"Nell'Unione europea si è configurata una sorta di religione civile"

“La chiesa è libera solo in un mondo in cui ci sono ancora i confini”. Parla lo scrittore Martin Mosebach

Matteo Matzuzzi

"Il pericolo maggiore è una religione civile che nello spazio pubblico dichiarerà il relativismo un dovere civico". Tra la visione liberale del mondo e quella identitaria, meglio questo modello, spiega l'intellettuale tedesco

Roma. “La prima cosa da dire è che quando parliamo di globalizzazione ci dimentichiamo facilmente che prima dell’odierno fenomeno politico ed economico c’era già una globalizzazione spirituale: la chiesa cattolica”. Martin Mosebach è uno dei principali intellettuali cattolici tedeschi e parte da tale considerazione per rispondere alla domanda che il Foglio sta ponendo in questa serie di interviste: tra la visione liberale del mondo e quella identitaria, la chiesa cosa preferisce? Quale modello le è più congeniale per espletare la sua missione universale?

 

“Punto primo: la chiesa è per sua natura senza confini. Quale comunità di battezzati, essa non conosce nazioni, nel senso di divisioni che possano avere peso nella sfera spirituale. L’annuncio di Cristo, infatti, è rivolto ad gentes, e vuole unire tutti i popoli della terra. E questo universalismo – aggiunge Mosebach – è in vistosa contraddizione con la condizione storica degli uomini, non essendo mai progredito insieme a una parallela unificazione della vita dei popoli. Al contrario, la diffusione della fede ha sostenuto in modo significativo la formazione delle diverse identità nazionali, e si potrebbe dire che sia stata proprio la chiesa ad aver prodotto i diversi caratteri nazionali dei popoli. Lo spirito della chiesa ha portato a uno sviluppo di quelle peculiarità nazionali che, in modo unico e senza precedenti, hanno arricchito il mondo europeo. Punto secondo: la chiesa cattolica si è sempre manifestata nella forma marcata e visibile delle sue nazioni, una Sicilia cattolica, una Polonia cattolica, una Francia cattolica, una Baviera cattolica, un’Irlanda cattolica, una Spagna cattolica. E in ognuna di queste chiese nazionali, l’idea cattolica si è incarnata in modi sempre diversi e potenti”.

 

 

Quindi è meglio il modello identitario risultato vincente, da ultimo, alle presidenziali americane dello scorso 8 novembre? Sì, visto che “la forma odierna di liberalismo, che procede insieme a un relativismo filosofico, costituisce in realtà una minaccia per la missione della chiesa. Questo liberalismo porta a considerare la domanda sulla verità un atto socialmente nocivo. La chiesa sarà allora sempre tentata di mantenersi – nella misura del possibile – in armonia con la società liberale, per non trovarsi stretta in un angolo”. E’ lo scenario contemporaneo, spiega Mosebach: “La chiesa, ormai, si sforza di evitare ogni conflitto diretto con l’ideologia liberale, ma dopo un po’ è costretta a riconoscere che (quasi senza accorgersene) ha rinunciato alle proprie specificità, come si può vedere nel caso della chiesa tedesca”.

 

La Germania funge da cartina di tornasole ideale, insomma: “Qui abbiamo una prefigurazione del risultato di una globalizzazione negativa. Ma per fortuna ci sono ancora altri paesi cattolici nei quali la chiesa è finora riuscita a sottrarsi a questo influsso”. I confini sono fondamentali, e proprio per questo il sistema fondato su istituzioni democratiche sovranazionali è destinato a non avere un futuro: “Sono convinto che la libertà politica sia strettamente dipendente dall’avere a portata di mano dei confini. C’è libertà solo lì dove confini territoriali sono raggiungibili e una fuga è possibile”.

 

Mosebach pensa all’One World, espressione tipica dei globalist rooseveltiani entrata nel dibattito tedesco del secondo dopoguerra: “Nell’One World non ci sono confini e dunque neppure vie di fuga quando esso cadrà in uno stato totalitario. Del resto, il mongo già si trova avviato sulla strada che porta a tale forma statuale, benché per ora riconosca ancora norme liberali. L’One World può esistere – osserva – solo sottomettendo a sé la religione, e mettendone al suo posto una civile”.

 

Ed è proprio questo il pericolo maggiore per la chiesa: una religione civile, “come quella che si è configurata in qualche misura nell’Unione europea con i suoi valori. Una religione di questo tipo cercherà sempre di relegare le religioni vere nel privato, mentre nello spazio pubblico dichiarerà il relativismo un dovere civico”. Finché vi sarà una pluralità di nazioni, “la chiesa potrà fare affidamento sul fatto che tra questi paesi ce ne saranno sempre alcuni in cui essa riceverà protezione”, chiosa Martin Mosebach. 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.