Tavik Frantisek Simon, “Ritratto della famiglia dell’artista allo specchio”, 1910

Papà arriva dopo

Roberto Volpi

L’umanità ha impiegato millenni per scoprire la paternità. E’ stata una rivoluzione con qualche egoismo, ma poi con vantaggi per tutti

Chissà perché pensiamo che la figura del padre sia apparsa nella storia dell’umanità e nella mente degli uomini contemporaneamente a quella della madre. Eppure basta rifletterci sopra un poco per capire che non può essere andata così. La nascita, per come si mostra e ci appare, è tutta e solo questione femminile, di donna, e nient’affatto maschile. Il maschio non si rivela nella nascita del “cucciolo d’uomo”, cosicché il suo ruolo in essa è nascosto, oscurato peggio di quel che sta sotto una striscia nera di omissis in un documento top secret. Anche se ovviamente a noi non sembra affatto così. A tal punto oscurato che l’inconsapevolezza e non la consapevolezza del ruolo fecondatore del maschio ha caratterizzato quasi tutta la storia dell’umanità, fino a un passato che, misurato sui tempi dello stesso sapiens (le cui origini si fanno risalire ad almeno 100 mila anni fa), si può a tutti gli effetti definire come assai recente. Soltanto, alla più lunga, nel V millennio a. C., se non addirittura agli inizi del IV millennio, gli uomini hanno scoperto la relazione causale che sussiste tra l’atto sessuale e la procreazione. Prima di allora questo legame era sconosciuto e su come nascessero i bambini erano leggende e miti a formare il senso e la coscienza comuni. Del resto, questa stessa inconsapevolezza si è protratta fino agli inizi del XX secolo in molti gruppi umani ristretti dell’Australia, della Nuova Caledonia, della Colombia e di altre aree geografiche ancora.

 

Le dee sono vergini,
non giacciono
con alcuno, procreano, sono madri per qualche intervento non umano ma di divinità

La scoperta della paternità avviene, dunque, soltanto in pieno neolitico, poco prima di passare dalla preistoria alla storia, ovvero a società che lasciano di sé non soltanto reperti e testimonianze archeologiche ma anche di scrittura. Ed è proprio la scrittura, le prime forme di scrittura, a darci testimonianza del fatto che perfino in tempi più recenti, perfino nel III millennio a. C. il concetto di paternità non aveva ancora conquistato indistintamente neppure le società più evolute allora esistenti. Certe iscrizioni rivelano questa ignoranza, le dee sono vergini, non giacciono con alcuno, ma procreano, sono madri per qualche intervento nient’affatto umano ma di divinità, magico, esoterico. Del resto, l’unico simbolo della fecondità neolitica è la Grande Dea Madre. Il padre non esiste neppure nelle rappresentazioni. Statuette della fecondità sono tutte femminili, grandi pance incinte, la vagina più o meno bene evidenziata, ma niente di maschile entra mai in questo orizzonte della prosecuzione della specie ch’è esclusivamente di madre in figlio, e ancor più puntualmente di femmina in femmina. Quando, infine, appare anche il maschio, e il maschio è armato di tanto pene, quando comincia la vera e propria iconografia del pene, ecco è allora che l’idea della paternità s’è finalmente aperta la strada, ha conquistato la cultura del tempo.

 

Testimonianze mitologiche, quindi storiche, infine linguistiche convergono nella datazione della presa di coscienza della paternità attorno alla conclusione del V millennio tanto in Egitto (attraverso la “coppia”, la prima coppia dell’umanità riconosciuta come tale, di Iside e Osiride) che in alcune popolazioni indo-europee dove Urano, il cielo, divinità maschile, ha una compagna in Gea, la terra, divinità femminile. Le iscrizioni perdono ambiguità, e anzi sembrano volere apposta rivendicare la paternità da poco riconosciuta: “Sono giunto seguendo mio padre, sono giunto seguendo Osiride”.

 

Ma com’è che si arriva alla scoperta della paternità così tardi nella storia dell’umanità? L’uomo scopre con facilità le cose che può osservare direttamente, che cadono sotto la percezione dei suoi sensi, e la riproduzione non è tra queste. Non almeno fin quando i primi gruppi umani non diventano stanziali e praticano le prime forme di agricoltura e allevamento. Sono le femmine a fare figli, e la stessa cosa accade tra gli animali domesticati, ovini innanzi tutto, sono sempre loro a procreare, a dare la vita. Deve essere sembrato del tutto ovvio, naturale, dunque, nutrirsi degli animali di sesso maschile, che non figliano, risparmiando quelli del sesso opposto che assicurano, con le nascite, altri animali delle stesse specie. Ed è così che un fenomeno oscuro perché nascosto comincia a diventare, pur rimanendo tale, evidente, comprensibile, indiscutibile: è l’osservazione diretta e continuata che solo la stanzialità consente a mostrare come le nascite animali diminuiscano anche se si uccidono, per mangiarli e farne pelli, i soli animali di sesso maschile. Dunque le femmine non provvedono da sole alla riproduzione, ci vogliono anche i maschi; non ci sono solo le madri, ci sono – debbono esserci – anche i padri.

 

La presa di coscienza attorno al V millennio,
in Egitto (con la prima coppia, Iside e Osiride) e in alcune popolazioni indo-europee

È una rivoluzione dalle conseguenze incalcolabili, con la quale non cesseremo mai di fare i conti. E non si tratta tanto del passaggio da una discendenza matrilineare a una patrilineare, o da forme di matriarcato al patriarcato, giacché, com’è stato fatto notare a più riprese dagli antropologi meno legati alle etichette, e diversamente da quel che invece pensano i fautori del matriarcato, il riconoscimento del solo ruolo femminile nella riproduzione e della discendenza matrilineare non prova di per sé che il potere nei gruppi e nelle società umane fosse allora in mano alle donne. La femmina “provvedeva” ai figli ma il maschio, anche quando disconosciuto nella riproduzione, provvedeva pur sempre alla caccia, al lavoro e almeno al cibo più proteico. Le due funzioni si equivalevano, anche in quanto senza la seconda alla prima non si arrivava neppure. Insomma, come suol dirsi, il punto non è nel potere, o meglio nel supposto passaggio di potere dalle femmine ai maschi.

 

Entrano nuove e rivoluzionarie configurazioni sociali, o cambia del tutto il senso di quelle vecchie – questo, piuttosto, succede. Coppia eterosessuale monogamica e famiglia; rapporti sessuali e figli: eccolo, il centro delle trasformazioni. Nell’ignoranza della paternità, del ruolo del maschio nel mettere al mondo i figli, non esistevano, né potevano esistere, coppie monogamiche e meno ancora, dunque, le famiglie. La coppia monogamica quale la conosciamo è invenzione tutta culturale, anche se non è così azzardato sostenere che nel profondo dei rapporti naturali quello monogamico tra uomo e donna fosse per così dire pre-supposto, perennemente in fieri ad aspettare di essere tratto dall’oscurità e di affermarsi. Tesi, quest’ultima, alla quale si può sempre controbattere che però, anche dopo la scoperta della paternità, non si passa di colpo da un sistema che aveva attraversato i millenni alla formazione di coppie eterosessuali monogamiche che fanno figli da tutti riconosciuti come figli loro. Sarebbe stato del resto difficile, vista l’abituale promiscuità, che i padri riuscissero a individuare, tra tutti quelli generati, i propri figli e che dalla molteplicità dei partner si passasse dall’oggi al domani all’unicità degli stessi. C’è perfino chi assicura che la famiglia nucleare non sia mai esistita nelle società neolitiche. E tuttavia il dato di fatto innegabile è dato dalla curvatura che la scoperta della paternità imprime alle società di allora in direzione delle coppie monogamiche, dei figli riconosciuti e allevati come propri, dei nuclei famigliari.

 

È dunque l’intero mondo dell’uomo che cambia, la sua vita, il suo orizzonte, i suoi riferimenti ideali e culturali, e niente è più lo stesso, a partire dalla quotidianità. E si prenda perfino, per passare da un estremo all’altro, il culto dei morti. Il culto dei morti è nient’altro che il culto degli antenati, ma non può imporsi un vero e proprio culto degli antenati in mancanza della figura paterna, in mancanza degli stessi antenati.

 

Nell’ignoranza del ruolo del maschio nel mettere al mondo i figli
non potevano esistere coppie monogamiche
né famiglie

Cambiano non meno profondamente i gruppi e le società umane nella loro organizzazione e articolazione, così come nei principi costituenti, dopo che la scoperta della paternità ridisegna dalla radice i rapporti tra i due sessi e sempre più impone legami individuali uomo-donna al posto di quelli comunitari femmine-maschi. A mano a mano che il riconoscimento della paternità avanza e si formano coppie eterosessuali monogamiche cominciano inesorabilmente a sfaldarsi la concezione e la pratica comunitarie dei gruppi umani. La coppia, in quanto fa figli suoi che non si possono più confondere e mischiare coi figli delle altre coppie, educa i figli essa stessa, in autonomia, prima ancora che intervengano altre istanze educative che, per essere della comunità, mantengono vivo il senso della comune appartenenza. La famiglia s’innalza sulle ceneri dell’offerta sessuale libera (e non vincolata se non dal tabù dell’incesto – che però riguarda solo i figli di una stessa madre, non quelli di uno stesso padre, in quanto sconosciuto) da parte delle donne nelle società matrilineari che ignorano la figura del padre. Fino a forme di matrimonio inteso come riconoscimento del legame di coppia non solo di fronte ai contraenti ma alla società, che lo istituzionalizza.

I destini individuali, fino al quel momento straordinariamente interconnessi gli uni agli altri cominciano a separarsi e a entrare in conflitto tra di loro. Lo spirito comunitario si indebolisce, suddividendosi in tanti momenti particolari e soggettivi che debbono essere raccordati, per non deflagrare nel caos, da figure e istituzioni religiose e politiche. Questa trasformazione è conseguente all’affermazione della stanzialità dei gruppi umani che, grazie all’agricoltura e all’allevamento, porta infine a quell’incremento della popolazione che segna, e in certo senso impone, la nascita delle città e degli stati. La mancanza della figura del padre è tipica infatti di una lunghissima fase della civiltà umana fatta di piccoli gruppi separati gli uni dagli altri, con scarsi e sporadici collegamenti tra di loro, che si muovono in grandi spazi pochissimo abitati, conducono una vita seminomade vivendo principalmente di caccia e di raccolta, praticano l’endogamia. Gruppi che non pensano di farsi la guerra dal momento che non hanno bisogno di farsela, essendoci posto per tutti e non avendo del resto le capacità tecniche per sfruttare quei territori più ampi che potrebbero derivare dalla conquista a danno di altri gruppi.

 

Messe così le cose sembra che la scoperta della paternità non abbia fatto che provocare disastri, spingendoci verso il peggio. E’ indiscutibilmente vero: questa scoperta, con la formazione di coppie monogamiche e il riconoscimento dei figli delle coppie come figli loro propri e non del gruppo, segna uno spartiacque tra società intimamente comunitarie e solidali e società più individualistiche ed egoistiche. Tutto sta a capire se quel passaggio non abbia giovato all’umanità, piuttosto che danneggiarla.

 

Il riconoscimento
dei figli come propri segna uno spartiacque tra società intimamente comunitarie e altre
più individualistiche

Fin quando la parentela è sociale, e non c’è modo per un individuo di riconoscere i propri tra gli altri bambini, la proprietà e la coltivazione della terra sono collettive. Ma il passaggio, con la stanzialità, da una economia di predazione basata sulla caccia a una economia di produzione fondata sull’agricoltura, e dunque sulla coltivazione della terra, non poteva essere sostenuto efficacemente da un qualche collettivismo ante litteram. La cosiddetta parentela descrittiva, che con la scoperta della paternità consente a ciascuno di distinguere i propri eredi nella massa dei bambini, sollecita sentimenti nuovi di continuità di sé stessi oltre il tempo della propria vita, di protezione della prole, di difesa dei nuclei famigliari che, se per un verso allontana gli uomini da più profondi legami solidaristici tra di loro, per l’altro li spinge ad andare oltre l’immediatezza del quotidiano, a non accontentarsi, a confrontarsi e a competere tra di loro. Ed è così che non tutto l’egoismo viene per nuocere. E si guardi pure, per comprendere al meglio le cose, alle due questioni strettamente connesse tra di loro del popolamento della terra e della durata della vita umana.

 

Ci sono tanti begli spiriti che non si peritano di inventare inesistenti età dell’oro neolitiche, se non addirittura paleolitiche, quando gli uomini erano pochi, non avevano da combattersi tra di loro, possedevano tutto quello che necessitava loro per vivere con semplicità ma felicemente. Peccato che ogni valutazione che si è potuta fare sul campo smentisca alla radice queste sciocchezze. La terra era pressoché disabitata, e lo è stata per decine e decine di migliaia di anni, non per qualche decennio o secolo, perché gli uomini, specialmente bambini, morivano a grappoli: fino a non più di diecimila anni fa solo un abitante della terra su tre viveva oltre i 30 anni e quasi sempre moriva entro i 40, senz’altro entro i 50; e questo mentre un bambino su due moriva entro i primi 5-6 anni di vita. L’aumento della popolazione è legato, più che all’aumento del numero dei figli per donna, alla riduzione della mortalità che comincia a manifestarsi con il passaggio dell’uomo da una vita seminomade a una stanziale e dal connesso passaggio da una economia di predazione a una di produzione. La scoperta della paternità non è la causa bensì la conseguenza di questi passaggi, ma li sostiene e li integra con una nuova mentalità e nuovi valori che si adattano perfettamente alle necessità della stanzialità, della produzione, della crescita economica e culturale. Senza l’innesto di dosi di egoismo individuale e familistico non si sarebbe arrivati alle città e agli stati. Siamo oltre 7 miliardi, oggi, e viviamo in media 70 anni. E’ anche questo un indice, in fondo, del successo della scoperta della paternità.

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