Melania Trump, in tailleur azzurro polvere di Ralph Lauren, si avvia alla cerimonia di insediamento del marito come 45° presidente degli Stati Uniti (foto LaPresse)

Tendenza Melania

Fabiana Giacomotti

L’impossibilità di essere Jackie. First lady per niente impegnata ma bellissima. E brava nel passo indietro

Gli americani se ne facciano una ragione, si può vivere anche senza una first lady in servizio permanente effettivo, guardate noi che, per ragioni varie e non solo di anagrafe o di disgrazie, mandiamo in giro da decenni presidenti e premier soli solissimi al punto che noi signore educate all’antica ne occhieggiamo il colletto della camicia per vedere se qualche anima pia gliel’abbia stirato come si deve. Agnese Renzi, in principio recalcitrante e parecchio, è stata un’eccezione che non abbiamo ancora finito di rimpiangere, come donna Vittoria Leone peraltro, ma non ci pare che la moglie di Paolo Gentiloni, Emanuela Mauro, lasci volentieri gli impegni della propria professione di architetto per assistere il marito nei viaggi di rappresentanza o per sovrintendere ai pranzi di Palazzo Chigi e non ne facciamo una questione di principio. E’ presente con i suoi tailleur pantaloni bianchi, ben tagliati, quando e quanto serve. Q. b., come nelle buone ricette. In area Quirinale, poi (da noi mai s’è capito a chi spetti davvero il ruolo di “first” qualcosa, e le donne c’entrano fino a un certo punto) siamo sempre andati malino: molti meravigliosi presidenti vedovi, parecchi ufficialmente ammogliati ma singoli, singolissimi alle parate e agli alzabandiera, e l’abbiamo sempre presa con filosofia, anche se a schifare la carica e non mettere piede sul Colle era una donna in gambissima come Carla Voltolina, partigiana, giornalista, femmina mozzafiato come testimoniano certe foto d’epoca ancora moderne. Abbiamo fatto spallucce pure se Clio Napolitano si recava controvoglia a ricevimenti ufficiali o, deo gratias, alle sfilate di moda, e giusto di Raffaella Curiel perché è un’amica.

 

Anche noi abbiamo avuto le nostre brave first figlie come Marianna Scalfaro, che a tanti piaceva più del padre esattamente come accade con Ivanka Trump, anche se il padre Oscar Luigi si sarebbe ben guardato dal twittare contro i clienti di sua figlia, come ha fatto l’altro ieri Donald Trump nei riguardi del department store Nordstrom che ha deciso di non venderne più le collezioni. Insomma, che Melania Trump si sia fermata alla Casa Bianca giusto il tempo di nominare un segretario, fare il giro della East Wing che sarebbe il territorio di sua spettanza e degli alloggi della sua corte e poi tornare a New York non ci turba forse come dovrebbe, ma dopotutto è noto che gli Stati Uniti d’America non riescono a smettere di fare i conti con la propria storia e, avidi di patenti di nobiltà come sono fin dai tempi in cui mandavano in Europa le figlie dei magnati perché ne tornassero con un qualunque debosciato purché provvisto di corona nobiliare, vedono nella Casa Bianca l’equivalente di Versailles e smaniano di vederla occupata da una castellana all’altezza. Melania Trump tale non è, e presumibilmente non lo è anche per una parte dello stesso elettorato di Donald Trump, visti i segnali di distanza delle ultime settimane, tenuti costantemente sotto controllo da osservatori politici, media, amanti del gossip. Per farlo, un paio di quotidiani americani hanno messo in campo, cioè davanti al video, persino un team di psicoterapeuti. Gli altri si lambiccano in congetture a ruota libera, molto genere signora mia. Lei ha cercato la sua mano e lui l’ha respinta. Che cosa mai le avrà detto alla cerimonia di insediamento per farla ammutolire e chinare affranta la testa.

 

Sicurissimi che il discorso copiato da quello di Michelle Obama che le è stato fatto leggere alla convention repubblicana non fosse una polpetta avvelenata del team di Donald per toglierle ogni ambizione a un ruolo di primo piano, lei che, dopotutto, è un emblema dell’immigrazione che il marito osteggia? Seguono l’affondo un po’ sconcio sulla salute del figlio Barron (“ma davvero è autistico e non deve cambiare ambiente e quindi lei rimane a New York per questo?”) e naturalmente le foto porno soft degli esordi (“e pensa che non ne aveva ricavato neanche un dollaro”), dove lei appariva così gattona e già con quegli occhi a fessura, gelidi e inquietanti ma anche un po’ ottusi, insomma lo spunto ideale per centinaia di imitazioni compresa quella che le ha fatto pochi giorni fa Gigi Hadid agli American Music Awards, modella anche lei, fotografata nuda più di lei, ma nata ricca in un mondo dorato, cosmopolita, viziato, esattamente come Carla Bruni con il suo cursus honorum di maschi famosi e di calendari Pirelli senza veli e le altre, non poche, first lady uscite a vario titolo dal mondo dei media. Un mondo variegato, ma a cui qualcuno si è premurato di spiegare fin dalla prima infanzia che non ci si presenta nella casa della donna che si sta facendo sloggiare con un regalone in mano.

 

Se chi ha votato Donald Trump o chi l’avrebbe fatto se fosse nato negli Stati Uniti tendenzialmente approva anche sua moglie, anzi la trova perfino raffinata (un paio di settimane fa, intervistata sul tema, ho avuto la pessima idea di spiegare perché la bellezza non sia affatto una parente stretta dell’eleganza; credevo anche di offrire un motivo di conforto ai milioni di donne meno attraenti di Melania, sono stata coperta di insulti), gli antipatizzanti del presidente degli Stati Uniti vedono nella nuova first lady alternativamente una vittima o una furbacchiona: in ogni caso, una donna imbarazzante. Pas sortable, come dicono i francesi, e infatti ecco che Melania “non sortisce”, non esce. E a ben vedere, finora ha azzeccato strategia; sottraendosi, ha guadagnato se non altro un po’ di tempo. E forse uno zic di libertà che persino a Michelle Obama è stata negata. Il lodo Melanija Knavs, negozio non giuridico ma fattuale in cui è previsto che nessuno debba essere costretto ad abitare alla Casa Bianca se non ha voglia di trascorrere le giornate a disporre i fiori, seguire l’andamento della cucina e gestire il flusso degli ospiti che sarebbero i compiti della first lady come da protocollo, inizia a intrigare anche chi, pur apprezzando il carattere di Michelle, ne trovava l’orto biologico piantato al posto dei roseti un pelo troppo politicamente corretto per risultare divertente o utile, tanto che, infatti, gli americani hanno votato repubblicano e continuano a ingurgitare schifezze.

 

Melanjia Knavs in Trump dagli inquietanti occhi a fessura e le gutturali cavernose della sua madrelingua slava che invece di prendere possesso della East Wing e darci dentro con le dorature se ne è tornata nell’atticone della Trump Tower di New York, dove le dorature ci sono già, a fare la mamma e a occuparsi delle sue “attività imprenditoriali”, principalmente creme di bellezza alle uova di storione – e giuro che non si tratta di una battuta maligna, aprite il suo sito e la vedrete anche recitare nello spot delle assicurazioni Aflac “accanto a una delle icone americane, il papero Aflac” – è una sorpresa almeno quanto il marito Donald che, tenendo fede a impegni elettorali che tutti ritenevano appunto impegni elettorali, sta rischiando di riaccendere la polveriera mondiale. Melania Trump non vanta titoli di studio spendibili, della lingua del paese che la ospita da una ventina d’anni ha mandato a memoria giusto quattro frasi idiomatiche che ripete con la ripetitività entusiasta di un automa (“mi occupo di tutto dalla A alla Z”, “mi sento coinvolta dalla A alla Z”) e, nonostante le forme vantaggiosissime, tramortisce i vestiti, ne azzera la classe e l’allure, che è l’unico vero motivo per il quale gli stilisti non vogliono vestirla e chissà a quante sfilate sarà presente in questi giorni di fashion week newyorkese un po’ al ribasso. Quest’ultimo punto, essendo del tutto fatuo e pure un po’ cretino, è diventato un affare capitale sul quale dibattono da settimane tutte le riviste di moda lette avidamente da Melania, che sulla copertina di Vogue America è finita solo una volta, non da modella ma con il vestitone meringato che le aveva messo addosso Donald il giorno del loro matrimonio, e con uno di quei titoli perfidi che ti segnano per sempre anche se tuo marito ha pagato oro pur di fartelo avere (“meet Donald Trump’s new bride”).

 

Non c’è niente da fare: al mondo che piace, Melania Trump non piace. Gli stilisti non vogliono vestirla e non ci sono state lettere imploranti della presidente della Federazione Diane von Furstenberg a far cambiare loro idea; le signore bennate di New York continuano a snobbarla come fanno da anni, e le loro viziatissime figlie le fanno il verso perfino nelle cerimonie pubbliche, fra le risate generali come non accade di certo con Ivanka Trump che è una di loro anche se sua madre Ivana ha un curriculum paragonabile a quello di Melanjia, attività sballate comprese, e rischia di trascorrere la vecchiaia accanto a sfaccendati coi capelli unti come Rossano Rubicondi. Ma il termine di paragone per la bella e cafonissima Melania, purtroppo per lei, non è Ivana. E’ come sempre, come per tutte, Jackie, Jacqueline Kennedy l’inarrivabile. Si fa presto, come abbiamo tutti letto in queste ultime settimane, che a Melania Trump sarebbe bastato “copiare Jackie” per ben figurare alla cerimonia di insediamento, invece di avvoltolarsi in quel tailleurino azzurro polvere a inattesa firma Ralph Lauren (ma da quando fa vestiti da sartoria del Midwest?). Copiare Jackie non è riuscito a nessuno, anche se ci hanno provato in molte. Per esempio, Hillary Clinton. Prima della corsa del marito Bill alla presidenza, invitò a pranzo Jacqueline Kennedy per chiederle qualche consiglio sullo stile da adottare nei lunghi mesi che l’avrebbero portata da un capo all’altro dell’America e quella, gelida e perfida, le rispose che a quarant’anni c’era poco da cambiare, restasse pure così com’era e buona fortuna.

 

Melania Trump non ha invitato nessuno, di certo non Anna Wintour che fino all’altro ieri ha fotografato in copertina Hillary Clinton, ligia alla vecchia regola di Vogue America di sostenere sempre la first lady salvo che quella di un tempo stavolta correva come presidente e ha perso, e di Jackie non ha nemmeno un’ombra dell’allure, come ha ampiamente dimostrato con quel tailleurino color polvere. Ma soprattutto, e purtroppo per lei, Melania Knavs in Trump non ha la fortuna di essere nata in epoche in cui social non esistevano e i giornali erano mediamente rispettosi, per cui si poteva andare in Francia come Jacqueline Kennedy nata Bouvier alla ricerca delle proprie origini contando di trovarle in un castello della Loira, trovarle invece fra le assi di una falegnameria e tornare indietro a interpretare la perfetta wasp di alto lignaggio nell’ammirato silenzio generale. Per questo, fa benissimo a fare il famoso passo indietro che le altre hanno fatto in modo meno plateale e, per certi versi, più subdolo o alternativamente più rumoroso. L’inarrivabile Jackie, per esempio, era nota per darsi malata, preferibilmente dal letto della casa sulla spiaggia di Martha’s Vineyard, e tanti saluti ai due fratelli, che ricevessero pure con le loro amichette al fianco, se ne avevano il coraggio. Michelle, non potendo ne’ tantomeno volendo scappare, si era portata mezza famiglia ospite fissa alla Casa Bianca, e più di una volta aveva trasformato la East Room dove sono stati firmati trattati e leggi sui diritti civili in un set per le sessioni di ginnastica del reality “The biggest loser”.

 

La moglie di Abraham Lincoln, Mary Todd, era una spendacciona compulsiva, che occultava nei cassetti i guanti, le calze e tutte le cianfrusaglie acquistate a credito nella giornata e via fino alle alcolizzate dichiarate e redente (Betty Ford, da cui l’omonima clinica di recupero, ma anche Nancy Reagan non disprezzava un bicchierino), e le first lady occulte, come Sally Hemings, schiava, compagna del terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson, che fu anche architetto e rinnovatore della stessa Casa Bianca, richiedendone abbellimenti e ingrandimenti come i porticati degli ingressi ai quattro punti cardinali, oltre a serre e gabbie per gli animali ricevuti in dono. Sì, il lodo Melanjia Knavs ha qualche senso di essere. Fossi in lei, lo vorrei proprio con il mio nome, non anglicizzato in Knauss. Tanto per ribadire, finché è possibile, di essere una migrante slava. Burina, ignorante, bellissima.

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