Un comizio di Emmanuel Macron nel giorni scorsi a Digione. En Marche! potrebbe diventare il partito del presidente della Repubblica (foto LaPresse)

Startup Macron

Paola Peduzzi

A Parigi, nella cucina di En Marche!, a parlare di fake news, strategie e investiture, e del fascino a volte amaro di non avere un passato

"En Marche! è una startup”, dice Pierre, chiacchierando nella cucina del quartier generale del movimento di Emmanuel Macron, al quarto piano di uno stabile bruttino in una traversa di Rue Vaugirard, “la via più lunga di Parigi”, come dicono tutti in coro appena la si nomina. Un primo piano di Macron è appeso sopra al lavandino, su un’altra parete c’è un’unica immagine, una ragazza con la maglietta “Je marche”, i muri sono disadorni, per terra ci sono scatoloni dell’Ikea accatastati, e delle cassette per la frutta che servirebbero per la raccolta differenziata ma paiono inutilizzate: il senso di improvvisazione è talmente forte che pare studiato nei dettagli.

 

En Marche! è stato fondato un anno fa, il 6 aprile del 2016, ad Amiens, la città di Emmanuel Macron (il fatto che il movimento abbia le stesse iniziali del suo ideatore aiuta molto nella comunicazione), che allora era ministro dell’Economia e che voleva non soltanto mobilitare i francesi per un piano di rinnovamento politico, ma soprattutto far sapere al partito per il quale stava prestando servizio, quello socialista, di avere altri progetti per se stesso. En Marche! era il simbolo del tradimento, il bacio rubato, ma un anno fa sembrava più rilevante lo strappo personale e politico che l’impresa in sé: era la dimostrazione che Macron avrebbe abbandonato il suo padrino, François Hollande. Ora che En Marche! potrebbe diventare il partito del presidente della Repubblica, l’atmosfera è cambiata, e anche se tutti salutano e si presentano e ostentano un’informalità giovanile e allegra, di chi non ha nulla da perdere, è chiaro che ogni cosa è diversa ora, che da perdere c’è tantissimo, e la trasformazione è allo stesso tempo urgente e imprevedibile.

 

"Siamo cresciuti molto in fretta, ma non vogliamo diventare come gli altri partiti", ci dice Pierre Le Texier

Barba, occhiali, calze a righe colorate, pantaloni alla caviglia, Pierre Le Texier si occupa dei “Jeunes avec Macron” e gestisce il Team Macron, decine di migliaia di iscritti su Facebook, undicimila su Twitter, che ha il compito di segnalare tutto quel che accade nella campagna e di rispondere. Rispondere a chi chiede informazioni, ma soprattutto rispondere a chi attacca, a chi costruisce “quell’immagine nauseabonda del banchiere Macron, del leader del partito dei soldi”. Mentre parla, Pierre s’interrompe spesso, risponde al telefono, twitta, poi risponde ancora al telefono e deve cancellare un tweet appena postato, troppo brutale pare, “non bisogna mai fare le cose di fretta”, dice alzando gli occhi con un sorriso, e ricomincia a spiegare com’è cambiata la vita in questi uffici in cui prima non c’era nessuno e ora su ogni scrivania si lavora almeno in quattro. “Siamo cresciuti molto in fretta – racconta Pierre – negli ultimi sei mesi abbiamo iniziato a darci una struttura, siamo 200-250 in tutto (di cui una cinquantina percepisce uno stipendio), ma non siamo e non vogliamo essere come gli altri partiti burocratizzati, gerarchici, con le sezioni e i capisezione, con una quota per l’iscrizione. Noi abbiamo 350 mila sostenitori e quattromila comitati locali, e iscriversi non costa nulla”.

 

Un movimento neonato per farsi grande deve fare molte scelte e molte rinunce, ma soprattutto “deve mettersi al servizio, perché se sbagli qualcosa, o non fai bene il tuo lavoro, vieni immediatamente sanzionato”. Come è facile mettersi in marcia è altrettanto facile fermarsi e distrarsi, i sostenitori devono essere seguiti, rassicurati, un pochino coccolati, in fondo stanno dando forma e concretezza all’azzardo di un trentanovenne che “con il suo viso affilato sembra un coltello da cucina pronto a tagliare i pezzetti che siamo tutti noi”, come scrive Franz-Olivier Giesbert sull’ultimo numero del Point. Non c’è preoccupazione più grande, qui: se i volenterosi che oggi dicono di avere intenzione di votare Macron poi non lo fanno davvero?

 

Al quinto piano si riunisce la commissione per il casting dei candidati alle legislative: i lavori sono segretissimi

La prima rinuncia del team Macron è stata quella di non utilizzare Nation Builder, un sistema che permette di controllare tutto quello che fanno gli iscritti, di conoscerli, catalogarli, sistematizzarli, sorvegliarli. Nation Builder, che è americano, è stato utilizzato in campagna elettorale sia da Trump sia da Hillary, in Francia la usano i Républicains di François Fillon e la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon: è uno strumento costoso e utilissimo. Ma il team Macron ha deciso di far da sé, “abbiamo costruito internamente una piattaforma nostra”, che non ha un nome, “è soltanto la piattaforma di En Marche!”, ed è meno invasiva, meno Grande fratello, ma permette comunque di costruire quel database indispensabile per trasformare il movimento in un partito presidenziabile.

 

Questo partito, se mai il sogno di Macron dovesse diventare realtà, dovrà poi presentarsi alle legislative di giugno: al quinto piano, sopra di noi, si riunisce ormai ogni giorno nella sala riservata alle conferenze stampa la Commissione nazionale d’investitura, l’Academy come la chiamano alcuni, una cellula di sei uomini e tre donne guidata da Jean-Paul Delevoye, ex ministro e parlamentare dell’Ump (l’antenato dei Républicains), che deve selezionare i 577 candidati di En Marche!. Non si sa quando la lista sarà pronta – Macron ha detto “nelle prossime settimane”, quasi certamente dopo il primo turno – ma si sa che almeno metà delle candidature deve venire dalla società civile, che deve essere rispettata la regola tante-donne-quanto-gli-uomini, che devono essere rappresentate molte categorie di lavoratori e di provenienze e che non ci devono essere precedenti con la giustizia.

 

Per candidarsi basta andare sul sito del movimento, riempire un formulario, inserire il curriculum e rispondere ad alcune domande che servono a comprendere il grado di coinvolgimento proposto – c’è chi è disposto a dimettersi all’istante dal proprio impiego e ipotecare la casa per finanziare la campagna, chi invece resta fortunatamente con i piedi per terra. Sono arrivate 14 mila candidature, un gruppo di quindici persone ha già fatto una prima selezione e per i “sopravvissuti” ha realizzato dei dossier informativi, con la collaborazione dei comitati locali che fanno da agenzie d’intelligence. Sulle pareti della sala adibita al casting, sono appese le foto dei candidati, con qualche informazione generale, e la commissione si confronta, valuta, prende appunti, non si ferma mai: “i nove” saggi, ha scritto il Point, hanno diritto a tre pause di cinque minuti ogni giorno, lasciano lo smartphone in una cassaforte all’ingresso, mangiano al tavolo e hanno un dovere di segretezza assoluta. Nulla può trapelare finché non lo decide Macron.

 

Eppure al piano di sotto e negli uffici circostanti, “i nove” sono la “commissione trasparenza”, quella che deve trasportare lo spirito genuino e informale della base dentro alle aule dell’Assemblée nationale. Trasparenza è un termine chiave per un movimento che vuole conservare la propria spontaneità: tutto quel che ha che fare con le manovre di palazzo, le sfumature delle famiglie politiche che si stanno avvicinando a En Marche!, un po’ di destra un po’ di sinistra, non trova spazio in alcuna conversazione (poco prima di questo incontro, Manuel Valls, ex premier socialista, aveva appena dato il suo sostegno a Macron: fuori dal quartier generale stazionano le telecamere e i giornalisti in attesa che qualcuno scenda e rilasci commenti, per capire l’effetto di questo endorsement tardivo e contraddittorio: la reazione si rivelerà freddina).

 

Su YouTube Mélenchon è invincibile, su Twitter va forte la Le Pen, i macroniani puntano su Facebook, con gli "aiutanti"

Gli uffici sono affollati di volontari e non, sulle pareti ci sono i turni, i cambi di turni, gli orari dei turni, le teste ritagliate di chi c’è e chi no, le mappe della Francia con sopra delle puntine che indicano i comitati locali e chissà che altro, il conto alla rovescia verso le presidenziali, frasi di Reagan, una foto di Kennedy e tante di Macron e degli eventi per Macron – ora che il ritmo è diventato frenetico, ce ne sono più di duemila a settimana.

 

Sui vetri di un ufficio c’è l’insegna “Les jeunes avec Macron”, fiore all’occhiello del quartier generale, perché questo collettivo nasce prima di tutto, prima dei comitati locali, prima dei banchetti negli angoli delle strade, prima di En Marche!. Nel giugno del 2015, Macron era ministro dell’Economia, in Parlamento si discuteva della legge che porta il suo nome, la legge sulle liberalizzazioni, che partiva ambiziosissima e che poi, nel dibattito e nello scontro interno al Partito socialista, si è di molto ridimensionata. Questa legge, e le fratture che si sono create, mentre si costruiva l’immagine nefasta del ministro ubercapitalista, rappresentano il punto di svolta di questa avventura, il momento esatto in cui Macron ha capito che non sarebbe sopravvissuto alle lotte socialiste, e anzi ne sarebbe diventato il perfetto capro espiatorio.

 

I giovani con Macron nascono allora, spontaneamente, “a sostegno di un ministro che cercava di portare avanti delle riforme e un rinnovamento politico”, dice Pierre, che si è unito al collettivo nel luglio del 2015. I fondatori, quattro ragazzi che venivano dal Partito socialista, armati di un sito e di una pagina Facebook, hanno iniziato a mobilitare altri giovani, facendo porta a porta in tutta la Francia, spiegando le novità della loi Macron ma soprattutto raccontando come la politica poteva cambiare e migliorare le chance di trovare un lavoro, di diventare imprenditori, di realizzare un sogno. En Marche! non esisteva né si pensava che sarebbe mai esistito, ma intanto questo collettivo lavorava sul territorio, s’ingrandiva, cercava di convincere ragazzi che non si erano mai impegnati in nulla – nella fascia tra i 18 e i 25 anni d’età, l’80 per cento degli attivisti per Macron è alla prima esperienza politica – a credere in un progetto finalmente nuovo, che aveva già la fortuna di avere un leader naturale. Quando poi Macron ha fondato En Marche! si è trovato a disposizione un gruppo di giovani che aveva sentito il bisogno di responsabilizzarsi, soltanto per lui. “Un lavoro considerevole” – sottolinea Pierre – che è stato poi confermato dagli studi sulle preferenze elettorali tra liceali al primo voto e universitari. L’ultima rilevazione è stata pubblicata ieri: Macron se la vede con Marine Le Pen, ma l’ha superata. C’è anche una novità, secondo l’analisi di Diplomeo, che vede tra gli universitari l’ascesa, al secondo posto dietro Macron, di Mélenchon, a dimostrazione di due fatti: il candidato della France insoumise sbaraglia il candidato socialista Benoît Hamon, e si batte sullo stesso terreno elettorale rosso-nero della Le Pen.

 

Le bandiere europee sono ovunque, sui vetri e negli uffici, ma non è difficile parlare di Europa? Macché, "ci protegge"

Ma le analisi politiche, in questo quartier generale in cui tutto è pragmatismo, non piacciono. Ci soffermiamo soltanto a parlare di Europa, perché ci sono bandiere blu a stelle ovunque, anche sui vetri che danno all’esterno, in bella mostra, e continuano a essere sorprendenti. Le bandiere europee sono comparse per la prima volta a un meeting macroniano a dicembre e poi sono aumentate sempre più. Far amare l’Europa non è un’impresa difficilissima? “L’Europa è protezione”, dice Pierre, sintetizzando lo slancio di Macron e dei neoeuropeisti in un’unica parola: da soli saremmo più fragili, più insicuri, più vulnerabili, e se c’è un momento in cui la politica sa diventare convincente e promettente è quando l’abbraccio non appare semplicemente come una tattica elettorale. Insieme siamo più forti, questo è il messaggio di Macron, quello “stronger together” che ormai non pronuncia più nessuno, dopo che è stato utilizzato dagli anti Brexit in Inghilterra e da Hillary Clinton in America, ma che è il filo rosso che unisce la lotta ai populismi e ai nazionalismi. Ma per farlo vincere, questo messaggio d’unità e protezione, ancora ce ne vuole.

 

Al di là dell’entusiasmo e dell’energia, l’abbraccio macroniano ancora non è così stretto, e forse non è nemmeno caloroso. L’immagine del tecnico distante dalle reali esigenze popolari è ancora molto presente e chi lavora sui social media continua a scontrarsi con gli attacchi del Front national e dei russi. Visti da fuori, sembrano battibecchi politici pure comprensibili, ma dall’interno appaiono molto più violenti e ingestibili. Il lavoro principale è diventato quello di scovare fake news, e ribaltarle. Ci sono gli attacchi personali a Macron, la sua presunta omosessualità (e quando il candidato si difende da solo, com’è avvenuto in questo caso, tutto fila molto più liscio, è un sollievo quasi), quelli sui soldi e quelli sul programma. Ogni volta è necessario rispondere a tono, trovando lo strumento che meglio riesce a veicolare il messaggio nel modo più efficace. All’inizio, il team digitale lavorava molto su YouTube, ma poi ha capito che su quel canale la concorrenza di Mélenchon è pressoché invincibile: il candidato della sinistra radicale, istrionico e comunicativo, sbanca con i suoi video. Anche su Twitter, Mélenchon va forte e così pure il Front national: nel regno dei troll, Macron fa fatica a emergere. Così in questi uffici piccoli e caotici, oggi si opera principalmente su Facebook, con una strategia ispirata alla campagna di Barack Obama del 2008, che detta legge in ogni quartier generale mondiale, modello di successo assoluto: ci sono gli “aidants”, gli aiutanti, che riprendono con lo smartphone il candidato durante i suoi incontri, gli fanno domande al volo cui lui risponde spesso in modo molto spontaneo, e poi lanciano queste piccole “pillole” su Facebook, con un effetto di entusiasmo da base piuttosto riuscito. Assieme circolano anche i video cosiddetti hollywoodiani (esagerazione), con musiche e frasi studiate per creare un’atmosfera da rivoluzione. Funzionano? Non avendo precedenti a cui confrontarsi, tutto funziona, se si aumentano iscrizioni e adesioni funziona anche meglio. L’assenza di riferimenti storici aumenta l’imprevedibilità, la possibilità di errori, fa temere che davvero questa sia un’altra, grandiosissima bolla in formato liberale-europeo che scoppierà già il 23 aprile. Ma allo stesso tempo, rende tutto possibile, e plausibile, e a tratti diventa bellissimo non avere un passato.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi