Mettiamoci in macchina e partiamo? Non più. Il tasso di americani che si spostano in stati diversi da quello d’origine si è quasi dimezzato rispetto agli anni 60 (illustrazione di Norman Rockwell)

Il sogno americano s'è impigrito

Paola Peduzzi

Sistemato in salotto, non ha più così voglia di avventure fuori casa. Ma non ci sono funerali da organizzare, l’America ritornerà

Da quando Donald Trump ha vinto le elezioni negli Stati Uniti si sono moltiplicati i “must read” per comprendere perché un presidente così poco ortodosso, per usare un eufemismo, sia riuscito a conquistare un paese come l’America che tutti avevamo la presunzione di conoscere bene, al punto da prevederne le scelte. Abbiamo letto libri, guardato documentari, abbiamo cercato di recuperare le lacune che, per leggerezza e supponenza, avevamo accumulato durante la campagna elettorale del 2016 mostrandoci refrattari, per usare un eufemismo, alla rivoluzione trumpiana. Cos’è che non abbiamo capito? Questa è la domanda che ci siamo posti negli ultimi mesi, e stabilire una risposta non serve tanto a ristabilire l’autorevolezza dei tanto famigerati esperti – su quella bisognerà lavorare ancora molto – quanto piuttosto a imparare a decifrare il mondo americano nel modo adeguato a questa nuova fase trumpiana.

“The complacent class” racconta
che gli americani si sono affidati alla cultura “dell’abbinamento”:
i simili con i simili

 

Da poco è stato pubblicato un saggio che va in questa direzione: comprendere come è cambiata e sta cambiando l’America. Si intitola “The Complacent Class: The Self-Defeating Quest for the American Dream”, duecentocinquanta pagine di analisi e dati che mostrano come la “restlessness” americana individuata da Tocqueville, quella smania irrequieta di muoversi, di progredire, di gettarsi in avanti, di rischiare sia diventata un po’ meno forte, un po’ meno prorompente, al punto da creare una cultura che è quasi l’opposto: “complacent”, appunto. Questo termine, “complacency”, è di quelli che non hanno una traduzione perfetta in italiano, anzi, è pieno di sfumature che vanno dalla gratificazione alla pigrizia al menefreghismo, e che in sintesi segnala una grande trasformazione: sto dove sto, non ho più voglia di cambiare. L’America si ferma in una stagnazione culturale: e che fine fa allora il sogno americano?

 

Tyler Cowen, l’autore del libro, è un economista che lavora alla George Mason University e che tiene, assieme a un suo collega, Alex Tabarrok, il blog Marginal Revolution, popolare e influente non soltanto nel mondo dell’economia. Nel suo saggio, Cowen dà una definizione della “complacency” e spiega che “se smetti di accettare sfide nuove e se pensi che il tuo modo di vivere sia l’unico, questo modo alla fine diventerà più fragile, non migliorerà, e tu entrerai in una bolla dalla quale vedrai con sempre ulteriore sorpresa quel che ti accade intorno e le proposte di cambiamento che ti arrivano da fuori”. Starai dove stai, insomma, e sceglierai di innamorarti di chi ti assomiglia, di ascoltare la musica che piace a chi è come te, di leggere notizie e analisi di chi la pensa come te, di abitare vicino a persone che più o meno guadagnano come te, costruendo quella che per Cowen è la nuova “segregazione” cui s’è condannata parte dell’America. La “matching culture”, la cultura dell’abbinamento, ha avuto un effetto positivo sull’economia e sui consumi: compriamo quel che ci piace, sbagliamo di meno, ci arrivano proposte che ci interessano, perdiamo meno tempo. Ma dal punto di vista delle relazioni, tutto è cambiato: la sorpresa nella diversità, che era alla base dell’istinto da pioniere americano, è stata annullata dal desiderio di sistemarsi in ambienti confortevoli, in cui i punti di contatto sono tanti e il confronto è ridotto allo zero. Perché sto bene dove sto, con chi mi è simile.

 

Cowen elenca una quantità enorme di dati e di trend, e in una conversazione con il Foglio spiega che sono stati due gli elementi che lo hanno fatto interessare al tema, di cui si era già occupato nel 2011 in un mini saggio che è diventato bestseller dal titolo “The Great Stagnation”. Allora l’approccio era prettamente economico, oggi Cowen allarga l’analisi, anche perché – dice – “ho passato molto tempo a casa, e ho studiato da vicino i millennial”, avendoceli spesso nel proprio salotto. Se “il rallentamento della crescita della produttività” è stato il dato da cui partire, la vita domestica – “quanto tempo dedichiamo a coccolare i nostri figli” – ha convinto Cowen che è in corso un cambiamento strutturale, che la tradizione del pioniere, del progresso sempre e comunque, non è più così viva.

 

L’autore, Tyler Cowen, ci dice che “un’ondata
di caos” risistemerà l’ordine, si tratta
di saper gestire
la tempesta

“Molti americani non amano troppo il cambiamento – scrive – a meno che non siano in grado di gestirlo e controllarlo”. Lo spirito d’avventura e da avventuriero si è ridimensionato. Gli americani sono diventati un mito in questa nostra parte di mondo, in cui si è estremamente più statitici, per la loro incessante mobilità: per studiare, per lavorare, per inseguire una donna o un sogno, qualsiasi motivo era buono per muoversi. Oggi il tasso di americani che si spostano in stati diversi da quello d’origine si è quasi dimezzato rispetto al livello degli anni Sessanta. Mettiamoci in macchina e partiamo? No, non più. Nel 1983, il 69 per cento dei diciassettenni aveva la patente, oggi soltanto il 50 per cento degli americani di quell’età smania per averla. Anche in termini di innovazione alcuni dati sono sorprendenti. La quota di americani under 30 che ha un business in proprio è scesa del 65 per cento dagli anni Ottanta, al punto che David Brooks, commentatore conservatore del New York Times e autore in questi mesi trumpiani di articoli originali e imperdibili, dice che “i millennials potrebbero essere la generazione meno imprenditoriale della storia americana”. Si registra un quarto dei brevetti in meno rispetto al 1990, e anche la flessibilità sul lavoro è molto diminuita: è come se avesse attecchito nell’America del nuovo millennio la logica del posto fisso per tutta la vita. Assieme anche a un istinto “no Tav”: il processo di segregazione – scrive Cowen – è molto chiaro quando si guarda il “Nimby”, il “not in my backyard”, che arriva a trasformarsi in “Banana”, “build absoultely nothing anywhere near anything”, non costruire più nulla, a meno che non lo voglia io: “Fare nuove costruzioni diventa ogni giorno più difficile nella maggior parte delle nostre città, e la ratio tra affitti e reddito medio si è costantemente alzata. La vita americana è segregata in termini di reddito come mai prima d’ora, e le nuove innovazioni che creiamo stanno consolidando invece che invertendo questo trend, che è sostenuto dalle leggi locali ma anche dal nostro stesso desiderio di vivere tranquilli in quartieri e zone confortevoli”. Se a questo si aggiunge il fatto che si preferisce non uscire di casa perché tutto quello di cui c’è bisogno può essere consegnato o consumato tra la cucina e il salotto e la camera da letto, si capisce quanto profonda sia questa nuova “passività”, che annienta la cultura dell’automobile come quella del nuovo lavoro.

 

La lettura di “The Complacent Class” non è, per la maggior parte del tempo, rassicurante, anzi. Ogni capitolo tira una piccola martellata al mito americano, e in tempi in cui c’è Donald Trump alla Casa Bianca e voler bene all’America è diventato un lavoro quantomeno faticoso, il dolore è più grande. Ma Cowen a parole non è affatto pessimista. “Il sogno americano non è mai morto e non penso che sia necessario nemmeno questa volta organizzarne il funerale – ci dice, finalmente un pochino consolatorio – Certo, un approccio tecnocratico o ingegneristico per riaffermare il sogno americano non funzionerebbe. La gente non è interessata a questo tipo di mentalità in questo momento, non a livello politico almeno. Penso che un’ondata di caos ripulirà l’America, e alla fine una nuova versione moderna del nostro storico e celebrato dinamismo emergerà. Ma è troppo tardi per una correzione semplicistica da manuale”. In realtà di soluzioni immediate e chirurgiche non ne circolano molte, ma se il caos creativo fa parte anch’esso di una cultura votata al progresso e al cambiamento, è diventato anche spaventoso. Ora che il caos ce l’abbiamo davanti, sotto forma di una Casa Bianca e di un mondo un pochino capovolti, questa idea di pulizia appare meno allettante. Ma quanto c’entra questo spirito del “sto bene dove sto” con il trumpismo? “Trump rappresenta un gran ritorno al passato – spiega Cowen – Quando il presidente parla di infrastrutture, non si riferisce allo ‘smart grid’, a reti di informazione e tecnologia sofisticate, ma pensa alla riparazione di strade, gallerie e ponti. Non c’è nulla di male in questa idea, ma certamente mostra quanto indietro guardi la sua visione politica. Trump vorrebbe riportare l’America agli anni Cinquanta, quando c’era meno libero commercio, meno correttezza politica, meno immigrazione, meno alleati stranieri. Suona come uno che non ha mai letto un libro di fantascienza nella sua vita, parla di cambiamento ma non ha idea di come implementarlo e nemmeno di come desiderarlo”.

Trump “suona come
uno che non
ha mai letto un libro
di fantascienza.
Non sa nemmeno
come si desidera,
il cambiamento”

 

Alla fine del suo saggio, Cowen scrive che per rimettere in ordine l’America e di conseguenza il mondo ci sarà bisogno di un “great reset”, un termine che nella storia recente è associato al pulsantone rosso offerto dall’allora segretario di stato Hillary Clinton a Mosca per restaurare le relazioni tra Stati Uniti e Russia – un enorme fallimento, insomma. Ma questo atteggiamento così avverso al rischio non può durare per sempre, e uno choc nel giro di qualche anno, o decennio, servirà a ristabilire la tradizione. “C’è una possibilità concreta – scrive Cowen – che nei prossimi vent’anni scopriremo come funziona il mondo per davvero ben più di quanto avremmo mai voluto saperlo”.

 

Il presagio non suona affatto come un abbraccio, ma Cowen è squisito, non lascia che il senso di “soluzione finale” diventi opprimente. “Molti non credono più nell’ordine liberale globale – dice – Ma in termini di valori pratici in giro per il mondo, questo ordine liberale si mostra molto vicino alla performance di punta. Guardate alla Cina o all’India. La cosa divertente è che questo ordine non è affatto rotto. Assistiamo a una resurrezione economica in buona parte dell’Eurozona. Il mercato del lavoro americano è in sostanza guarito. E potrei continuare a lungo. L’opinione pubblica è una bestia divertente”, aggiunge, con quell’ironia di chi pensa che siamo in mezzo a una fase, turbolentissima, che non sarà eterna. “Gli americani lavorano duro e assimilano immigrati molto bene – continua Cowen – Sono eccellenti nel business, e hanno una mentalità molto concreta. E per lo più sono tolleranti, anche se adesso ci viene da pensare che non lo siano più così tanto. Ma nessuna di queste caratteristiche è scomparsa nel nulla, è per questo che alla fine l’America tornerà”. Che bella quest’immagine dell’America che ritorna, e cura la ferita del trumpismo indecifrabile e dello choc dell’ultimo anno.

 

I dati raccolti mostrano che l’innovazione
è più bassa e la voglia
di muoversi pure:
non si prende nemmeno più la patente

E noi? Noi che non siamo mai stati mobili, dinamici, avventurosi, noi che fine faremo? “La forza dell’Europa occidentale – dice Cowen – sta nella profondità storica, nell’estetica, nel gusto, nella convinzione che il mondo possa vivere bene in pace, nell’apprezzamento di culture diverse e nella curiosità per il resto del mondo. Queste caratteristiche sono rimaste intatte. Credo che l’Europa stia per affrontare un’altra crisi della sua moneta, delle sue banche oltre a quelle dell’immigrazione e del terrorismo che sono già in corso. Ma nel lungo termine non scommetterei mai contro l’Europa”. Siamo in trasformazione, ma tra cinquanta o cento anni questo “sarà un mondo migliore in cui vivere”, dice Cowen, e benché la transizione sia così caotica e dolorosa, non c’è alcun motivo buono per non fidarsi di lui.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi