Il presidente americano Harry Truman con il generale George C. Marshall, segretario di stato dal 21 gennaio 1947. Si dimetterà dalla carica, per ragioni di salute, poco meno di due anni più tardi

E fu lite su Israele

Antonio Donno

1948, guerra fredda a Washington: il segretario di stato Marshall era contrario a riconoscere la nazione ebraica, ma vinse Truman

Il 21 gennaio 1947 George C. Marshall divenne segretario di stato americano per volere del presidente Harry Truman. Il generale Marshall, da tutti considerato un eroe nazionale per aver comandato le armate americane durante il Secondo conflitto mondiale, fu chiamato a ricoprire una carica politica diversa dalle mansioni militari che fino a quel momento aveva svolto. Questa nomina, di primo acchito, lasciò perplessi i funzionari del dipartimento di stato, avvezzi ad avere al vertice un uomo politico. Ma Marshall portava con sé l’apprezzamento incondizionato di Roosevelt e questo era il dato politico che metteva a tacere qualsiasi discussione, dato che gli uomini del livello più alto del dipartimento di stato avevano servito durante le presidenze di Roosevelt. La vera questione era che questi uomini non avevano lo stesso concetto per il nuovo presidente, considerato un personaggio di secondo o terzo livello sul quale si spendeva una certa ironia. Truman lo sapeva bene e le sue memorie riferiscono della sua irritazione nei confronti dei subalterni, eredi della grandezza rooseveltiana e per questo dotati di una certa presunzione.

 
La questione del medio oriente e soprattutto del progetto sionista di dar vita a uno stato ebraico in Palestina fu il caso più clamoroso di contrasto tra il dipartimento di stato e il presidente, contrasto che vide in prima linea George Marshall, che non aveva fatto mai mistero della sua contrarietà verso la politica sionista. Questa contrarietà si evidenziò non solo dopo la sua nomina a segretario di stato, ma fu una posizione che Marshall condivise con Roosevelt negli ultimi anni di vita del presidente. Roosevelt fu sempre contrario a una eventuale spartizione della Palestina e alla nascita di uno stato ebraico in quella regione. Marshall era di quest’avviso. Ripercorrere le fasi del suo pensiero su questo problema è importante per comprendere lo sviluppo della politica americana al proposito e il ritardo con cui Washington si espresse a favore della nascita di Israele a tutto vantaggio, momentaneo, dell’Unione sovietica.


Il momento culminante del contrasto, il climax di mesi di contrapposizioni tra Truman e il suo consigliere speciale Clark Clifford, da una parte, e il dipartimento di stato, e Marshall in particolare, dall’altra, si verificò in un meeting del 12 maggio 1948, due giorni prima della dichiarazione d’indipendenza dello Stato di Israele. Si trattava di riconoscere il nuovo stato, atto finale della lunga marcia del movimento sionista verso la sua meta storica. In quella circostanza i nodi vennero al pettine. Clifford espose le ragioni, condivise da Truman, per le quali occorreva che Washington riconoscesse il nuovo stato ebraico; Robert Lovett, il sottosegretario di stato, quelle contrarie. A questo punto, Marshall obiettò che Clifford non dovesse far parte di quella riunione. Al che Truman rispose seccamente: “Generale, Clifford è qui perché gli ho chiesto io di essere qui”. Marshall divenne paonazzo ma non osò obiettare. Questo episodio non è riportato – per ovvie ragioni – nel memorandum ufficiale dell’incontro, ma Clifford lo riporta nelle sue memorie ed è ormai inserito in tutte le ricostruzioni dell’incontro del 12 maggio. Washington, poi, riconobbe, ma solo “de facto” lo Stato di Israele, preceduta da Mosca, che lo riconobbe, invece, “de jure”. Differenza sostanziale, che stava a indicare l’interesse dell’Unione sovietica a ottenere l’appoggio israeliano in funzione anti-americana nel contesto mediorientale.

 
Ma, come si è detto all’inizio, l’opposizione del dipartimento di stato alla nascita di uno stato ebraico in Palestina risaliva ai tempi di Roosevelt. Roosevelt riteneva che gli Stati Uniti non dovessero occuparsi della questione della Palestina, reputando che dovesse essere demandata ancora alla politica di Londra dopo la fine della guerra. E’ ben strano, tuttavia, che il presidente americano non avesse valutato per tempo le condizioni insopportabili, dal punto di vista economico, di fronte alle quali si sarebbe trovata Londra una volta terminato il conflitto. Eppure, lo stesso Churchill aveva messo in guardia Roosevelt sul problema della possibile ingerenza sovietica nella regione mediorientale: “Non dobbiamo essere troppo sicuri che la perdita dell’Egitto e del medio oriente non avrebbe gravi conseguenze”, ma, nello stesso tempo, dichiarava di essere fortemente impegnato a difendere la causa sionista. L’atteggiamento ondivago di Churchill aveva una realizzazione pratica molto semplice in Roosevelt. Per tutti gli anni delle sue amministrazioni aveva più volte ricevuto delegazioni sioniste e arabe, alle quali aveva sempre promesso ciò che esse chiedevano, anche se si trattava di richieste opposte. Ma un punto era fisso: assicurava gli arabi che nulla si sarebbe modificato nella regione senza l’accordo tra le due parti, il che si traduceva nella possibilità per gli arabi di opporre sempre un diniego a ogni trattativa con i sionisti.

 

Marshall concordava con il comportamento di Roosevelt. Nel febbraio 1944, due democratici, Sol Bloom, chairman del House Committee for Foreign Affairs, e Tom Connally, chairman della stessa commissione al Senato, presentarono una risoluzione a favore della più ampia immigrazione ebraica in Palestina e della creazione di un commonwealth ebraico nella stessa regione. Gli estensori richiedevano che la risoluzione fosse pubblica. Immediatamente il War Department entrò in allarme. Il segretario alla Guerra, Edward Stimson, riferì che avrebbe trattato la materia con il generale Marshall, il quale “era ansioso che la lettera non fosse resa pubblica”. Marshall era dell’avviso che l’approvazione della risoluzione avrebbe portato a “un alto grado di tensione in Palestina”. Ancora: “Non intendo esagerare le conseguenze che deriverebbero dall’adozione di questa risoluzione, [ma] penso che sia del tutto evidente che da un punto di vista militare si dovrebbe preferire che i cani continuino a dormire”. In sostanza, Marshall e il War Department avanzavano critiche alla risoluzione esclusivamente sul piano bellico.

  
Ma non era solo questo l’unico motivo dell’opposizione; altrimenti, finita la guerra, le ragioni belliche non avrebbero dovuto più rappresentare un motivo di contrasto. Invece, come scrive Clifford nelle sue memorie, “Truman e Marshall collidevano a proposito della politica mediorientale”. Marshall, infatti, era sulle posizioni di Londra. La Gran Bretagna era dell’avviso che la Dichiarazione Balfour del 1917 e la risoluzione della Società delle nazioni del 1920 non avessero più senso, perché gli esiti della Seconda guerra avevano posto sul tappeto nuovi problemi relativi all’assetto del medio oriente. Naturalmente, dietro la posizione di Londra v’erano interessi precisi della Gran Bretagna a mantenere la propria egemonia sulla regione e sui suoi regnanti arabi, senza considerare che le condizioni politiche ed economiche di questa egemonia sarebbero venute meno alla fine della guerra. Da parte di Marshall e del dipartimento di stato ci si riferiva, invece, alle prospettive di una presenza sempre più incisiva dell’Unione sovietica nella regione. Per la verità, negli ultimi anni della guerra e nei successivi due-tre anni l’analisi sovietica sul mondo arabo era negativa. Secondo la dogmatica marxista, il mondo arabo non poteva rappresentare alcun vantaggio per la causa della rivoluzione mondiale dei lavoratori. Si trattava di regimi feudali, anacronistici, inservibili per la rivoluzione proletaria. Solo qualche anno più tardi Mosca muterà atteggiamento e sceglierà di avvicinarsi al mondo arabo nella sfida della Guerra fredda con gli Stati Uniti nella regione.


Negli anni in cui l’Unione sovietica era ideologicamente lontana dai regimi arabi, Marshall non conosceva la dogmatica marxista, oppure prevedeva l’evoluzione sovietica riguardo alle dinamiche della Guerra fredda. Fatto sta che, fin dal febbraio 1944, Marshall era contrario a un’eventuale spartizione e alla nascita di uno stato ebraico in Palestina, per ragioni che muteranno nel corso degli anni fino alla drammatica seduta del 12 maggio 1948. Quando, il 21 gennaio del 1947, Truman nominò Marshall alla guida del dipartimento di stato, evidentemente riteneva che le posizioni del nuovo segretario si sarebbero acconciate sulle sue. Si sbagliava, perché, come si è detto, Marshall era ancora legato alle posizioni di Roosevelt a proposito della Palestina. Scrive Truman nelle sue memorie: “Mi rendevo sempre più conto che non tutti i miei collaboratori guardavano al problema della Palestina con i miei occhi”. Marshall rientrava tra quei collaboratori, ai quali Clifford imputava una certa dose di antisemitismo, di cui, però, non v’è alcuna traccia nelle posizioni di Marshall.

  
Eppure Marshall, dopo la sua nomina, non sembrò ostile alla spartizione e, quindi, alla nascita di uno stato ebraico. Quando, nel maggio del 1947, la United Nations Special Committee on Palestine (Unscop) approvò a maggioranza un documento che prevedeva la spartizione, Marshall lo approvò. Che cosa poi lo indusse a cambiare idea è una questione che non è esplicitata nei due libri di memorie che egli dettò a Rose Page Wilson (1968) e a Forrest C. Pogue (1991). Anzi, nei due libri non v’è traccia della questione della Palestina. Il primo segnale del suo cambiamento di rotta avvenne il 17 settembre, quando, parlando alle Nazioni Unite, Marshall si limitò ad affermare che gli Stati Uniti guardavano con eguale interesse alla relazione di maggioranza e a quella di minoranza. Ma, già nel marzo, Marshall aveva approvato un documento in cui si leggeva: “La posizione degli Stati Uniti è che il governo inglese è nella migliore posizione per determinare la natura della formulazione del problema che desidera presentare alle Nazioni Unite”. Con queste parole, Marshall si piegava di fatto alle richieste di Ernest Bevin, segretario agli Affari esteri inglese, che nei mesi precedenti aveva letteralmente tartassato il dipartimento di stato con documenti contrari a qualsiasi ipotesi di spartizione. Da quel momento in poi, grazie anche alle pressioni dei suoi sottoposti, che condividevano le posizioni inglesi, Marshall divenne sempre più convinto delle ragioni di Londra e, soprattutto, di quelle del dipartimento di stato che dirigeva. E così, il 17 settembre, in una riunione della delegazione americana alle Nazioni Unite, Marshall gettò definitivamente la maschera e affermò che sostenere il documento di maggioranza dell’Unscop avrebbe scatenato la reazione del mondo arabo e provocato il suo passaggio dalla parte dell’Unione sovietica. Il che avvenne, ma non perché gli Stati Uniti avessero infine sostenuto la nascita di Israele (o, almeno, questo non fu il motivo principale), ma perché gli arabi vedevano negli Stati Uniti la continuazione del dominio coloniale inglese e nell’Unione sovietica il paese che avrebbe difeso i diritti dei popoli del Terzo mondo. Nasser fu sempre esplicito nel sostenere questa posizione.
 

La situazione era tale che Truman aveva perso il timone della politica americana sulla Palestina. Il dipartimento di stato produceva documenti in continuazione, cercando di dimostrare l’inapplicabilità della risoluzione maggioritaria dell’Uunscop. Marshall non si scopriva con il presidente, ma approvava l’operato dei suoi sottoposti. Nella vastissima documentazione ufficiale è impossibile trovare un documento firmato da Marshall che si pronunci esplicitamente contro la spartizione. Ma gli esiti del confronto con il presidente non lasceranno dubbi sulla sua posizione. Il 19 marzo, il governo americano rese pubblico un documento in cui si raccomandava la sospensione della proposta di spartizione in favore di un temporaneo prolungamento del mandato sulla Palestina, da affidare questa volta alle Nazioni Unite. Il movimento sionista esplose di rabbia. Il responsabile di questo drammatico voltafaccia fu George C. Marshall.

  
L’approvazione della spartizione nella seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, voluta espressamente da Truman, non mutò l’atteggiamento del dipartimento di stato e dello stesso Marshall. Al contrario, Marshall e il dipartimento si adoperarono incessantemente per affossare la spartizione, contrastando la volontà del presidente. Marshall non fu leale con Truman.

 
E così, nei mesi che seguirono la decisione delle Nazioni Unite, in cui Londra continuava a esercitare un ruolo di opposizione alla spartizione, i paesi arabi minacciavano di invadere il territorio assegnato agli ebrei e il dipartimento di stato tesseva la sua tela in combutta con gli inglesi, si giunse al fatidico 12 maggio 1948, in cui i nodi vennero al pettine all’interno del governo americano. Si può dire che, grazie a Ben-Gurion che, il 14 maggio, dichiarò la nascita di Israele, Marshall fu definitivamente sconfitto. Si dimetterà dalla sua carica, per ragioni di salute, il 7 gennaio 1949.