Conti in rosso, crollo del titolo, fame di nuovi capitali per Deutsche Bank, che ha un ammontare di derivati pari a 14 volte il valore del pil tedesco

Tutte le Mps d'Europa

Stefano Cingolani

Non c’è solo il Monte dei Paschi da salvare. Non a caso si pensa già a una discarica finanziaria dove depositare i crediti marci del Vecchio continente. La delusione di Atlante

Una discarica finanziaria europea (in gergo bad bank) per togliere dalla pancia delle banche la montagna di prestiti che non saranno restituiti in tempi decenti e a prezzi accettabili, o forse mai. Una operazione maieutica che dovrebbe sbloccare questo sistema creditizio, vera foresta pietrificata che si estende dall’Atlantico agli Urali. E’ solo una proposta, ma l’Eba, l’Autorità bancaria europea, ha spezzato il tabù. Era ora si potrebbe dire. Sono trascorsi otto anni dal fatidico 2008 in cui crollò l’intero sistema nel Nuovo e nel Vecchio continente. Gli Stati Uniti reagirono con una operazione di sistema, un salvataggio pubblico, ma temporaneo e una ristrutturazione forzata, imposta dal Tesoro e dalla Federal Reserve, in base alla quale le banche più solide hanno assorbito quelle a rischio crac, tutte tranne la Lehman Brothers che nessuno ha voluto, come ormai sappiamo bene. L’Unione europea, al contrario, reagì in ordine sparso: a ciascuno la sua rogna, ogni governo avrebbe risposto ai propri elettori. Eppure c’era chi come Christine Lagarde, allora ministro dell’Economia nel governo fancese del presidente Nicolas Sarkozy, propose di creare un fondo europeo per rispondere a un problema che non era affatto nazionale. L’idea venne bocciata, soprattutto dalla Germania guidata già da Angela Merkel, che aveva deciso di salvare le proprie banche in difficoltà come Commerzbank con i denari dei contribuenti, e dal primo ministro britannico Gordon Brown, il quale aveva speso un bel mucchio di sterline per la Northern Rock, i Lloyds, la Royal Bank of Scotland. I tempi non erano maturi, sostengono gli storicisti, e non hanno tutti i torti perché oggi l’Unione europea e l’area euro in particolare, posseggono strumenti che prima non esistevano. Ma è il protrarsi di una crisi che non finisce mai di finire, a dare spazio alla soluzione sistemica rimasta finora in minoranza.

 

Sulla Stampa, Alberto Mingardi, fondatore e direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, ha scritto che “oggi tutta l’Europa inclusa l’Eba con la sua proposta di una bad bank continentale cerca di evitare il crollo finanziario dell’Italia e delle sue banche. O almeno di salvare i pezzi pregiati dal naufragio”. Dunque, l’allarme Italia ha scosso anche gli imperturbabili regolatori di Francoforte compreso chi storceva il naso quando Pier Carlo Padoan proponeva di creare una bad bank italiana. Il ministro dell’Economia voleva una garanzia pubblica senza la quale è difficile che l’operazione possa decollare. “Aiuti di stato”, per la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager. E lì tutto si è fermato, costringendo a ripiegare su una soluzione blanda e caso per caso, inutile per i crediti a maggior rischio. Probabilmente il progetto era velleitario, perché sarebbe stato davvero difficile mettere in un solo cesto sofferenze lorde per 200 miliardi di euro (a tanto ammontano attualmente i prestiti che non possono essere riscossi) con valori diversi, copertura e garanzie differenti, qualità e storie finanziarie del tutto difformi. Tuttavia affidarsi a soluzioni caso per caso, se è fattibile per grandi strutture (come l’Unicredit che ha seguito la propria strada) appare del tutto irrealistico per la miriade di piccole e spesso piccolissime aziende di credito. Senza dimenticare che non hanno funzionato nemmeno le soluzioni di mercato.

 

Alessandro Penati, l’economista alla guida del fondo Quaestio sulle cui spalle poggia Atlante, è fuori di sé dalla frustrazione e dalla rabbia contro le banche che si tirano indietro, svalutando la loro quota (lo ha fatto Unicredit e in parte Intesa Sanpaolo, mentre le Assicurazioni Generali aveva già preso le distanze). L’operazione JP Morgan-Mediobanca per il Monte dei Paschi di Siena è stata un flop clamoroso, non ha riscosso l’interesse dei fondi di investimento, a prescindere dall’incertezza sull’esito del referendum e sulla durata di Matteo Renzi al governo. Ipotesi alternative come quella proposta da Corrado Passera non sono state nemmeno esaminate. Qualcuno oggi sospetta che in realtà sia il Tesoro sia la Banca d’Italia volessero fin da subito l’intervento diretto dello stato; Renzi si è messo di traverso, ma appena lui ha lasciato palazzo Chigi è stato deliberato uno stanziamento di 20 miliardi di euro per Mps (dovrebbe assorbirne tra gli 8 e i 9 miliardi), per le banche venete (ne serviranno almeno tre secondo alcune stime) e chissà ancora per che cos’altro. Sì, in barba a tutte le smentite del passato, ormai è chiaro che la mano pubblica entrerà anche nella Banca Popolare di Vicenza e in Veneto Banca, oggi possedute integralmente dal fondo Atlante il quale ha speso quasi tutta la sua dote di 4 miliardi. Sarà un intervento temporaneo con una quota di minoranza, si dice. Pier Carlo Padoan giura che non c’è all’orizzonte nessun ritorno allo stato banchiere. Vedremo quanto durerà e qualche sospetto è più che legittimo. Penati denuncia che “nelle banche italiane ci sono troppe horror story”. Questi orrori si chiamano in gergo crediti deteriorati (“non performing loans” o npl per gli anglofoni). “Ci sono cose oscure anche nel Monte dei Paschi”, ha confessato Alessandro Profumo che è stato presidente dal 2012 al 2015. Ed è tutto da scoprire, anche se qualche scettico blu sospetta che l’arrivo dello stato serva per stendere un manto politicamente pietoso.

 

Da una parte il neo-interventismo pubblico teorizzato dalla Banca d’Italia per rimediare ai “fallimenti del mercato” (pur sapendo di introdurre una distorsione nel mercato tra garantiti e no), dall’altra un governo spaventato dai risparmiatori con i forconi in mano, e in mezzo, ipotizza un ex banchiere che ora aspetta sulla riva del fiume, la voglia di non mettere il naso nella catena perversa che ha condannato la banca senese alla lunga agonia cominciata nel 2008 con l’acquisto dell’Antonveneta. Il pasticcio bancario italiano è tale che molto spesso nei cassetti delle aziende di credito non ci sono nemmeno i documenti su chi, come e perché ha ottenuto i prestiti che ora non vengono restituiti. La Banca d’Italia ha deciso di aprire una sorta di registro dei crediti deteriorati. Gabriele Barbaresco, capo dell’area studi di Mediobanca, si è spaccato la testa per cercare di decifrare numeri e dati attendibili. Martedì 7 febbraio ha presentato i risultati a Roma presso il Senato in un incontro organizzato dalla Fondazione Ugo La Malfa, fornendo un quadro allarmante: un prestito su cinque è a rischio di non essere mai recuperato; nella media degli altri paesi europei siamo a quattro volte meno, attorno al 5-6 per cento. Ci sono di mezzo tante sfumature di grigio, ma non c’è dubbio che esiste una emergenza Italia da affrontare.

 

Non che le cose vadano poi tanto bene nel resto d’Europa. Le quotazioni bancarie sono scese in tutte le Borse (anche se in Italia sono addirittura al livello del 2012, l’annus horribilis dello spread e del debito sovrano). L’istituto tedesco Zew ha analizzato le banche europee con un criterio diverso da quello usato dalla Bce per gli stress test, cioè tenendo conto del livello assoluto di indebitamento, detto leverage ratio. In cima alla classifica così si colloca la Deutsche Bank con un deficit di 19 miliardi che la costringerebbe a un aumento di capitale massiccio. Al secondo posto arriva la Société Générale con 13 miliardi, seguita da un’altra francese, Bnp Paribas con 10 milardi. Tra le italiane stanno peggio Unicredit (che sta già chiedendo al mercato 13 miliardi di euro) e il Monte dei Paschi di Siena. Soffrono la inglese Barclays e la tedesca Commerzbank nonostante il governo sia il primo azionista.

 

La malattia, insomma, non risparmia nessuno anche se si manifesta in modo diverso. Portogallo, Italia e Irlanda hanno problemi simili: troppi crediti deteriorati nei bilanci delle banche. In Irlanda non è andato a buon fine il 21,5 per cento dei finanziamenti, in Italia come abbiamo visto il 20 per cento circa, in Portogallo il 16,3 per cento. Dublino ha stanziato abbondanti aiuti e ha creato una bad bank proprio per togliere dai bilanci i crediti deteriorati, ma non ha funzionato. A differenza dalla Spagna dove il veicolo pubblico creato nel 2012 con gli aiuti europei è riuscito a sgonfiare la bolla dei prestiti inesigibili, consentendo alle banche di rimettere in moto il circuito del credito. Dunque, lo stesso strumento ha mostrato effetti diversi in luoghi e condizioni diverse.

 

In altri paesi il diavolo si nasconde nel mercato immobiliare. E’ il caso della Gran Bretagna. Dopo la Brexit, molti investitori internazionali stanno uscendo dal settore commerciale (si pensi ai costosissimi uffici nella City) e i prezzi scendono con il rischio di un vero collasso. Se si pensa che negli ultimi sette anni il 45 per cento delle compravendite di case e uffici è stato effettuato da investitori esteri, si capisce l’entità del contraccolpo che avrebbe una ricaduta immediata sulle banche che hanno prestato montagne di sterline.

 

In Germania e in parte in Francia, soprattutto nelle maggiori banche, l’incognita s’annida tra i derivati in bilancio. La sola Deutsche Bank ne ha per un ammontare pari a 14 volte il pil tedesco. Ma non basta. Il sistema bancario è frammentato, molto più di quello italiano, che già è nel mirino per la scarsa presenza di pochi colossi di rilievo. Senza contare che le banche tedesche hanno un basso livello di profitti, più o meno come quelle italiane secondo i dati elaborati da Mediobanca, e fanno un forte ricorso alla leva finanziaria solo in parte “mascherata” dai coefficienti patrimoniali elevati. Il governo tedesco ha ottenuto di lasciare fuori dalla unificazione dei sistemi europei le banche regionali e le casse di risparmio, proprio là dove si annidano i prestiti dubbi o a rischio, magari concessi con logiche politico-clientelari, o per largheggiare quando si gonfiava la bolla immobiliare. Ciò ha consentito di nascondere molta polvere sotto il tappeto, ma la realtà ancora una volta si è dimostrata più forte dei furbetti. E Berlino è alle prese con i guai della sua istituzione finanziaria più grande, importante e ricca di storia: la Deutsche Bank. E’ vero, con tutto quel marcio che ha in pancia, ha potuto superare gli stress test della Bce, ma ciò non l’ha messa al riparo dalla sentenza che viene dal mercato: crollo del titolo, conti in rosso, fame di nuovi capitali.

 

La disparità di trattamento ha aperto una querelle soprattutto in Italia. Perché i derivati vengono considerati meno pericolosi dei crediti deteriorati? La risposta tecnica è che non hanno lo stesso impatto immediato. Se i prestiti non rientrano o vengono recuperati a prezzi stracciati, le banche debbono scrivere le perdite in bilancio e per coprirle hanno bisogno di utilizzare una parte del proprio patrimonio o chiedere soldi agli azionisti e al mercato. Come sta facendo Unicredit che cerca 13 miliardi subito. Anche Deutsche Bank dovrebbe aumentare il capitale, ma ha più tempo perché i contratti derivati non consumano il patrimonio considerato più importante per la stabilità della banca.

 

Magheggi finanziari, illusioni statistiche? E’ probabile, ma le norme stabilite dalla Banca dei regolamenti internazionali dividono il capitale in tre livelli. Il primo (Tier1) è quello di maggior qualità ed è composto di titoli propri, riserve e utili non distribuiti. Il secondo (Tier2) comprende anche le obbligazioni in portafoglio comprese le subordinate. Nel terzo (Tier3) ci sono gli strumenti ibridi di capitale e i titoli illiquidi. Il marchingegno tecnico si chiama Rwa (Risk-weighted assets, in italiano attività ponderate per il rischio). Una banca d’affari ha attivi a rischio che valgono non oltre il 30 per cento del bilancio, mentre una banca commerciale che vive soprattutto di prestiti arriva al 60 per cento. E chi stabilisce il valore dei titoli illiquidi? Le stesse banche sotto la supervisione delle banche centrali nazionali. Finora non si è mai visto che la Bundesbank abbia smentito la Deutsche Bank o la Banque de France abbia messo in mora la Bnp Paribas.

 

In campo entra anche un’altra variabile micidiale: la pericolosità dei titoli di stato. Le banche tedesche sono piene di Bund i quali hanno il massimo del punteggio assegnato dalle società di rating (lo stesso si può dire dei titoli di stato francesi). Le banche italiane detengono un grande ammontare di debito italiano valutato più o meno ingiustamente poco più che “spazzatura”. Fino alla crisi del 2010-2012 cominciata con il collasso della Grecia, i titoli pubblici venivano considerati a rischio zero perché era impossibile che un paese fallisse. Oggi non è più così. Gli strumenti creati dalla Bce e dalla Ue come il fondo salva stati, da un lato sono una ciambella importante, dall’altro attribuiscono ai buoni del Tesoro un grado di rischio direttamente proporzionale alla gravità della crisi di un paese. Anche questo va messo in bilancio.

 

Prestiti, derivati, titoli di stato, rischi privati e rischio paese, un rompicapo che le autorità europee hanno rimosso, scaricando gli oneri sui singoli governi. Ma la prossima crisi che molti vedono all’orizzonte (anzi, per George Soros è già cominciata) non consentirà più di fare come Pilato. La bad bank europea è la soluzione buona per tutti? Molti ne dubitano. Il bail-in (cioè se la banca fallisce pagano anche i risparmiatori) finora è stato un gran pasticcio. L’unione bancaria è monca. La vigilanza della Bce è apparsa spesso confusa, se non proprio forte con i deboli e debole con i forti. L’intero sistema finanziario europeo s’incammina verso l’orlo del baratro e BlackRock, la più grande società mondiale di gestione dei patrimoni, spinge i propri clienti ad alleggerirsi di titoli del Vecchio continente. Che fanno a Bruxelles e a Francoforte, alzano bandiera bianca? E le autorità italiane, il Tesoro e la Banca d’Italia? Attendere una soluzione dall’esterno, aspettare il podestà straniero o il deus ex machina che scende da Francoforte si è rivelato disastroso. Il governo ne ha preso atto saltando il Rubicone dell’intervento pubblico, ma è solo l’inizio: adesso deve costruire una proposta più ampia, tecnicamente solida e politicamente ben sostenuta, per evitare che Pantalone paghi gli errori e le omissioni di tutti questi anni.

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