Figlio di gente di cinema (Cristina Comencini) ma anche di banca (Fabio Calenda): Carla Calenda, 44 anni, in Parlamento (foto LaPresse)

L'uomo (quasi) forte

Marianna Rizzini

Carlo Calenda, il ministro trasversale a cui tutti una volta hanno pensato (e che poi hanno criticato)

Dove lo metti non sta. Nel senso che è impossibile prevederne la permanenza in un punto esatto del palcoscenico politico per più di un anno (a volte meno). Motivo per cui, a destra come a sinistra, ci si è litigati, soprattutto a livello di suggestione, la figura trasversale di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico. Un post-montezemoliano e post-montiano, pariolino e non pariolino, figlio di gente di cinema (Cristina Comencini) ma anche di banca (Fabio Calenda), ex esponente di Italia Futura e Scelta Civica poi passato al Pd, sì, ma con area di appartenenza misteriosa e cangiante. Renziano? Insomma. E non quando si tratti di fare nomine ministeriali (appena diventato ministro, un anno fa, non ha scelto coloro che ci si sarebbe aspettati scegliesse nell’inner circle dell’ex premier). Bersaniano? No. Eppure, a un certo punto, vista la non perfetta aderenza delle sue mosse alla linea del plenipotenziario renziano Luca Lotti, Calenda aveva acceso speranze flebili ma persistenti nell’allora minoranza pd, dove i più arditi (non ancora fuoriusciti), si erano spinti a immaginare un futuro in cui Calenda potesse addirittura figurare come candidato premier. E questo nonostante fosse stato considerato, a monte, più renziano di Renzi, tantopiù che Renzi, prima di nominarlo ministro (all’indomani delle dimissioni di Federica Guidi), aveva litigato con duecentotrenta diplomatici e ventiquattro ambasciatori per averlo mandato a Bruxelles come Rappresentante italiano presso la Ue. Una carica che poteva certo richiamare il Bildungsroman del giovane Calenda, nipote di ambasciatore (“ambasciatore operativo e non decorativo”, come l’ha definito Michele Masneri su Lettera 43, e cioè capo missione a Tripoli, durante l’avvento del colonnello Gheddafi, e a Nuova Delhi, nonché consigliere diplomatico di Sandro Pertini al Quirinale). Tuttavia Calenda nipote non ha mai voluto impiegarsi nella carriera diplomatica, considerata, anche grazie alle conversazioni realpolitiche con il nonno, una strada polverosa e densa di sclerotizzazioni, ragion per cui il futuro ministro aveva presto accantonato la passione giovanile per il diritto internazionale, assieme all’intenzione di mettersi in lizza, con studio matto e disperatissimo, al concorso-monstre della Farnesina, quello di cui i consessi di neolaureati confabulavano, prefigurando bocciature multiple, cerberi imperscrutabili e tracce impossibili – poi qualcuno lo passava, l’esame, almeno al secondo tentativo (ma chissà come e perché, si borbottava).

 

Ministro dello Sviluppo già manager montezemoliano e politico montiano, poi "renziano di fatto", ma inviso ai renziani

Vista dall’altro lato del quadro politico, la situazione è la stessa. Dove sta Calenda, esattamente? E con chi? E nel dubbio, qualcuno, negli ultimi tempi, ai piani alti di Forza Italia (con interessamento di Silvio Berlusconi), ha buttato lì, come nome del possibile federatore dei moderati di centrodestra, magari candidato premier in caso di non agibilità berlusconiana, proprio quello del ministro dello Sviluppo, in teoria renziano ma in pratica non più benvisto dai renziani. E anche se la smentita di Calenda, con un tweet e una lettera a Repubblica, quotidiano su cui era uscita la notizia, giungeva subitanea, c’era chi in Forza Italia tanto ci credeva da scatenare un mezzo putiferio tra i colonnelli del partito (seguiva, per costoro, rassicurazione di B.).Ma anche nel Pd la perplessità dilagava, e si diffondeva la voce di un rafforzamento della task-force che, già da un po’, informalmente, osserva per così dire in modo critico il ministro ex prediletto. “Non ho mai avuto il piacere di conoscere o anche solo di parlare con il presidente Berlusconi”, scriveva intanto Calenda nella lettera a Repubblica, non riuscendo tuttavia a silenziare l’ormai montante amarcord sull’attuale ministro dello Sviluppo che, nel 2013, nei duri tempi post-elettorali (non caratterizzati da un trionfo per Scelta Civica), durante una riunione non tranquilla del partito montiano, era sembrato propenso, anche grazie a colloqui con Antonio Tajani, a portare Sc a fare l’accordo con B. Accordo famigerato per gli esponenti di Scelta Civica più spostati a sinistra, che avevano guardato Calenda allibiti come poi, molto tempo dopo, lo guarderanno i giornalisti cui un Renzi premier aveva raccontato del Calenda negoziatore per caso presso i ribelli del Mozambico (con tanto di foto a bordo di moto lanciata nella foresta, ma in giacca).

 

“Come ho più volte dichiarato e scritto, l’esperienza di Scelta Civica ha dimostrato che fondare e/o guidare un partito non è un’attività che mi è particolarmente congeniale”, ha detto Calenda per allontanare da sé l’immagine di colui che, dal centrosinistra, non disdegna l’idea di farsi trait d’union nel centrodestra (d’altronde sono giorni in cui, persino a Palermo, Forza Italia candida sindaco un ex Pd ed ex Idv come Fabrizio Ferrandelli). E anche se Calenda assicura che “l’unico obiettivo” che ha “è fare bene il ministro dello Sviluppo economico”, e anche se si definisce un “tecnico”, prevale, presso il mondo parlamentar-ministeriale, una lettura palindroma della sua discesa e permanenza in politica, leggibile in modo ugualmente trasversale da destra a sinistra e da sinistra a destra.

 

Quelli che lo vogliono federatore a destra, quelli che lo volevano capo a sinistra, e l'addio controverso a Scelta Civica

Vero è che la lunga carriera montezemoliana (in Ferrari e in Confindustria, con parentesi a Sky), e l’esordio lavorativo presso un Cordero di Montezemolo ossessionato dal dettaglio al punto da aborrire la presenza di strati mattutini di neve sul tetto delle macchine, ha determinato la Weltanschauung dell’attuale ministro (“è montezemoliano anche senza Montezemolo e nonostante le apparenti divergenze di visione su Alitalia”, dice un addetto ai lavori). Ma è vero pure che, dalla montezemoliana Italia Futura in poi, Calenda la politica non l’ha più mollata. Ed ecco che si riaffaccia, nel Pd e non solo, la domanda “ma per andare dove?”. Fresco infatti è il ricordo del precedente, l’addio a Scelta Civica del 7 febbraio 2015. Giorno in cui Calenda, inizialmente considerato un montiano convinto, arrivato in quanto tale a ricoprire al carica di viceministro dello Sviluppo nel governo Letta, e in quanto tale non tenero con i montiani pentiti o in fuga, si è reso co-protagonista del passaggio al Pd (con altri sette esponenti ex montiani), gridando al mondo la cosa (con una lettera al Messaggero la cui frase-chiave è: “… il progetto coltivato dai deputati di assumere una linea di lotta e di governo su cui fondare la ragione politica di Scelta Civica, appare come il triste remake di un film già visto nel corso di tutta la seconda Repubblica. Di qui la decisione di seguire i nostri elettori e la nostra agenda originaria e partecipare al percorso riformista di cui il Pd è oggi l’unico attore…”). E anche se poi Calenda ha motivato l’addio con “la delusione” per il “fallimento” del progetto di un partito “fondato in 45 giorni”, nel Pd si guarda ora al ministro palindromo con puntiglio diffidente. Gli indizi spuntano prima di tutto nei tweet sul ddl concorrenza (scrive per esempio il deputato Sergio Boccadutri, responsabile area Innovazione del Pd: “Per difendere qualità servizi, occupazione e consumatori non basta intesa generica #callcenter. Serve norma. Si usi fiducia”). E, in questi giorni di messa-sotto-osservazione del Calenda ministro di centrosinistra che piace al centrodestra, nel centrosinistra non si nascondono le critiche all’uomo prima stimato per la maniacalità. Calenda infatti è un ossessivo del lavoro, con stress non sempre ammortizzato (“l’altro giorno per poco non sviene in ufficio”, raccontano al ministero), vita mondana ridotta all’osso, weekend rigorosamente in campagna con moglie e tre dei quattro figli( ma solo perché la figlia maggiore, avuta molto giovane, ormai è grande e vive all’estero), e ore di lettura quasi escusivamente dedicate ai saggi (perlopiù di storia), fatta eccezione per Emmanuel Carrère. Non sportivo, Calenda conserva tuttavia soltanto un vago ricordo della pigrizia di quando, da ragazzino, a un certo punto lasciava il liceo Mamiani per un meno impegnativo centro-studi a Roma Nord, andando nel contempo (sedicenne) a vivere col nonno, per diplomarsi e poi ributtarsi nello studio alla Sapienza, ormai nemico dell’ozio in quanto giovane padre.

 

Ma oggi, quando dici “piano Industria 4.0” e “investimenti”, i non estimatori fanno notare che Calenda “non è stato maniacale come al solito sugli incentivi fiscali”, secondo i critici più adatti “alle grandi imprese che non alle realtà di piccole dimensioni”, e che la manovra dovrebbe “preventivamente tenere conto dei problemi strutturali delle Pmi, spesso carenti di risorse”. Lamentele arrivano anche per la gestione della rivolta-taxi e per quello che è stato chiamato “neoprotezionismo” di Calenda (risposta del ministro, in pieno caso Bolloré: “… approveremo una norma anti scorrerie che non sarà una norma anti Vivendi”, ma “se compri il 5 per cento di una società devi dichiarare perché lo stai facendo” – una misura non “retroattiva” e “a favore della trasparenza per chi acquisisce partecipazioni rilevanti”). Trasparenza – ma interna al Mise – era pure l’inno di battaglia lanciato un anno fa, a insediamento appena avvenuto, con idea sottesa di equiparare l’Italia agli “standard Ue” sul tema “registro dei lobbisti”. Ma è stato a inizio anno, con un’intervista al Corriere della Sera, che il ministro ha pronunciato le frasi che poi hanno fatto sobbalzare tutto il mondo liberal-liberista, quando cioè ha invocato “una rete di protezione per difendere gli interessi nazionali”. (Corollari: più “assertività” in Europa e “tutela dei pezzi più fragili del sistema produttivo contro il dumping sociale”).

 

Ed ecco che la Weltanschauung montezemoliana resta, ma la vena "neo-protezionistica" allarma il mondo liberale

Antropologicamente contrario alle prospettive di decrescita felice con reddito di cittadinanza (“non ci si può inventare redditi che non siano quelli che derivano dal lavoro. La politica deve creare le condizioni per cui le imprese creano lavoro. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro, non sul reddito”), il ministro, nell’intervista di Capodanno, ha detto un’altra frase capace di alienargli simpatie all’interno del Pd: “Non possiamo più tentare di esorcizzare la gravità della situazione con l’ottimismo, o nascondere la complessità dei problemi, cedendo alla logica del Truman Show che i populisti, Cinque Stelle in testa, provano ad imporre, ma che non funziona per una forza di governo”. Eppure l’attrazione-repulsione esercitata da Calenda ora su questi (Pd) ora su quelli (Forza Italia) sembra più avere a che fare col carattere, sospeso tra l’efficientismo da “Mister Wolf-risolvo problemi” e una certa irascibilità (storica è rimasta, a Roma, la giovanile scazzottata a un ballo con l’amico principe Moroello Diaz della Vittoria Pallavicini, anche se la perdita della pazienza può verificarsi per molto meno o molto di più, e in tempi più recenti).

 

Il ruolo del nonno regista e di quello diplomatico, il carattere irascibile, l'avversione per il reddito "non da lavoro"

Ma perché non ha fatto l’attore? o il regista? , o lo sceneggiatore? gli chiedono sempre tutti, vista la famiglia, dove anche il compagno della madre è produttore (Riccardo Tozzi), e visto che Calenda, a dieci anni, ha recitato per il nonno Comencini nello sceneggiato “Cuore”, interpretando il bambino Enrico Bottini. Ma perché non ha fatto l’attore? scherzano oggi quelli che non vorrebbero vederlo federatore del centrodestra. Ma perché non ha fatto l’attore? pensano quelli che, nel centrosinistra, pensavano Calenda fosse lettiano e se lo sono ritrovato renziano apparente – e però forse erano solo convergenze parallele. Ma la risposta non è politica. Lo scarto rispetto all’avvenire potenzialmente cinematografaro è avvenuto per ragioni che affondano nel lessico familiare, oltreché nella finestra dello studio di suo padre in Banca D’Italia (i particolari che stregano da piccoli). Di cinema, forse, ne ho sentito parlare troppo, dice infatti Calenda a chiunque gli chieda come mai, dal set, è balzato direttamente alla Ferrari.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.