Papa Francesco (foto LaPresse)

Fra Ostpolitik e liberalismo

Non è il mondo di Trump e Putin il più favorevole alla chiesa, ci dice Weigel

Per il biografo di Giovanni Paolo II, il Vaticano deve ripensare la diplomazia, troppo morbida con i dittatori

New York. Il tempo dirà se Donald Trump darà una forma politica alle urla contro il “globalismo” e ai proclami sull’obsolescenza della Nato e dell’Onu, ma la sua elezione segna il ribaltamento di una visione del mondo. L’ordinamento liberale che ha regolato i rapporti globali dal Dopoguerra, e che a un certo punto è stato scambiato per un destino, sta affrontando il suo stress test più severo, e dalla Russia di Putin all’Europa attraversata da pulsioni identitarie passando per il nazionalismo tutto muri e dazi di Trump, il revival di un vecchio ordine mondiale (o la nascita di un ordine post liberale) è un dato ineludibile. E’ la fine della fine della storia.

 

In mezzo alla battaglia fra l’universalismo liberale in crisi e i particolarismi in ascesa sta la chiesa cattolica, che è universale per definizione ma non può che sentirsi a disagio nell’abbracciare definitivamente la visione liberale, con le sue premesse antropologiche in attrito con la visione cristiana. In tutto questo, regna in Vaticano un Papa argentino che critica aspramente i processi economici che la globalizzazione ha estremizzato e allo stesso tempo depreca i ripiegamenti nazionalisti, forieri di discriminazioni e disumanità per chi migra alla ricerca di un futuro. Quale delle due idee di mondo che si confrontano è preferibile per la chiesa? La stabilità secolarizzante del liberalismo oppure la frammentazione identitaria? Quale assetto permette meglio alla chiesa di essere se stessa, posto che né i barbari né i giacobini sono riusciti a demolirla? I primi a riflettere sul tema in questa serie di interviste sono stati il politologo Patrick Deneen, incline ad approvare la forma dello stato-nazione come condizione preferibile per la vita dei cattolici, e Charles Taylor, eminente filosofo canadese che vede invece la necessità e la possibilità per la chiesa di compiere con più agio la sua vocazione all’interno di una cornice liberale.

 

George Weigel, senior fellow all’Ethics and Public Policy Center e biografo di san Giovanni Paolo II, ha impresso nella memoria il cambio di passo giovanpaolino dalla Ostpolitik alla critica aperta e militante all’Unione sovietica, “l’impero del male” combattuto fianco a fianco con l’America di Ronald Reagan: “Non penso che la gerarchia della chiesa cattolica – dice Weigel al Foglio – abbia iniziato a riflettere sulle implicazioni dei nazionalismi che stanno ritornando o del transnazionalismo burocratico. Il che significa che è tempo di un ripensamento dall’alto delle premesse della diplomazia vaticana, inclusa la recente propensione a parlare a bassa voce a dittatori e autocrati, portando con sé un bastone molto piccolo”.

 

Nella semplificazione da tifoseria con cui normalmente si dividono i cattolici, specialmente in America, Weigel è nella curva dei conservatori, anche la sua riflessione sul rapporto fra chiesa e mondo è influenzata dal pensiero di John Courtney Murray. Quella del gesuita che predicava la compatibilità fra liberalismo e cattolicesimo è una sagoma imponente nella storia del cattolicesimo americano, capace di modellare il pensiero tanto dei conservatori quanto dei progressisti. E’ nello spirito murrayano che Weigel ha scritto nel suo “Tranquillitas Ordinis”: “Non c’è contraddizione fra le verità proclamate dal cattolicesimo e l’esperimento democratico americano”. Nemmeno nell’America di Trump? “Difficile dirlo, perché Trump non ha una visione del mondo definibile. Certamente ha avuto presa su quelli che sono stati traditi dalla globalizzazione, e ha parlato a chi è stanco della tirannia del politicamente corretto. Ma se smantella le architetture della sicurezza che ci hanno fatto vincere la Guerra fredda e hanno mantenuto la pace nel nord dell’Atlantico sarà un male per tutti”.