MarioDraghi e Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Banche di figli e figliastri

Stefano Cingolani

Non tutti i naufragi sono uguali. Anzi. Da Roma a Bruxelles, sui salvataggi c’è grande confusione

Evocato, invocato, sdoganato, legittimato, temuto, esorcizzato, lo stato torna in banca anche in Italia, dopo un esilio ventennale. E’ in ritardo rispetto alla Germania, alla Gran Bretagna, al Belgio o all’Irlanda, forse addirittura fuori tempo massimo, perché intanto sono cambiate le regole del gioco e stanno rapidamente cambiando le banche stesse, messe alle corde dalla lunga recessione, scosse dalla rivoluzione tecnologica che rende inutili gli sportelli, riplasmate dall’innovazione finanziaria. La mano pubblica corre in aiuto là dove il mercato ha fatto fallimento, ma arriva mentre il mercato è già corso in avanti, ancora una volta il Leviatano non riesce ad afferrare Proteo. E anche tra le banche emergono figli e figliastri.

 

Lo stato torna in banca, ma all’estero, da parte dell’Unione europea
e della Bce, trova asticelle sempre
più alte da superare

L’asimmetria è evidente in Europa (basti pensare alla “eccezione tedesca” per le banche locali o per la Deutsche Bank), ma diventa netta anche in Italia. Tra distorsioni alla concorrenza, disparità di trattamento per i risparmiatori, discrezionalità politica, il tardo-statalismo provoca contraccolpi negativi all’interno, mentre trova all’estero, da parte dell’Unione europea e della vigilanza che fa capo alla Bce, asticelle sempre più alte da superare. I salvataggi che il governo italiano ha deciso di realizzare in prima persona, con il Monte dei Paschi di Siena e con le due banche venete in attesa di fusione (la Popolare di Vicenza e Veneto Banca), appaiono solo la penultima spiaggia per evitare il crac. L’ultima s’affaccia già tra le cime delle Alpi ed è il ricorso al fondo salva-banche che porta con sé il salva-stati con tutti gli annessi e connessi di una nuova stangata fiscale e un commissariamento di fatto dell’Italia. Uno scenario da gufi? Mica tanto, più aumentano le difficoltà più si sente dire “fate anche voi come la Spagna”.

 

L’intervento pubblico è stato deliberato dal governo Gentiloni sotto forma di ricapitalizzazione precauzionale, con una disponibilità pari a 20 miliardi di euro, ma è ancora di là da divenire perché è in corso una partita multipla e confusa con la Commissione europea, con la Bce, con i vecchi azionisti, con gli obbligazionisti, con i clienti imbrogliati, con i nuovi azionisti, con le altre banche che hanno gettato già un sacco di quattrini per tentare un salvataggio per così dire in famiglia, con i fondi specializzati che pregustano bei bocconcini prendendo a prezzi stracciati i crediti deteriorati.

 

Nonostante tutto quel che si è fatto credere, la crisi del Monte dei Paschi di Siena è tutt’altro che risolta. Il negoziato con Margrethe Vestager, commissario alla Concorrenza, e con Danièle Nouy, capo della Vigilanza della Banca centrale europea, va avanti da mesi, e quando sembra arrivato a un punto fermo, cambiano le carte in tavola. Ancora non si sa quanto dovrà sborsare il Tesoro per ricapitalizzare la banca: si parte da 6,6 miliardi, ma può essere di più o di meno a seconda se il piano industriale avrà previsto altri tagli del personale o si sarà liberato dei crediti deteriorati in tempi rapidi senza svenderli.

 

Se Siena piange, il Veneto è in allarme rosso. Perdite operative, costi sono superiori agli incassi, sofferenze pari al 37 per cento, una crisi di liquidità perché si sono rarefatti i depositi con l’addio di circa un terzo dei clienti: la Banca Popolare di Vicenza e la Veneto Banca da sole non stanno in piedi. La Bce, però, chiede due piani industriali separati per vedere se ciascun istituto è solvibile: solo in tal caso, infatti, si giustifica la capitalizzazione precauzionale. E’ una sorta di Comma 22: perché lo stato aumenti il capitale, le banche debbono avete abbastanza capitale da tenersi in vita. Il fatto è che il Tesoro, secondo le regole europee, non può coprire le perdite del passato, il suo compito è fornire risorse per il futuro.

 

L’intervento pubblico
è stato deliberato
dal governo sotto forma di ricapitalizzazione precauzionale, ma
è ancora di là da venire

La Bce è talmente rigida da pretendere che la cessione delle sofferenze possa trasformarsi in capitale solo quando i quattrini entreranno materialmente in cassa. Intanto, più passa il tempo e più il rischio di fallimento diventa concreto. Mercoledì 22 marzo, poco meno di 200 mila soci dovranno decidere se accettare le proposte che dovrebbero far cadere la minaccia di azioni giudiziarie: 9 euro per ogni azione pagata 62,5 euro alla Popolare di Vicenza e 5,93 euro contro 39,5 per Veneto Banca. Le adesioni dovrebbero arrivare almeno all’80 per cento, oggi però siamo solo a quota 30. Così, il fondo Atlante ha speso 3,5 miliardi per allontanare un bail-in che invece si avvicina a passo da gigante.

 

L’intervento pubblico italiano viene visto come fumo negli occhi a Bruxelles. “E’ un precedente”, dice la Vestager, che potrebbe far saltare ovunque il bail-in misura corretta in teoria, ma che non tiene conto della natura di una industria non solo indebolita dalla lunga recessione e da una vera metamorfosi strutturale, ma talmente intrecciata che qualsiasi accidente in una banca, per piccola e periferica che sia, arriva al cuore del sistema. Come è già successo prima con i subprime e poi con la Lehman Brothers.

 

Il gioco delle autorità europee è restringere il più possibile la cornice entro la quale può avvenire il salvataggio precauzionale. Ma i malumori si sentono anche tra le banche italiane che ce l’hanno fatta, tra i piccoli istituti di credito ancora sani e tra i nuovi soggetti che si fanno strada con un modello diverso, basato sulla specializzazione e sulle tecnologie della rete. Oggi via internet non solo si paga e si trasferisce denaro, ma si fanno prestiti, si comprano e vendono azioni, si investe nelle imprese. La condizione affinché il nuovo emerga e si rafforzi è che non venga spiazzato dalla concorrenza sleale favorita dall’interventismo governativo. Prendiamo la raccolta di capitale. C’è chi si affanna a emettere bond pagando il rischio di mercato e chi li può vendere con la garanzia dello stato, quindi a rischio minimo. Non solo, c’è chi ha perduto il proprio danaro perché i titoli bancari in Borsa sono precipitati negli ultimi anni e chi minaccia il ricorso in tribunale scommettendo che Pantalone li rimborserà.

 

Si tratta di trovare un equilibrio tra due spinte diverse, sottolinea Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Autorità antitrust: “Da una parte occorre mantenere aperto un mercato concorrenziale, dall’altra assicurare la stabilità”. Si spiegano anche così le tensioni di questi mesi tra la due donne dalle quali tanto dipendono le sorti delle banche italiane. “Entrambe queste esigenze sono essenziali, per questo il diritto europeo ha costruito norme ed elementi giuridici dai quali non si può prescindere. In ultima istanza, però, il punto di equilibrio spetta alla politica”. Ciò riguarda anche gli interventi sulle crisi. Chi vuol salvare tutto e tutti ignora la necessità di tutelare non solo i risparmiatori, ma anche i contribuenti. Quel che sta accadendo in Italia e in Europa dimostra che questa tensione dialettica non è destinata a ridursi. E anche in tal caso, è il negoziato a dover dirimere quel che sfugge alla norma astratta. “Non basta l’assolutismo delle regole – aggiunge Pitruzzella – Ci vuole una decisione, tenendo a bada sia l’estremismo mercatista il quale non tiene conto che il risparmio è un valore tutelato dalla costituzione italiana, sia uno statalismo che alteri le regole del gioco”. 

 

Così, in questi tempi di antipolitica le crisi bancarie rimandano alla politica. Politico, del resto, è stato l’errore di fondo commesso fin dall’inizio. Mentre gli Stati Uniti decidevano che per superare la crisi bisognava concentrarsi sul sistema bancario nel suo insieme, con un intervento massiccio e temporaneo da parte del governo e una riforma delle banche, in Europa ogni paese ha agito per proprio conto e i più forti si sono difesi meglio degli altri.

 

Nel suo rapporto che verrà presentato martedì prossimo in un dibattito pubblico a Roma, il Centro Europa Ricerche spiega: “L’attuale impianto regolamentare dell’industria bancaria europea è viziato da diversi problemi e da evidenti asimmetrie. In particolare, se arcigna è diventata la regolamentazione sul rischio di credito, assai più blandi sono gli strumenti di controllo contro i rischi di mercato”. Insomma, i crediti non riscossi sono considerati più pericolosi dei derivati. Ecco perché la Deutsche Bank ha avuto un trattamento in guanti bianchi mentre il pugno di ferro s’è abbattuto sulle banche italiane. Non solo, l’unione bancaria stabilizza le distorsioni precedenti e ne crea di nuove: manca una rete di protezione unica sui depositi bancari, e la costituzione di un unico fondo trova l’opposizione dei paesi del nord Europa con in testa la Germania. Alla vigilanza bancaria unica sfuggono buona parte delle banche locali tedesche. Solo cinque delle otto Landesbanken sono vigilate dalla Bce, mentre delle 400 Sparkassen, le casse di risparmio, solo una ha la dimensione per far parte della vigilanza unica. Eppure il totale degli attivi delle Landesbanken e delle Sparkassen è pari al 70 per cento del prodotto lordo tedesco. “Difficile sostenere che non abbia una rilevanza sull’intero sistema”, commenta Vladimiro Giacchè, presidente del Cer.

 

Margrethe Vestager avverte che la mossa italiana potrebbe far saltare ovunque il bail-in e arrivare al cuore
del sistema

La differenza di trattamento appare evidente anche per gli aiuti di stato. La normativa è diventata più stringente a partire dal 2013, ma si è seguita la logica di quel che è fatto è fatto, anche se l’impatto degli interventi durano nel tempo. L’esempio clamoroso viene dall’ultimo salvataggio tedesco, quello della Hsh Nordbank, controllata dal Land dello Schleswig e dalla città di Amburgo (dunque una banca già pubblica). Il governo di Berlino ha ottenuto dalla Ue di usare una garanzia di 10 miliardi di euro. Nessuna violazione alla regola, dicono le autorità tedesche, perché ci hanno autorizzati nel 2013. Già, ma il via libera definitivo è arrivato solo adesso, e la Hsh ha avuto ben tre anni per presentare un piano industriale, non tre mesi come le banche venete.

 

La Germania, del resto, detiene il record di spese per salvataggi con i soldi dei contribuenti: ben 240 miliardi di euro (tra questi 123 per le banche locali), scrive il Cer anticipando un più ampio studio che presenterà a Bruxelles. Il governo tedesco detiene ancora il 15 per cento della Commerzbank, la seconda banca nazionale, nella quale il Tesoro ha versato 18 miliardi. La Spagna ha impiegato 50 miliardi, l’Irlanda 40 come la Grecia, l’Olanda ben 36 e l’Austria 30. L’Italia nulla. Ha sbagliato, dicono adesso in molti, anche gli aedi del libero mercato che prima applaudivano alla virtù italica. Fatto sta che l’intervento pubblico è diventato particolarmente arduo proprio quando ce n’è più bisogno. Il rapporto Cer, infatti, ci mostra un sistema bancario sotto pressione: dopo quattro anni di pesanti perdite fatica a liberarsi dal fardello dei crediti marci e cerca di recuperare redditività soprattutto tagliando i costi, a cominciare da quelli del personale.

 

Questo squilibrio di fondo tra l’Italia e altri paesi vigilati dalla Bce ha influito sulla lunga catena di errori commessi, a cominciare dal negoziato sul bail-in. Fabrizio Saccomanni, ministro dell’Economia nel governo di Enrico Letta e già direttore generale della Banca d’Italia, nel dicembre 2013 disse che si trattava della decisione più importante dopo il Trattato di Maastricht. Poi ha rivelato che ogni tentativo di guadagnare tempo o ammorbidire la norma è stato bocciato dalla Germania, evocando l’attacco del 2011 al debito sovrano. Tre anni dopo Saccomanni ne ha chiesto la sospensione, mentre il governatore Ignazio Visco ha proposto di applicarlo in modo flessibile.

 

La Germania detiene
il record di spese
per salvataggi con i soldi dei contribuenti:
240 miliardi, di cui 123 per le banche locali

Adesso il bail-in è di nuovo al centro del braccio di ferro con la Ue che accusa l’Italia di cercare ogni escamotage per bypassarlo. Certo, il salvataggio pubblico lo depotenzia, ma attenzione, le banche stesse si attrezzano per aggirarlo. Per esempio si stanno stipulando contratti a 30 giorni con la possibilità di sciogliere il rapporto in caso di guai prima che scatti il bail-in, offrendo così al cliente di valutare la funzionalità e l’affidabilità di chi eroga il prestito.E’ la rivincita del mercato che reagisce alle nuove regole innovando. E la finanza ne sa una più del diavolo.

 

Le sconfitte italiane a Bruxelles sono numerose. C’è la bad bank proposta da Pier Carlo Padoan e bocciata dalla solita Vestager perché la garanzia pubblica veniva considerata aiuto di stato. Il ministro ha ripiegato sulla Gacs, cioè la garanzia sulle cartolarizzazioni, che è stata utilizzata finora solo da una banca di Bari. Ci sono le regole per gli stress test che hanno suscitato una montagna di polemiche perché penalizzano il modello italiano dove prevalgono i prestiti sulle attività finanziarie. E ancora: la richiesta da parte della Bce di ricapitalizzazioni massicce e accelerate ha messo in affanno anche Unicredit. Le quattro banchette del Centro Italia sono state  “risolte” in zona Cesarini per evitare le nuove regole, ma poi sono rimaste un anno a bagnomaria. E che dire del Montepaschi in crisi da dieci anni? 

 

La stessa riforma delle popolari è caduta in un brutto periodo: la trasformazione in società per azioni ha avuto l’effetto positivo di portare alla luce gestioni opache e clientelari, ma ha provocato un nuovo choc che s’è sommato a tutti gli altri. Ultimo, ma non meno importante, il fondo Atlante, una buona idea presto snaturata. Atlante ha cambiato mestiere, anziché alleggerire le banche dai crediti deteriorati, è diventato azionista unico delle due banche venete.

 

C’erano altri modi per consolidare il sistema? “Perché non intervenire sui crediti invece che direttamente sul capitale?”, si chiede Francesco Maiolini, direttore generale della Igea Banca che ospita la presentazione del rapporto Cer. “Esiste un fondo garantito dallo stato presso il Mediocredito Centrale che tutela le piccole e medie imprese. Si poteva aumentarlo e, grazie all’effetto leva, forse potevano bastare meno di 20 miliardi. Ci sarebbe stata una ricaduta positiva sui patrimoni perché le banche avrebbero avuto meno assorbimento di capitale, non può essere considerato una violazione delle regole sugli aiuti di stato e non avrebbe creato squilibri competitivi perché aperto a tutti”. Ma il governo affronta le crisi del passato senza una strategia per ridurre le enormi difficoltà del tessuto produttivo  che sono all’origine delle sofferenze bancarie e non ha strumenti per accompagnare la ristrutturazione del sistema creditizio. Il fatto è che per guardare oltre la siepe quotidiana ci vorrebbe un esecutivo che duri e abbia consenso. E così la politica torna al primo posto.