Una manifestazione contro Israele negli anni scorsi in piazza a Torino (foto LaPresse)

Se questa è Torino

Giulio Meotti

Nella città di Primo Levi, universitari e intellettuali si fanno “carnefici” di Israele. Benvenuti nella capitale del boicottaggio dello stato ebraico

Quando, un anno fa, 350 docenti, ricercatori e assegnisti delle università italiane lanciarono un appello per il boicottaggio di Israele, in particolare dell’Università Technion di Haifa, ben 61 di loro provenivano dall’Università di Torino. Un anno prima, erano stati gli antropologi a produrre un manifesto simile per ostracizzare i colleghi israeliani. E anche in quel caso, molte firme arrivarono dall’Università di Torino. Città “impegnata”, città antifascista, ma che spicca oggi in Italia per molte campagne contro lo stato ebraico, dal suo corpo studentesco, da molti suoi docenti, da tanti suoi intellettuali. Torino sembra diventata la capitale italiana del boicottaggio di Israele.

 

Nei giorni scorsi, l’Università di Torino è stata la prima (e finora unica) in Italia a votare ufficialmente una mozione di boicottaggio di Israele, sostenuta a maggioranza (sedici favorevoli e cinque contrari) dal Consiglio degli studenti. Chiedono che

Ugo Volli:
“Gli intellettuali
qui seguono il motto ‘mai nemici a sinistra’, che li porta
a essere complici
degli estremismi,
come con le Br”

il rettore, Gianmaria Ajani, “receda agli accordi attualmente in vigore con il Technion” entro aprile. Nell’ottobre del 2015, quando Politecnico, Università di Torino e il Technion di Haifa tennero il loro primo incontro di interscambio al Campus di Agraria di Grugliasco, le contestazioni furono dure e a colpi di slogan osceni: “Ladri di terra, criminali di guerra” fu la scritta sullo striscione sfoderato da un gruppo di studenti che riuscì a interrompere l’incontro. Adesso la mozione di boicottaggio dovrà essere votata dal Senato accademico e dal consiglio d’amministrazione, ed è la prima a essere approvata da un organo istituzionale di un ateneo italiano. Nel testo si sostiene che “lo stato di Israele abbia deliberatamente colpito obiettivi civili e si sia reso responsabile di crimini di guerra durante l’attacco condotto nell’estate 2014 contro Gaza”. E gli studenti sposano la campagna di Bds, cioè boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele e le sue istituzioni. Nelle stesse ore, l’Associazione nazionale partigiani della Valle Elvo annunciava la proiezione del documentario “Israele, il cancro” di Samantha Comizzoli. L’Unione delle comunità ebraiche italiane con la presidente Noemi Di Segni ha scritto al Presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia per chiedere che l’associazione degli ex partigiani impedisca a una propria sezione di patrocinare la proiezione “di un film di una nota attivista antisionista e antisemita”. Torino eil Piemonte fermentano di episodi simili.

 

Un mese fa, in occasione della Giornata della memoria, il campus universitario Luigi Einaudi di Torino aveva tenuto un seminario dal titolo: “Ricordare Auschwitz per ricordare la Palestina”. “All’Università di Torino ci sono docenti, come Gianni Vattimo, che tuonano con una politica antisraeliana, e ci sono gli autonomi forti fra gli studenti, entrambi hanno capito che una mobilitazione antisraeliana possa essere fonte di affermazione”, racconta al Foglio Ugo Volli, semiologo di fama che insegna all’Università di Torino, dove spicca come una voce fieramente filoisraeliana. Quel Gianni Vattimo che ha paragonato Israele al nazismo e che ha chiesto di armare i gruppi palestinesi. “Ci sono vecchi rapporti fra i No Tav e le organizzazioni filopalestinesi più estreme”, dice Volli. “Ci sono docenti, come Angelo D’Orsi, e una base tradizionale di sinistra, forte fra gli scienziati politici e gli antropologi, e che hanno fatto una serie di iniziative contro Israele. Non esiste una base di consenso nel corpo docente, anche se è tradizionalmente di sinistra. Ci sono i ciellini, che sono minoranza, gli autonomi, e gli studenti indipendenti ex Pd. È del tutto improbabile che il Senato accademico adotti la mozione di boicottaggio. Questi professori e studenti hanno trovato nell’antisraelismo una base propagandistica che considerano conveniente. A Torino c’è questa tradizione per cui l’intellettualità adotta il motto di ‘non avere mai nemici a sinistra’, essere sempre complici e tolleranti verso le manifestazioni dell’estrema sinistra. Succedeva anche con le Brigate Rosse: a Torino ci fu uno scarso rifiuto da parte del mondo intellettuale della violenza terroristica. L’Università di Torino ha avuto più docenti che si sono rifiutati di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo, cinque su quattrordici, è una cultura costruita attorno al mito della grande fabbrica, dell’impegno e dell’intellettualità. Negli anni delle Brigate Rosse ero a Milano: l’uccisione di Carlo Casalegno generò poco sdegno a Torino. Questa cosa in altri posti fu rapidamente superata alla fine degli anni Settanta. Oggi si ha l’impressione che lottare contro il capitalismo all’Università di Torino vada ancora bene. Quando ci fu il G7 a Torino e ci furono scontri, il rettore chiuse l’università per due giorni, il mio dipartimento 50 a 1 votò contro la chiusura ‘repressiva’ del rettore. Quell’uno ero io. Il fatto che ci sia un appoggio per i No Tav violenti, nella stampa e nell’università, che persino un meteorologo come Mercalli ne parli, che Erri De Luca venga ad appoggiarli, questa ideologia si rovescia su Israele come simbolo ai loro occhi dell’imperialismo capitalista. Questa cosa è pura ideologia di facciata, con scarso riferimento alla realtà. Io non ho mai avvertito un pericolo personale, una discriminazione, eppure questa bandiera porta loro titoli di giornali. È un gioco di rappresentazioni, non credono di bloccare la ricerca israeliana”.

 

Ma è un gioco che dovrebbe preoccupare le autorità in città. Due settimane fa, l’ateneo torinese aveva fatto notizia per un altro caso simile. “Rinuncio a fare ricerca per boicottare l’università di Tel Aviv e Israele”. Questa la decisione di una giovane ricercatrice, Ilaria Bertazzi, che dopo il dottorato ha rifiutato la proposta di continuare a studiare le energie rinnovabili perché il

Scarpe contro il pupazzo di Peres, proteste
contro i ballerini israeliani, seminari
su “ricordare Auschwitz per ricordare
la Palestina”

progetto prevedeva la collaborazione con atenei israeliani. “Mi è stato proposto un contratto di collaborazione all’interno di un progetto finanziato dal fondo europeo Horizon 2020”, ha spiegato dalla pagina del Collettivo universitario autonomo di Torino. Qualche anno fa, in una intervista al quotidiano israeliano Maariv, uno studente israeliano, Amit Peer, disse che a Torino alcuni studenti universitari di origine ebraica preferivano celare la propria vera identità per timore di sfottò o contestazioni violente. “A me personalmente non è accaduto mai nulla di serio – affermò Peer – ma conosco parecchi studenti di nazionalità italiana che preferiscono o celare l’identità, o far credere che il cognome non sia ebreo, ma provenga da etnie simili”. Quando Amos Oz, scrittore e pacifista israeliano, andò a parlare al Teatro Regio, attivisti di “Free Palestine” lo contestarono come intellettuale “organico alla politica militare di Tel Aviv contro i palestinesi”. I movimenti di Oz a Torino furono seguiti da una schiera di agenti di polizia che impedirono che si verificassero incidenti. In città spesso si verificano episodi di aperto antisemitismo.

 

Come quando al “Festival della cultura alternativa”, promosso da centri sociali e autonomi al Parco Ruffini, per un euro si potevano tirare scarpe contro la sagoma del compianto presidente israeliano Shimon Peres, che teneva in mano una Stella di David. Proteste hanno cercato di fermare l’esibizione della compagnia israeliana di danza Batsheva nell’ambito del festival Mito Settembre musica. Davanti al Teatro Regio, in piazza Castello, una “contromanifestazione” venne organizzata da artisti e militanti del boicottaggio antisraeliano. Dissero che la Batsheva Dance Company “è finanziata dal governo di Israele e quindi svolge un ruolo di ambasciatrice culturale dell’occupazione e dell’apartheid”. A maggio la protesta antisraeliana ha preso di mira il Torino Gay & Lesbian Film Festival. Attivisti dei comitati pro Palestina hanno manifestato davanti al cinema Massimo, che ospitava la kermesse. Protestavano contro la presenza, nel concorso cinematografico, di diverse pellicole di Israele.

 

Nel luglio 2014 Piero Pelù, nell’ambito del Traffic Free Festival, fece una dedica per la “Palestina libera!”, mentre sul palco di piazza San Carlo veniva accolto un rappresentante dei comitati per il boicottaggio di Israele. Un anno fa, nell’aula magna del rettorato dell’Università di Torino, si tenne il seminario organizzato dal dipartimento di Lingue e letterature straniere moderne, in cui si parlò della questione israelo-palestinese. Protagonisti i docenti Michelguglielmo Torri e Diana Carminati. Fabrizio Ricca, capogruppo della Lega Nord al consiglio comunale, parlò dell’Università di Torino come “carnefice di Israele”. Carminati, autrice di “Boicottare Israele”, è stata tra i docenti in prima linea per boicottare i rapporti delle università torinese con gli istituti israeliani.

 

Odifreddi e D’Orsi
che chiedono
una “Norimberga
per Israele”, l’attacco alla “docente sionista”,
il caso del Museo
della Resistenza

Nel marzo 2015, Carminati aveva tenuto già un incontro al campus universitario Einaudi dal titolo “Il progetto del sionismo per un colonialismo d’insediamento in Palestina”. Uno degli intellettuali e docenti torinesi protagonisti di queste battaglie, il celebre storico azionista Angelo D’Orsi, ha lanciato un appello a favore di “una Norimberga per Israele”, dopo quella che definì “l’infame aggressione a Gaza” (evidente il paragone fra lo stato ebraico e il nazismo). Anche Diego Fusaro, giovane docente torinese, parla di Israele come di uno stato che commette un “genocidio” contro i palestinesi. E un altro intellettuale torinese, il matematico Piergiorgio Odifreddi, in alcuni post su Repubblica ha scritto, fra l’altro: “Si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine”.

 

Questo livore antisraeliano non è nuovo fra gli intellettuali torinesi. Ne fece sfoggio Natalia Ginzburg, autrice di numerosi articoli sulla Stampa contro lo stato ebraico fra il 1972 e il 1982, in quel fatale lasso di tempo fra la guerra del Kippur e la guerra del Libano. Un altro grande intellettuale, un torinese d’adozione come Italo Calvino, in una lettera datata “Torino, 1968” e mai dibattuta in Italia, rispondeva così a un giornalista giordano, Naouri Amman, in cerca di un editore italiano per gli scritti dei terroristi palestinesi in carcere: “In noi europei il trauma della persecuzione dei palestinesi ha una speciale risonanza, perché i loro attuali persecutori hanno sofferto le persecuzioni sotto il nazismo”. Siamo a un anno dalla Guerra dei sei giorni, e Calvino accusa gli ebrei israeliani di essere i nuovi nazisti: “Che le vittime del passato siano diventate gli oppressori di oggi è un fatto angosciante. Mi dispiace che nessuno di questi poeti ne parli”.

 

Ci sono docenti torinesi, come Daniela Santus, che hanno subito non poche contestazioni per le loro idee anticonformiste su Israele. La bacheca dell’Università di Torino è stata decorata da proteste contro la “Santus sionista”. Quando invitò a parlare Elazar Cohen, vice-ambasciatore israeliano a Roma, la lezione poté regolarmente svolgersi soltanto grazie agli agenti di polizia. Fuori dallo studio di Daniela Santus sono comparse scritte “Palestina libera” e i muri di tre palazzi universitari sono stati ricoperti da collage di sue foto fuse con quella di Netanyahu.

 

Tre anni fa, una mostra ambiziosa del Museo della Resistenza in corso Valdocco, ha mostrato un video a flusso continuo con le principali capitali occidentali, da Parigi a Londra, e sullo sfondo “il muro” d’Israele. L’Arco di Trionfo messo in ombra dal fence israeliano in cemento. Nella mostra si parlava anche di Sabra e Shatila, la strage del 20 settembre 1982, in Libano, in cui furono uccisi centinaia di palestinesi per mano dei falangisti libanesi. Nella didascalia della mostra di Torino si leggeva che “diverse centinaia di rifugiati palestinesi furono massacrati nei distretti di Sabra e Shatila dalle forze armate israeliane tra il 16 e il 18 settembre”. Mistificazione storica. Come Israele scompare e Gerusalemme diventa “città della Palestina” al Museo d’arte orientale di Torino, dove un anno fa un convegno, con la benedizione di comune e regione, glissava sull’esistenza di Israele, mentre il Santo Sepolcro e il Monte degli Ulivi venivano descritti “in Palestina”.

 

Certi episodi succedono soltanto a Torino. Come quando, nel gennaio 2014, l’organizzazione antisionista Collettivo Boicotta Israele distribuì volantini antisemiti davanti al conservatorio dove si svolgeva un concerto organizzato dalla Comunità Ebraica di Torino per la Giornata della Memoria. Era la vignetta antisemita del marocchino Abdellah Derakaoui vincitrice del concorso dedicato alla Shoah indetto nel febbraio del 2006 dal regime iraniano, in cui si vede Auschwitz dipinto nella barriera antiterrorismo di Israele. Senza dimenticare quando nel 2008 Torino fece una figura penosa durante la Fiera del Libro, ospite d’onore Israele, e la città proliferava di eventi contro lo stato ebraico.

 

Luca Ricolfi: “Domina
la retorica
dei palestinesi come
‘gli ultimi’, mentre
gli israeliani sono un popolo senza cuore”

Paradossale, infine, che Torino abbia una delle comunità ebraiche in Italia più critiche di Israele. Un fenomeno messo in luce da Emanuel Segre Amar, a lungo vicepresidente della comunità ebraica torinese e fondatore del Gruppo sionistico piemontese: “Oggi, come ben noto, ci sono tre fonti di antisemitismo: a quello tradizionale della chiesa e della destra (il primo solo parzialmente superato, il secondo presente, o almeno dichiarato apertamente soprattutto da persone di bassa cultura), si assommano quello portato dal mondo musulmano, dove è tradizionale (basta leggere i libri di Georges Bensoussan o ascoltare l’imam Chalghoumi), e quello della sinistra, oggi pericolosamente prona verso gli immigrati e la ‘cultura’ dei loro paesi”, dice Segre Amar al Foglio. “Torino, città che perse le proprie caratteristiche antiche (nobiltà e mondo contadino avevano insieme plasmato una regione tranquilla) nel momento della grande immigrazione operaia portata dalla Fiat, si è completamente trasformata e la sinistra ha soppiantato quella maggioranza liberale del dopoguerra. Come nel periodo fascista si doveva essere fedeli al Partito, così vale oggi, e, se non si segue questa regola aurea, si rimane fuori da tutto, cariche, cattedre e onori. Quale è la percentuale degli uomini pronti a combattere per i propri convincimenti sapendo di correre tale rischio? La stessa Comunità ebraica vuole aggrapparsi al mondo della sinistra nonostante tutte le realtà che dovrebbero farle capire i pericoli insiti in tale atteggiamento; oggi come sotto il fascismo vale, in fondo, la stessa logica. E gli ebrei a Torino ragionano come i loro concittadini”.

 

“Qui è un misto di ‘follemente corretto’ tipico delle università, come a Oxford dove volevano abbattere la statua di Cecil Rhodes, di antisemitismo, ovvero una componente innata di ostilità verso gli ebrei, e di retorica dei palestinesi come ‘gli ultimi’, per cui i palestinesi sono il popolo oppresso dalla parte della ragione e gli israeliani sono un popolo spietato semnza cuore”, dice al Foglio Luca Ricolfi, anche lui docente a Torino e intellettuale di primo piano in città. Ricolfi si è occupato di terrorismo palestinese quando ha scritto per le edizioni di Oxford il capitolo di un libro su Israele e il terrorismo palestinese. “Fu allora che compresi dove stava la ragione e il torto”. Ricolfi ha una spiegazione culturale sul perché di tanto odio per Israele. “Israele è l’unica società occidentale in cui il collettivo conta più dell’individuo, il modello opposto è la Scandinavia. In Israele, il noi prevale sull’io. Oscuramente, per ignoranza e per malafede, in occidente si sentono gli israeliani come estranei, diversi, per cui non saranno mai come noi europei”.

 

È forse allora da un giudizio prepolitico, morale, esoterico quasi, che nasce l’odio per Israele, che l’oscuro, irrazionale, primitivo appello alla sopraffazione degli ebrei prevale ancora una volta, contro ogni logica, contro ogni progresso. Così a Torino, città pacifista e antifascista, l’alba della pace per gli ebrei israeliani deve rimanere ben al di sotto dell’orizzonte.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.