno ancora formati, quindi il caffè è acido. Se lei succhia un chicco di caffè non tostato, è peggio di un pisello crudo! E’ insopportabile!: quindi la tostatura deve stare nella fascia tra i 180 e i 220 gradi, se vuoi avere un caffè serio. Sennò stiamo parlando d’altro, variazioni sul tema, spremute”. Ecco la sintesi.

 

Intanto sorseggiamo il nostro caffè americano normcore ovviamente Illy mentre Signore Illy mangia della frutta (“no carbs per me”). Ormai ingarellati da tutte queste nozioni ci sentiamo dei sommelier del caffè e ci buttiamo. Eh, ma questo caffè però ha un retrogusto… proviamo a dirlo a signore Illy, in maniera educata. “Quale retrogusto?”, ci guarda con gli occhi di ghiaccio triestini; “me lo descriva!”. “Cioccolatoso?” chiede. Mah, no, forse più ferroso, osiamo. “Ferroso?” esclama. L’addetto stampa vitreo. “Ferroso?”. Sarà più grave ferroso di cioccolatoso? “Sarà senz’altro un difetto della macchina”, e guarda verso la grande macchina del bar, noi ritrattiamo subito, pavidamente, ma no, è buonissimo ci siamo senz’altro sbagliati. Ma ormai è difficile tornare indietro. “Perché lei ha preso il caffè americano” (mi disprezza). “E’ una preparazione, mi scusi se glielo dico, bastarda. Il gusto metallico è un difetto, si vede subito dalla crema così chiara (guarda nella mia tazza). E se ha questo aroma metallico, è un problema di sovraestrazione”. Altra lezione. “L’espresso estrae il massimo degli aromi possibili grazie alla pressione, perché gli aromi stanno dissoluti negli olii, e nell’arabica c’è un sedici per cento di olii; e come lei sa olii e acqua non si mischiano; quindi se tu fai un’estrazione di caffè che sia un’infusione o una percolazione senza pressione, non riesci a estrarre gli olii, quindi tu non estrai tutti gli aromi. Con l’espresso, invece, la forte pressione e anche la macinazione molto più fine permette di emulsionare gli oli; quindi la schiumina dell’espresso altro non è che delle microbollicine di olio, quelle microbollicine sono tutte sature di aroma”. Siamo stravolti dalla lezione di biochimica. Sogniamo un nescafè.

 

“L’espresso è la preparazione più complessa che ci possa essere”, inferisce signore Illy; “è un’emulsione, una soluzione, una sospensione colloidale di particelle. E c’è anche una componente di effervescenza, una componente gassosa disciolta nella polvere di caffè; non esiste piatto in cucina che abbia una complessità simile a quella dell’espresso”. E’ per questo che non c’è ancora un Masterchef del caffè? Però è ovvio che il caffè è il nuovo cibo, almeno in Nordamerica. Sono tutti ossessionati. “Manca ancora la conoscenza. Il caffè ha due anime, quella scientifica e quella artistica” sospira signore Illy; “loro ora puntano tutto su questo côté artistico, loro hanno questo romance della coffee experience, della cultura del caffè, tutta questa roba qui. Ma gli manca il resto”.

 

“Facciamo un paragone col mondo del vino. A un certo punto il vino è diventato vino di qualità. La qualità media è aumentata a dismisura. Lo stesso nel caffè. Il livello medio è molto migliorato e non trovi più in giro caffè davvero cattivo, come il Robusta. Però in queste… come possiamo chiamarle… ricerche adolescenziali” (ancora) “sul fronte della qualità, ci sono varie stravaganze, come il gusto del fermentato”. E in effetti il “fermented” è ormai il nuovo tormentone. “Ora il fermented va molto, è però borderline, è molto vicino alla puzza. Come il fruttato. Sono difetti. Ti possono piacere, ma sono difetti. Ora ti chiedono il caffè fruttato. Lei non si ricorda ma anni fa andava di moda un caffè che si chiamava Rio, il riato, e aveva un aroma che in realtà era una contaminazione funginea, era a causa di un fungo che si chiama aspergillus fumigatus che produce tricloroanisolo, la stessa sostanza che genera l’odore di tappo nel vino. Più difettoso di così è difficile immaginare il caffè, eppure in certi paesi piaceva molto. O il cardamomo. Adesso ti chiedono il caffè al cardamomo”.

 

Dove andremo a finire. E il chicco scagazzato dall’animale, quello costosissimo? “Ah, quello è una vergogna, sarebbe da vietare, se lei vede in che condizioni sono allevati quei poveri zibetti”.

 

Però tra caffè che sa di tappo e animali maltrattati, in mezzo a questa coffee extravaganza, il caffè italiano dovrebbe farla da padrone. “Trentacinque anni fa abbiamo portato noi il caffè italiano in America” dice Illy. “Mio padre è stato un assoluto missionario della cultura della qualità. Abbiamo sempre pensato che fosse meglio allargare il mercato, e infatti così è stato, oggi si consuma il doppio del caffè con due volte e mezza il numero di consumatori, un miliardo di consumatori contro i seicento milioni di trent’anni fa”. Però a un certo punto ve l’hanno scippato il primato, pensiamo a Nespresso, che tutti credono italiana mentre è svizzera. Ci guarda malissimo. “Noi tra le aziende non quotate siamo quella che è cresciuta più di tutti. Senza compromettere la nostra qualità. Nespresso è della compagnia alimentare più forte del mondo, fa 100 miliardi di euro di fatturato, ha il 20 per cento di quota di mercato mondiale. Non possiamo certo competere con quelle dimensioni”. E’ Nestlè, che possiede anche l’altro baluardo dell’italianità, l’acqua “Pellegrino”, come tutti la chiamano qui. Ma superata la fase dell’adolescenza, come sarà la fase adulta del caffè? “Come col vino, avremo consumatori più colti che sanno discernere la qualità, più informati sulle differenze, meno attenti alle mode. Si seguiranno più punteggi, criteri oggettivi. Il fatto è che il vino ha cinquemila anni di storia. Il caffè, per ora, solo mille”.

 

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