Una deputata della dodicesima Assemblea nazionale del popolo, che si è riunita a Pechino nella prima metà di marzo (foto LaPresse)

Tornano a riveder la Cina

Eugenio Cau

Perché i cinesi che erano espatriati per cercare fortuna ora ritornano? Nella parabola delle “tartarughe di mare” c’è la rivalsa del sogno cinese sul sogno americano

Dagli anni Sessanta fino alla metà dei Settanta, Wang Mengxin e He Yixin hanno vissuto quasi in sincrono. Originari dello stesso villaggio nella provincia del Fujian, in Cina, sono stati compagni di classe allo stesso asilo, la stessa scuola elementare, la stessa secondaria. Quando Mao Zedong, nel pieno della Rivoluzione culturale, inviò i giovani nelle campagne per imparare la rivoluzione dai contadini, Wang e He furono mandati a dissodare la terra nello stesso campo. Più di ogni altra cosa, i due ragazzi condividevano lo stesso sogno: abbandonare la Cina e andare in America a cercare fortuna. Tra gli anni Settanta e Ottanta, questo era il sogno di tutti i giovani uomini in Cina. Nella scuola di Wang e He, tra 350 i diplomati dell’anno 1983 310 sono emigrati in America, o sono morti nel tentativo, stipati nei depositi del pesce di pescherecci luridi senza cibo e senza acqua potabile. Dalla Tingjiang Secondary School, dove Wang e He hanno studiato, sono emigrati in America oltre 15 mila studenti nel corso di trent’anni.

 

Dopo anni passati a vivere di espedienti, nel 1982 arriva l’occasione. Wang ottiene un visto da studente per entrare in America. Entra nella terra delle opportunità, non si presenta nella scuola dove lo attendevano e va immediatamente a lavorare in un ristorante cinese.

 

Nel 1982, He ottiene grazie al favore di un amico il permesso per trasferirsi a lavorare a Hong Kong, che allora era ancora territorio inglese. Dopo quattro anni passati a mettere soldi da parte, raggiungendo inoltre qualche successo, nel 1986 anche He ottiene un visto e arriva in America. Trascorre qualche mese lì, e all’improvviso ha un’intuizione. Senza sapere una parola di inglese, senza conoscenze e senza aiuti, He capisce che se fosse rimasto in America avrebbe trascorso tutta la vita a lavorare 14 ore al giorno in un ristorante cinese. Così fa l’impensabile: prende le valigie e torna in Cina.

 

Qui le vite in perfetto sincrono di Wang e He subiscono uno stravolgimento che nessuno avrebbe immaginato: Wang, rimasto in America, continuerà a lavorare in un ristorante cinese per tutta la vita, riuscendo a un certo punto a comprare un piccolissimo locale. Al contrario, He, tornato in Cina, inizierà a mettere su una piccola impresa a Hong Kong, per poi concentrarsi sulla Cina, che in quel momento stava vivendo un boom straordinario, e fondare una delle fabbriche di tè più grandi del paese. Ormai milionario, di gran lunga più ricco di tutti i 15 mila compagni di scuola fuggiti dalla Cina, He oggi viaggia in America in classe business e tutte le volte che torna a visitare i suoi vecchi colleghi alla Chinatown di New York non può che notare i loro appartamenti dignitosi, ma piccoli e miserabili se paragonati agli alloggi di lusso che lui possiede in Cina.

 

La storia di Wang e He che abbiamo riportato qui sopra è stata raccontata questo mese dal South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong di proprietà del cinese Jack Ma. Fa parte di un reportage più ampio che racconta le fortune degli studenti della Tingjiang Secondary School che hanno deciso di non emigrare in America o di tornare in Cina e che oggi vivono una vita migliore dei loro ex colleghi sinoamericani, e nel modo in cui è raccontato assomiglia a una parabola o a un racconto morale. L’articolo è stato pubblicato con un tempismo perfetto, perché per tutto marzo i media cinesi, compresi quelli relativamente indipendenti come il South China Morning Post, hanno iniziato a pubblicare racconti edificanti su come sia la Cina, ormai, l’unica grande terra delle opportunità in cui tornare o rimanere per fare fortuna e vivere il sogno. Negli stessi giorni di marzo si sono tenute le Due sessioni, il grande evento legislativo che ogni anno riunisce migliaia di politici e dignitari comunisti a Pechino – e presentare la Cina come la terra delle opportunità è uno dei grandi temi di soft power prediletti dalla burocrazia comunista.

 

Le Due sessioni, vale a dire l’incontro annuale dell’Assemblea nazionale del popolo (il Parlamento cinese) e della Conferenza politica consultiva del popolo cinese, è un evento che tutte le primavere consente alla Cina comunista di dispiegare al mondo la magniloquenza coreografica della sua burocrazia. E’ una gigantesca occasione di pr e di policymaking, ma è anche il momento in cui la Cina stabilisce l’agenda di ciò di cui si dovrà parlare nell’anno a venire. Quest’anno i media di stato si sono concentrati sulla guerra alla povertà e sul successo delle politiche di natalità, sulla centralità (hexin) del presidente Xi Jinping dentro il Partito comunista alla vigilia del Congresso d’autunno, sulla difesa dell’ordine mondiale globalizzato e sulla necessità di evitare rischi finanziari sistemici. E poi si è parlato delle haigui, le tartarughe di mare.

 

Con questo termine, immaginifico come sempre avviene in Cina, si intendono le persone come He Yixin: immigrati cinesi in occidente, tendenzialmente in America, che tornano in Cina per amore patriottico o perché scoprono, più prosaicamente, che la terra delle opportunità è a oriente – come le tartarughe di mare, che nascono sole da un uovo deposto in spiaggia, ma subito iniziano ad arrancare verso l’acqua perché l’istinto le porta verso il branco d’origine.

 

Il tema delle tartarughe di mare riaffiora periodicamente sui media cinesi – e di riflesso su quelli occidentali. Ma in questa particolare congiuntura mondiale, dal punto di vista di Pechino raccontare le storie dei figli prodighi che tornano a casa non è più solo, come lo era in passato, un riconoscimento di potenza economica ma anche il simbolo di una ricostruzione nazionale finalmente compiuta. Le tartarughe di mare tornano a casa non solo perché ormai in Cina è più facile fare soldi, ma soprattutto perché il sogno cinese ha sorpassato il sogno americano.

 

“Cento fiumi infine ritornano al mare, è il momento giusto per costruire insieme un sogno”, titolava di recente in prima pagina il Quotidiano del popolo, commentando il dato secondo cui mai nella storia recente così tanti studenti cinesi hanno deciso di tornare in patria dopo la laurea come nel 2016. Degli oltre 540 mila ragazzi cinesi andati all’estero a studiare l’anno scorso, più di 430 mila ha deciso di tornare a casa. E’ un dato elevato, e un cambiamento stupefacente rispetto soltanto a 10 anni fa, quando, una volta ottenuto un visto per andarsene dal paese, due terzi dei ragazzi cinesi erano pronti a fare qualunque cosa per non tornare mai più. I giornali americani fanno notare come l’elevato numero di rientri sia legato anche a una stretta nella distribuzione dei visti americani in concomitanza con un rilassamento del sistema dei permessi di residenza in Cina, e fanno notare che la prole dell’alta burocrazia comunista, compresa la figlia del presidente Xi Jinping, continua a ricevere un’educazione occidentale, e nella fattispecie americana (la figlia di Xi frequenta Harvard).

 

Ma negli stessi giorni i media rispondevano con la storia di Yang Zhenning e di Andrew Yao. Yang, 94 anni, è uno dei tanti scienziati cinesi scappati all’inizio della rivoluzione comunista di Mao. Dopo aver ottenuto il visto in America, Yang divenne cittadino americano e vinse il premio Nobel per la Fisica nel 1957, diventando il primo cittadino di origine cinese a vincere il Nobel (gossip: nel 2004, a 82 anni, Yang fece scandalo per essersi sposato con una sua studentessa di 28 anni). Anche Yao, 70 anni, era emigrato in America per fare scienza, e nel 2000 aveva vinto il premio Turing, massimo riconoscimento mondiale per gli studi in Informatica. Questo mese, in maniera separata, entrambi i luminari hanno annunciato di essere entrati nei ranghi dell’Accademia cinese delle scienze, e di aver rinunciato alla cittadinanza americana ottenuta decenni addietro. Per i media cinesi il messaggio era chiaro: le tartarughe di mare non sono solo quelli che preferiscono il boom tecnologico di Shenzhen alle friggitorie di Chinatown a New York, ma anche i premi Nobel e i grandi scienziati. E’ il compimento del sogno cinese.

 

Il “Chinese dream” è il grande cavallo di battaglia con cui Xi Jinping ha aperto il suo mandato da segretario del Partito comunista e da presidente cinese nel 2013. Era il primo passo, per quanto audace, di un progetto di soft power di lungo periodo, che è stato accelerato in maniera drastica quando il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, ha raccolto sentimenti e impressioni che circolavano ormai da anni e ha dichiarato: “Il sogno americano è morto”. Trump è stato eletto presidente e da allora ha lavorato con solerzia per picconare il sogno americano – e in un certo senso occidentale – come lo conoscevamo, sostituendolo con la visione cupa di un paese in declino che ha perso il suo ruolo nel mondo e che deve essere ricostruito per tornare “di nuovo grande”.

 

La Cina, dapprima spiazzata, ha deciso di muoversi per riempire il vuoto che si era creato. Sappiamo di come Xi Jinping abbia candidato il suo paese a diventare l’ultimo campione del libero mercato e dell’ordine del mondo globalizzato, o come l’assertività militare e diplomatica cinese siano ormai in concorrenza diretta con la superpotenza americana.

 

L’attenzione sugli emigrati che tornano in patria mostra però che l’operazione è più sottile, e pervasiva, della costruzione di nuove portaerei o dell’assegnazione di miliardi di yuan per infrastrutture in Africa. Dall’alta tecnologia all’industria all’educazione, la retorica della vitalità brulicante che un tempo era propria dell’America oggi è applicata in riferimento alla Cina, mentre il messaggio del declino relativo americano è promosso direttamente dalla Casa Bianca. Un sondaggio effettuato il mese scorso dal Pew Research Center mostra l’aumento del pessimismo: il 46 per cento degli americani oggi crede che gli Stati Uniti abbiano un ruolo meno importante nel mondo rispetto a dieci anni fa. Al contrario, il 75 per cento dei cinesi è convinto che il posto della Cina nel mondo sia diventato più importante nello stesso periodo di tempo. Circa la stessa percentuale di cinesi, i due terzi, è convinta che Pechino presto rimpiazzerà Washington nel ruolo di principale superpotenza mondiale – se non l’ha già fatto.

 

In questo modo, il sogno cinese non fa soltanto della Cina una terra di prosperità, ma anche il luogo dove finalmente si compie una promessa di centralità nel mondo. La Cina diventa “il posto in cui essere”, perché è lì che si compirà il futuro. Per i 430 mila studenti tornati quest’anno questo è un magnete potente – mentre per il modello occidentale è un colpo duro da sopportare. Se l’occidente fatica a dimostrare che il suo stile di vita è più attraente di quello degli altri, se gli studenti e gli emigrati cinesi non sentono più il bisogno di rimanere in America e in Europa perché qui la loro vita sarà più piena di opportunità e di senso – se il sogno americano svanisce, allora dati come il numero delle portaerei e delle testate nucleari che ciascuna superpotenza possiede diventeranno un particolare che sarà macinato dai tempi lunghi della storia. L’occidente ha ancora le sue libertà, ma la loro attrattiva – e anche questo ha molto a che vedere con la congiuntura populista che ha portato Trump alla Casa Bianca – è ormai insufficiente. Wang Mengxin e He Yixin oggi vivono l’uno in un paese libero, l’America, e l’altro in un’autocrazia. Ma è difficile immaginare che Ye, tartaruga d’acqua, voglia tornare sulla spiaggia.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.