Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Gentiloni, il mandarino grigio

Maurizio Crippa

Finita l’èra del Grande Timoniere, si è aperta quella del diplomatico fattivo e silenzioso. Ora la scena è tutta di Paolo Gentiloni, il presidente del Consiglio che parla poco e soprattutto non urla come Grillo

L’8 settembre 2007 c’era la Legge Gasparri e Paolo Gentiloni era ministro delle Comunicazioni.

 

Fermati, rileggi. Domandati che effetto fa questa frase, l’8 aprile 2017, a un cittadino pur mediamente memore e mediamente informato, almeno per motivi professionali. Domandati che effetto può fare a milioni di altri cittadini, per ragionevoli motivi meno informati e forse immemori. Quelli che ieri hanno guardato distratti il cielo nel quale erano appena volati i missili di Trump, producendo su di loro lo stesso effetto noncurante, intercambiabile, delle notizie sui soldi in nero di Fabrizio Corona e Belén. L’effetto che sia passata un’infinità di tempo. Oppure non sia trascorsa affatto. Tempo immoto, splendidamente italiano. L’8 aprile 2017 Paolo Gentiloni è presidente del Consiglio da quasi quattro mesi. Non fa nessun effetto. Oppure forse sì.

 

Era l'8 settembre 2007, il comico gridò: "C'è il ministro delle Comunicazioni che ha un blog. Ma non risponde a nessuno"

L’8 settembre 2007 Giuseppe Piero Grillo, verso le quattro del pomeriggio, salì su un palco in piazza Maggiore a Bologna e aprì la bocca. Il primo Vaffa-day. A un certo punto, a un pubblico berciante e sghignazzante che forse non s’era mai domandato in vita sua chi fosse Paolo Gentiloni, il comiziante gridò: “C’è il ministro delle Comunicazioni Gentiloni, che ha un blog. Ma che non risponde a nessuno. E dice che il suo passatempo preferito, ve lo giuro sulla testa dei miei figli, il ministro delle Telecomunicazioni, è giocare a tennis con uno che si chiama Ermete. GENTILONI ED ERMETE, ANDATE AFFANCULOOOOO”.

 

Dieci anni dopo Beppe Grillo continua a gridare, l’onda s’è fatta più minacciosa e prossima a tracimare. Ma Paolo Gentiloni proietta, come un ologramma, la sua ombra governante su Palazzo Chigi. Forse non ha più tempo per giocare a tennis. Non con Ermete Realacci, che anni dopo confessò: “E’ vero che abbiamo giocato a tennis per una vita. Purtroppo tempo fa mi sono rotto una caviglia sbattendo contro uno scoglio e per il momento abbiamo smesso”. Non gioca più nemmeno con Chicco Testa, che oggi combatte come un sol manager contro l’Italia dei No, ma a suo tempo aveva ammesso: “Sono un grande amico di Paolo Gentiloni, con lui abbiamo condiviso i migliori anni della nostra gioventù e abbiamo giocato per una vita a tennis insieme”. Il tennis, dipende da come lo interpreti. Forse per Paolo Gentiloni non è mai stato un’esperienza religiosa come per David Foster Wallace. Forse la profezia del geniale Freud di Theodor Saretsky, “la grande libido del tennis finirà col togliere alla pulsione sessuale il potere che esercita sulla psiche umana” non troverà inveramento nella misurata complessità psicologica del presidente del Consiglio. Ma interpretato come amicale diporto, come nobile schermaglia di battute senza rudi contatti fisici, il cui scopo è rimandare diplomaticamente la palla dall’altra parte della rete, senza restare impigliati, contando sulla precisione e sulla lunga durata, il tennis è un nobile sport di resilienza. Gli altri cannoneggiano, tu, semplicemente, ci sei. Rimbalzi.

 

Con o senza Ermete, con o senza Chicco, la notizia che dieci anni dopo Paolo Gentiloni sieda a Palazzo Chigi e dica secco, dei missili americani, “risposta motivata a un crimine di guerra”, è la nemesi di tutti i vaffanculo di Beppe Grillo. E’ la prova, pacifica come uno scambio da fondo campo, che la democrazia rappresentativa ancora esiste. E che per qualche misterioso motivo l’Italia, longanesianamente, va avanti lo stesso. O almeno è in grado di resistere ancora un poco (fino al 2018?) ributtando metodiche palline dall’altra parte del campo. Ai barbari.

 

Che dica secco, dei missili americani, "risposta motivata a un crimine di guerra", è la nemesi di tutti i vaffanculo di Beppe Grillo

Che effetto faccia tutto questo al medio cittadino italiano, se mai se ne sia accorto. Ai milioni di italiani che – tolti gli sbavatori grillisti che si avvelenano con le loro stesse fake news – all’ora di cena ancora siedono a tavola con davanti il telegiornale, e guardano il telegiornale. E vedono comparire, non molto di frequente in verità, la sagoma di Paolo Gentiloni. Che effetto faccia, Paolo Gentiloni, all’Italia e agli italiani, è una domanda adatta per il Roland Barthes della camera verde. O per un medium. Un osservatore comune, sprovvisto di mezzi di divinazione di massa ma con un po’ di memoria, può immaginare questo. Che agli italiani, all’ora di cena, faccia l’effetto dell’apparizione di Forlani. Arnaldo Forlani. Magicamente, oltre al piatto del carbonara-day o dei sofficini, lo schermo piatto scolora in bianco e nero e una dissolvenza incrociata d’altri tempi fa scomparire Renzi, Emiliano, perfino di Maio con i loro colori urlati, saturi. E appare, in indecifrabili sfumature di grigio, Forlani. O Gentiloni. O forse è davvero Forlani. Il tempo di chiedersi: ma che ci fa, Forlani? e di dirsi: è tutto normale, va tutto bene. E girare canale. L’Italia va, l’Italia affonda. Non è successo niente, da quel 2007. E’ solo Forlani. Non è tornata la Prima Repubblica, non è finita la Seconda, anche se la Ru486 referendaria ha abortito la Terza. E’ soltanto la politica nella sua essenza eterna. E’ soltanto Gentiloni. Di Forlani tutti hanno interiorizzato, anche se non l’hanno mai sentita, una memorabile battuta: “Posso parlare per ore senza dire niente”. Gentiloni non parla per ore. Sa di non essere un oratore, si comporta da non-oratore intelligente. Preferisce parlare il meno possibile. Non tuitta, se non con parsimonia. Tweet che hanno la striminzita freschezza e la debolezza comunicativa di retweet dall’account di @Palazzo_Chigi. “#sanpietroburgo Sgomento per l’attentato nella Metro. Solidarietà alle famiglie delle vittime. Italia vicina a Governo e popolo russo”. “Grandissima #Ferrari L’Italia che torna a vincere”.

 

Il tempo di chiedersi: ma che ci fa, Forlani? e di dirsi: è tutto normale, va tutto bene. E girare canale. Non è successo niente

Per gli italiani, che Gentiloni abbia sostituito mesi fa Matteo Renzi al governo è una dissolvenza, il ritorno a un territorio noto e consueto. Una pausa o una vacanza. Il volume tolto, con un tocco di telecomando, alla stordente narrazione del cambiamento, della rottamazione, dell’uomo nuovo che era andata avanti per qualche annetto. E poi è finita. Ma chi sia, cosa pensi, dove voglia andare Paolo Gentiloni è domanda che nessuno si pone, fuori dai circoli degli addetti ai lavori. La sua biografia è nota. Volendo, è curiosa e atipica. Ma non incuriosisce, non sembra in grado di determinare scossoni al paese. Non c’è neanche un padre bizzarro su cui indagare. Paolo Gentiloni Silverj, classe 1954, romano di nobile famiglia papalina, con palazzo avìto nelle Marche – il pedegree più d’establishment che possa esibire un politico in Italia, assieme a quello dell’aristocrazia diplomatica del regno sabaudo. E’ anche il primo premier che abbia militato nell’estrema sinistra, che abbia militato nella Nuova Ecologia (idee e glorioso giornale) prima di fondare la Margherita con Rutelli e il Pd con Veltroni. “In una genealogia ideale di Paolo Gentiloni”, scrisse Nicoletta Tiliacos in un magnifico ritratto per il Foglio, quando divenne ministro degli Esteri, “c’è lo Stato pontificio ma c’è anche Garibaldi (il quale soggiornò a Tolentino, nel palazzo della famiglia Gentiloni, nel 1849), e un antenato garibaldino, Aristide Gentiloni Silverj”. Fosse Papa, non sarebbe Bergoglio, quello magari Renzi. Sarebbe Pio XII. La prudenza è virtù famigliare, il passaporto diplomatico che nessuno ha necessità di controllare. Il liceo Tasso, la fucina della classe politica romana (c’era pure Maurizio Gasparri, quello della legge) è l’altro passaporto che non è necessario esibire. C’è. In Italia non si possono fare rivoluzioni, perché ci conosciamo tutti.

 

Il 12 dicembre 2016, alla cerimonia del campanello consegnato dal past president a Gentiloni, con l’aggiunta pop del regalo di una felpa con scritto “Amatrice”, il linguaggio del corpo del nuovo premier era rilassato, confidenziale e ispirava fiducia. Niente nuvole da Iago tradito di Enrico Letta. Governo fotocopia, o governo pietra tombale sulla stagione renziana. Gentiloni fotocopia, pallido clone. O Gentiloni crocevia di mille reti e mille ambizioni future. Gentiloni che è il perfetto partner istituzionale del silente, diplomatico, cattolico di sinistra ma politicamente più che altro laico, Sergio Mattarella. Suona il campanello, e il mondo sembra ritornato al suo posto, secondo alcuni. O al punto di partenza dopo un giro a vuoto, secondo altri. O precipitato nel buco nero, chissà. Perché Paolo Gentiloni, nella distrazione generale del “tutto è cambiato ma non è cambiato niente”, oltre ad essere la nemesi tennistica di Beppe Grillo è anche la nemesi di Matteo Renzi. E anche qualcosa di più di una nemesi, è il suo rovescio (non in senso tennistico) complementare.

 

Il miglior libro scritto su Matteo Renzi è quello di Claudio Giunta, “Essere #matteorenzi”. Una questione di storytelling, una lunga narrazione. Poi l’Italia e gli italiani si sono presi una pausa. Probabilmente definitiva: le prossime narrazioni minacciano di essere meno sorridenti, meno allegramente e facilisticamente invadenti. Paolo Gentiloni è la negazione di ogni narrazione. Non parla, forse fa. Essenzialmente è. Ad esempio è uno che lascia parlare i ministri, riemersi da un passato di terrore. Non li bacchetta al volo come Renzi, appena parlano. Anche quando si intuisce lontano un miglio che non è d’accordo. La sua caratteristica è la “prudentia”, sebbene non priva di personalità. C’è chi dice che la scelta di metterlo alla Farnesina sia stato il miglior colpo di genio di Filippo Sensi. Ma ora sta a Palazzo Chigi, un’altra partita. Leale, l’uomo è leale e lo sanno tutti, ma con nessuna voglia di tirare le cuoia, meglio tirare a campare: non per andreottiano cinismo, ma perché è l’essenza della politica italiana, e della diplomazia che, con il poker, è uno degli sport che preferisce. Sta giocando una partita di resistenza. Palle lunghe, lente. Ha scelto di essere il contrario di Renzi, e deve tenere duro. La photo opportunity del Lingotto è silenziosamente eloquente. Non è un comunicatore ma un tessitore, è un uomo che conosce il potere e sa sfruttare la sua dote anti-carismatica. Allo spin renziano – che prosegue, con strappi furbi o rabbiosi, su Torrisi, sulle recenti nomine che Renzi ha fatto di tutto per far apparire sue – non reagisce o lo fa con uno spin a lento rilascio. Ci ha messo un po’ a far capire che Profumo era una decisione del premier, o a trasmettere il fastidio che gli ha dato che abbiano scaricato addosso al suo solo governo (e il partito?) l’abolizione dei voucher. Gioca di resilienza e di diplomazia. Cose che non serve esibire, non serve siano viste dal pubblico. Tanto, col proporzionale, non si voterà per un leader, si voterà per lo schema di gioco.

 

Con Renzi una strana e sotterranea complementarietà. Gentiloni il conte è il suo opposto speculare. Una solida romanità

Ha un linguaggio del corpo, Gentiloni, che tende a renderlo invisibile. Non memorizzabile. E’ un linguaggio del corpo in chiusura, introflesso. Non gesticola, china leggermente la testa, l’accuratezza dei modi e degli abiti di chi non ha dovuto impararli da adulto. Dna di famiglia. Con la sprezzatura aggiunta, come un’acqua di colonia, dell’eterno look da intellò di sinistra, quando il ruolo lo consente. Come appare agli italiani? Autunnale. In base a qualche riscontro empirico, no Roland Barthes, la gente se lo raffigura sempre col cappotto. Ha il loden, sì, retaggio di una generazione, grado zero del comodo-caldo, impermeabile alle mode come pure il taglio dei capelli. Ma non è il loden di Monti. In Monti c’era una componente di gigioneria, il sottovoce del loden era un’esibizione virtuosistica, snobistica, serviva per preparare la battuta tagliente, professorale. Se Monti è stata la nemesi estetica, semantica, di Berlusconi, e il loden ne è stata l’icona, Gentiloni è la nemesi estetica e narrativa di Renzi. Dei suoi cappottini sbagliati e strizzati. Ma il suo loden non ha niente di snob: un loden è un loden è un loden. Questo percepiscono, probabilmente, gli italiani. Perché questo è lo Spirito dei tempi. E lo spirito dei tempi non è una cosa che si possa spiegare, insegnare. Passa nella pelle, si assorbe con la porosità del sistema.

 

Ma tra Paolo Gentiloni e Matteo Renzi non si tratta soltanto di nemesi. A ben guardare, si tratta di una strana e sotterranea complementarietà. Renzi l’estroverso è il self-made man toscano, popolare. Gentiloni il conte (“conte” è il soprannome con cui fin da piccolo lo chiamavano al paese, al Palazzo) è il suo opposto speculare. Più che Berlusconi e Monti, più che Lenin e Stalin, più che Gianni e Pinotto, sono come Mao Zedong, il Grossolano Timoniere, e Zhou Enlai, il Mandarino. Il diplomatico figlio della millenaria aristocrazia dirigente cinese, che parlava infinite lingue e affascinava e teneva a bada Henry Kissinger. Chi era più amato, dal popolo cinese? L’eroe popolano della Lunga Marcia o il diplomatico sempre in dissolvenza, sempre presente, di lunghissima durata? Domanda forse inutile, non servono primarie, non ci sarà scritto un nome sulle schede. Renzi lo sa e si cruccia. Gentiloni lo sa e basta. Agli eccessi di toscanismo ha sostituito, senza parere, una solida romanità. E’ un rutelliano-renziano che si è affidato all’entourage di Massimo D’Alema, come più non si potrebbe. Minniti (dalemiano-cossighiano, addirittura). Padoan, l’uomo di Bankitalia. L’epoca del renzismo maggioritario è finita e non tornerà. Nel tempo neoproporzionale contano la tessisitura e la mancanza di nemici. Gentiloni non ci sguazza, semplicemente è. Ma non si vede nello specchio (fosse mai un vampiro, che non captato dallo specchio della tv?). Forlani (la persistenza sulla retina dell’immagine di Forlani è lunga), lo chiamavano il Coniglio Mannaro. Paolo Gentiloni non è un bonaccione, ma ha poco di mannaro. Scivola semplicemente invisibile su quest’epoca. Per rimanere. Perché poi, hai visto mai? magari invece l’Italia è come la Spagna: un paese che ha ripreso a crescere, e il pil va benone, in un anno vissuto senza governo. Basta non farsi notare.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"