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Il rosso e il nero

Paola Peduzzi

A destra e a sinistra si parla la stessa lingua del fervore anti sistema, pure Chomsky sbuca dai film per dircelo. Una “big tent” versione estrema, al centro accontentiamoci di una carezza

Natale non esiste, la festa in famiglia con le candele, le luci e i regali è un’altra, non c’entra con le renne né con il bambin Gesù: è il Noam Chomsky Day, la festa per il compleanno del linguista americano, intellettuale di riferimento delle sinistre radicali. Nel film di Matt Ross “Captain Fantastic”, il protagonista Ben Cash – interpretato da Viggo Mortensen – celebra il Noam Chomsky Day con i suoi sei figli, regala archi, coltelli, libri (“Joy of Sex”, alla più piccola, che avrà quattro anni), perché questi sono gli strumenti del loro sostentamento.

Le bolle liberali si concentrano nelle città, farle scoppiare è l’obiettivo della “big tent” rossa e nera. Ma sulle questioni identitarie non c’è gara

I Cash vivono in una foresta, hanno nomi “unici”, vanno a caccia per nutrirsi e per coprirsi, mangiano viscere calde di animali appena uccisi come rito di iniziazione, disossano carcasse, s’arrampicano su pareti rocciose e non possono scendere nemmeno se si spaccano un polso. Leggono i libri che papà impone, con un ritmo deciso da lui – segna ogni cosa sul suo taccuino, sorridendo compiaciuto – e suonano e cantano melodie da “Braveheart”. In questo mondo, Natale non esiste – le religioni non esistono – ma Noam Chomsky è una divinità da venerare, imparare a memoria e citare senza esitazioni né errori.

Quando i Cash devono scendere dalla montagna per un viaggio obbligato e doloroso capiscono di essere bravi a maneggiare il Bill of Rights con abilità e sono fieri di avere opinioni articolate su “Lolita” e sui “Fratelli Karamazov”, ma non sanno niente della vita, e piangono e soffrono e ridono e guardano i cugini in canottiera che giocano con i videogames come fossero mostri. Il suocero di Ben, Jack, incarna questa realtà, la nostra, simile a quella di chiunque non viva in un bosco: è presentato come un conservatore tradizionalista che pretende di ottenere la custodia dei nipoti per allontanarli da quel padre pazzo. Jack pensa quel che anche gli spettatori a tratti sono costretti a pensare: un padre che vive con i suoi figli in una foresta, si veste “come un pagliaccio”, è pericoloso. Quando chiede conto al genero dell’educazione che impartisce ai figli, Ben prova a spiegare, racconta i suoi principi, parla di Noam Chomsky, stiamo parlando di Noam Chomsky!, e Jack voltandogli le spalle dice: “Non so nemmeno chi sia”.

“Captain Fantastic” è uscito in America l’estate scorsa, nel mezzo della campagna elettorale americana, e recensendolo su Variety Owen Gleiberman ha scritto che il film rappresenta alla perfezione la trasformazione culturale in corso negli Stati Uniti: “La sinistra e la destra in America stanno ora proponendo differenti versioni dello stesso fervore anti establishment e ‘Captain Fantastic’ non soltanto riflette i due poli, ma li fonde assieme, utilizzando i sentimenti capovolti che ora guidano lo zeitgeist politico e culturale”. Gleiberman fa un elenco completo di quel che di destra e di sinistra c’è nel film, ogni personaggio riassume ispirazioni e tic considerati di entrambe le parti, perché, come dice il critico e come dicono molti commentatori, l’elettore di Donald Trump ha spesso più cose in comune con quello di Bernie Sanders rispetto a quanto entrambi gli elettori possono mai tentare di avere con Hillary Clinton.

Gli estremi si uniscono, a volte si fondono, e certo ci sono differenze – storiche, culturali, politiche – ma il fervore anti sistema ha finito per smussare molte separazioni: il rosso e il nero stanno benissimo assieme. Noam Chomsky resta come rappresentazione ultima dell’avvicinarsi e allontanarsi di questi due radicalismi – e non è soltanto fiction: il regista Matt Ross racconta che a casa sua il Noam Chomsky Day si festeggia davvero.

Non è fiction anche perché, nonostante le candele e i cartonati che suggeriscono altrimenti, Chomsky è vivo e vegeto, e stando a un racconto pubblicato da Repubblica, sarà a gennaio in Italia all’interno di un’iniziativa organizzata da quello che, in questo 2016 del fervore, è diventato un alleato, un sodale, un megafono europeo dell’intellettuale americano: Yannis Varoufakis. L’ex ministro delle Finanze greco, dopo aver lasciato il suo governo per lui troppo prono al compromesso con l’Europa, ha messo in piedi un progetto, Diem25, che ha l’obiettivo di federare movimenti e partiti che condividono la stessa lotta – contro le diseguaglianze e per un’Unione europea più democratica.

Il sodalizio tra Chomsky e Varoufakis nasce da una conversazione pubblica che i due hanno tenuto alla Biblioteca di New York nella primavera scorsa, in cui l’ex ministro ha spiegato al filosofo come funziona l’Europa, l’Eurogruppo, la troika e la Bce, mentre il filosofo ironizzava con riferimenti altissimi (c’è un passaggio molto divertente su Adam Smith che parlava alle nuove colonie americane “come l’Fmi parla ai paesi del Terzo mondo”) sull’inadeguatezza delle istituzioni, dei banchieri (Alan Greenspan che si è autolobotomizzato è un altro passaggio da non perdere), degli economisti che rifacendosi al modello capitalista – che pur non ha mai funzionato, hanno convenuto i due speaker – hanno rovinato aspettative, promesse e ambizioni di intere generazioni.

Il progetto politico di Varoufakis è di riformare la democrazia in Europa, con un movimento transnazionale che fa pressioni sul centro bruxellese perché sia costretto ad ascoltare le istanze locali e a rendersi più rappresentativo. Non è necessario andare al governo, anzi: spiegando a Chomsky che cos’è Podemos, il partito anti sistema spagnolo, Varoufakis dice che il gruppo ha potere in Parlamento ma non è al governo, e questo “è meglio, non è sempre utile essere al governo”.

Sarà che poi lì bisogna governare, appunto, che è materia diversa dal protestare, ma a Varoufakis al momento il dettaglismo dà fastidio, e secondo l’appello firmato anche da altri membri del “collettivo Diem25”, arriva in Italia perché “le energie liberate dal referendum devono essere la base su cui costruire qui quel terzo spazio che in altri paesi sta già nascendo: dal popolo di Sanders negli Stati Uniti, a Podemos e i movimenti locali in Spagna fino alle donne che riprendono le piazze in Polonia”. Questo movimento, secondo l’appello che si intitola “Il tempo del coraggio”, deve puntare all’egemonia nel dibattito ma senza fare da traino al centrosinistra, anzi la parola “sinistra” non viene mai citata: è la fusione di cui parla, tra le candele e i coltelli, “Captain fantastic”.

L’origine di queste nuove offerte politiche è l’implosione del cosiddetto centro, il deterioramento del modello liberale. Qualche giorno fa, due politici americani semi indipendenti, Joe Lieberman e Jon Huntsman, hanno pubblicato un appello dal titolo: “Un nuovo centro emergente”. I due guidano un’organizzazione che si chiama No labels che ha l’obiettivo di “forgiare un nuovo centro politico in America”, con un mix di ispirazioni e adepti a destra e a sinistra. Un processo di fusione è in atto anche in questo centro rimasto vuoto, insomma, e non è un caso che in Europa lo stesso progetto – “centro muscolare” si chiama da noi, che pure veniamo da Venere – sia portato avanti dall’ex premier britannico Tony Blair, già autore della celebre “big tent” che raccolse forze moderate, riformatrici e progressiste contro gli estremi. Il problema è che le tende più grandi ora sono agli estremi, e qui in mezzo si è rimasti orfani, di idee e di leader.

L’Economist, nel suo ultimo numero natalizio, pubblica un editoriale quasi commovente: i liberali hanno perso molte battaglie nel 2016 – scrive il magazine britannico – ma non devono sentirsi sconfitti, semmai rinvigoriti. Ripercorrendo la storia del liberalismo, tra successi, errori e un pizzico di fortuna, l’Economist conclude: “Questo giornale pensa che la Brexit e la presidenza Trump si dimostreranno con tutta probabilità costose e dannose. Siamo preoccupati del miscuglio odierno di nazionalismo, corporativismo e discontento popolare. Tuttavia il 2016 ha rappresentato anche una domanda di cambiamento. Mai dimenticare la capacità dei liberali di reinventarsi. Non sottovalutate lo slancio delle persone, incluse un’Amministrazione

La fine dell’ordine liberale è su tutte le copertine e il suo giovane cantore Mounk dice: “E’ una lotta per la sopravvivenza”

Trump e una Gran Bretagna post Brexit, di elaborare una via innovativa per uscire dai guai. Il compito è quello di controllare questa urgenza ansiosa, difendendo la tolleranza e l’apertura mentale, che sono le pietre portanti del nostro rispettabile mondo liberal”.

Commovente, no? Continuare a crederci, pur stando seduti mezzi soli nel vuoto del centro, è importante, ma la storia del fervore del 2016 racconta che questo slancio liberale si è disperso, e che non è affatto facile recuperarlo. Yascha Mounk, giovane ricercatore di Harvard che un paio di anni fa scrisse una biografia dal titolo “Strange in my own country” in cui raccontava la vita della sua famiglia ebrea in Germania, è diventato nell’ultimo anno molto popolare e citatissimo perché ha studiato e raccontato, con toni sovente apocalittici, l’implosione dell’idea liberale, la sua consunzione dopo gli anni dorati venuti con la caduta del Muro di Berlino. Mounk sta scrivendo per la Harvard Press un saggio dal titolo “The People versus Democracy: How the Clash Between Individual Rights and the Popular Will is Undermining Liberal Democracy”, frutto dei suoi studi e dei suoi commenti sull’ascesa dei populismi e sul deterioramento dell’idea liberale.

In un suo lungo articolo scritto per Slate a luglio, Mounk ha raccontato la settimana che, secondo lui, ha cambiato per sempre il mondo, condannando all’estinzione l’idea liberale: fa riferimento alla seconda settimana del luglio scorso, che descrive così: “A prima vista, ci sono una crisi istituzionale a Londra; un attacco terroristico a Nizza; un golpe fallito in Turchia; un pomposo oratore che sta per diventare il candidato repubblicano per la presidenza degli Stati Uniti d’America. Sembrano tutti eventi-culmine che vanno in onda su schermi molto diversi e poco connessi. Ai miei occhi però questi fatti sono sgargianti pezzi di vetro che costituiscono un unico, impressionante mosaico. Guardandoli dalla giusta distanza, questi pezzetti raccontano la storia di un sistema politico, la democrazia liberale, che ha a lungo dominato il mondo e che è ora nel mezzo di una battaglia epica per la propria sopravvivenza”.

Il ribaltamento dell’ordine liberale in seguito alla Brexit, alla vittoria di Trump, alla rinnovata alleanza con Vladimir Putin e all’ascesa di molti partiti in Europa uniti dal collante dell’euroscetticismo e del putinismo (oltre che dei soldi della Russia: ancora questa settimana i giornali francesi hanno raccontato del prestito di 30 milioni di euro da Mosca al Front national di Marine Le Pen e dell’inquietudine del dipartimento di stato americano) è su tutte le copertine internazionali. Foreign Affairs titola “Out of order” e spiega, con argomentazioni più o meno fortunate, come il modello liberale può continuare a reggersi, con qualche revisione. Il britannico Prospect fa l’epitaffio dell’“American Century”, nato nel 1917 e finito nel 2017, con l’ineffabile Francis Fukuyama a firmare l’atto di morte – lui è quello della “fine della storia” dell’inizio degli anni Novanta, in cui stabiliva che il modello liberale aveva vinto, per sempre.

Nel 2016 il tracollo dell’ordine liberale ha riguardato sia la destra sia la sinistra: Hillary Clinton, con la sua straordinaria sconfitta, incarna alla perfezione il decesso, ma anche la fine dell’èra Cameron nel Regno Unito, in seguito alla Brexit, ha segnato il collasso di una proposta liberale di destra. In Italia, la sconfitta di Matteo Renzi al referendum ha siglato non soltanto la battuta d’arresto di una forza riformatrice, ma anche la fusione del rosso e del nero, un’alleanza anti progressismo – anti liberale – che ha messo insieme la Lega nord e il Movimento 5 Stelle.

Come ci si orienta in questo mondo che s’è capovolto? In Francia, dove si vota ad aprile per le presidenziali, la decisione è imminente. A gennaio ci sono le primarie del Partito socialista (a destra il candidato è il liberale putiniano François Fillon), ci sono nove candidati, ma la sfida ideologica – escludendo gli outsider come l’ex ministro dell’Economia Emmanuel Macron che corre in proprio – si gioca su due figure: l’ex premier Manuel Valls e l’ex ministro dell’Economia Arnaud Montebourg. Il primo

In Francia alle primarie socialiste si vedrà quanto la sinistra vuole avere “intelligence de l’inquiétude”

incarna il modello liberale, è uno che ha provato a riformare la Francia con non troppa fortuna – la presidenza del tentennante François Hollande, autoesclusosi per il momento dalla corsa, non ha aiutato – e che considera il termine “socialista” obsoleto per un partito progressista di sinistra.

Il secondo è al contrario un gran sostenitore di nazionalizzazioni e di interventi statali, dialoga con Varoufakis, è molto amico di Thomas Piketty, l’economista francese che più di ogni altro ha spiegato ed evangelizzato l’occidente sui danni irreversibili del capitalismo e sulla retorica della diseguaglianza.

Montebourg e i suoi alleati spiegano la loro strategia con termini molto semplici: di fronte all’avanzata della destra populista che individua nel discontento dei cosiddetti “dimenticati” l’elettorato prevalente non si può rispondere con una proposta socialdemocratica consumata dal tempo e dagli errori. Bisogna rispondere con la stessa politica, con la stessa retorica, elaborando un’offerta keynesiana, interventista, di protezione sociale che parli, da sinistra, agli stessi cuori.

Nel Regno Unito alle prese con i tormenti della Brexit lo scontro da destra e da sinistra sullo stesso terreno è già in atto. Il Labour di Jeremy Corbyn al momento rappresenta al meglio – in un partito storico, non in un movimento neonato, e in un partito che da anni fa da faro alle sinistre europee – lo spostamento dal centro verso il radicalismo, con toni che spesso non stonerebbero nei comizi del partito indipendentista Ukip. Corbyn è protezionista, anti libero mercato, contro lo strapotere centrale, che in Europa è Bruxelles (con buona pace per la vocazione europeista del Labour), contro la City, contro l’un per cento, a favore della Russia e per il declassamento della Nato. Si dirà: e l’immigrazione? Non è questo il grande tema che divide il radicalismo di destra da quello di sinistra? Certo: la sinistra è orogliosa del multiculturalismo, dell’integrazione, del potere dato alle minoranze. Ma se si va a guardare nel concreto quel che dicono i corbyniani sul tema dell’immigrazione si scopre che anche questo Labour accarezza l’idea di una Brexit che imponga una restrizione alla libera circolazione. Non si parla di muri – i muri, la sinistra pur lontana dal centro vuole comunque abbatterli – ma nelle pieghe del pensiero laburista si sente forte la minaccia, economica in particolare, dell’immigrazione. Non è un caso che la Brexit sia stata votata in molte roccaforti industriali e laburiste del paese, da un elettorato che ha smesso di sentirsi protetto dal potere centrale e dalle idee europeiste del proprio partito.

Paul Nuttall, il nuovo leader dell’Ukip che sostituisce il ben più celebre Nigel Farage, ha utilizzato il suo primo discorso per fare un appello agli elettori storici del Labour e convincerli ad andare con l’Ukip, in nome del voto sulla Brexit ma anche di una comunanza sempre più evidente su altri temi, in particolare il protezionismo e la sfida ai centri di potere delle metropoli, che in questi ultimi anni hanno iniziato – almeno nel mondo anglosassone, noi abbiamo Roma in preda ai Cinque stelle – a simboleggiare il modello liberale, la politica dei professionisti, il mondo disprezzato degli esperti. A Londra, che vive nel rigurgito anti Brexit, è accaduta una cosa che in quasi tutto il resto del Regno Unito avrebbe portato la gente in piazza con i forconi: il sindaco laburista Sadiq Khan, che non è affatto un blairiano ma ha rapporti tesi (o forse assenti) con Corbyn, ha nominato nella commissione che gestirà nella capitale la questione Brexit Lord Mandelson, l’architetto del New Labour, un liberale di professione dalla popolarità vicina allo zero.

 


Una scena di Grand Budapest Hotel di Wes Anderson


 

Queste bolle liberali (anche soltanto in parte liberali: ormai ci si accontenta di poco, la barra s’è molto abbassata) sono l’obiettivo finale dei rossi e dei neri. Le modalità di guerra possono essere diverse, ma le distanze sono sempre minori. Jan-Werner Müller, professore di Princeton, ha scritto un libro – “What is Populism?” – per stabilire la definizione del populismo, un termine così abusato (sì, avevamo promesso anche noi di non utilizzarlo più, ma è per capirci) che rischia di perdere il suo significato.

Müller è convinto che accomunare Bernie Sanders e Donald Trump, due facce dello stesso populismo, sia banale e falso, cioè rifiuta in parte quel concetto di fusione tra il rosso e il nero che sembra prendere forma a livello elettorale. Secondo Müller il populismo ha tre caratteristiche: i populisti sono contro le élite, cioè dichiarano battaglia alla leadership culturale e politica costituita; i populisti sono anti pluralisti, perché si rifanno soltanto a un’unica voce, che è quella del popolo; il populismo infine è “esclusorio”, nel senso che “il popolo” è un gruppo che via via va circoscrivendosi. Magari all’inizio si pensa che il popolo sia la working class bianca o un altro gruppo preciso di “dimenticati”, ma poi il popolo si riduce ai sostenitori del leader. Se non fai il tifo per il capo, scrive Müller, sei “non autentico, un traditore”: “Questo è il cuore del populismo: soltanto alcuni del popolo sono il vero popolo”. Secondo tale definizione, Bernie Sanders rispecchierebbe soltanto la prima di queste caratteristiche, laddove invece – per quel che abbiamo potuto vedere, s’intende: l’empirismo con Trump sta inevitabilmente allargandosi, quello con Sanders riducendosi – rimarrebbe da parte sua una vocazione plurale e popolare ben più spiccata.

Se da un punto di vista accademico, il rosso e il nero restano due mondi distinti, nella realtà i punti di contatto sono molti. Si potrebbe parlare del referendum italiano sulla Costituzione, per raccontare i tentativi di fusione à la “Captain Fantastic”, ma conosciamo l’obiezione: non era una questione prettamente ideologica, era tatticisimo di opposizione a Renzi. Ma guardando la discussione in corso sull’articolo 18 , i voucher e il Jobs Act, si intravvede già la stessa dinamica: dalla Cgil, che ha prensentato i quesiti e le firme per organizzare il referendum, alla Lega tutti uniti per affossare la riforma.

Durante la campagna elettorale americana il rosso e il nero si sono talmente avvicinati da arrivare – scusate l’immagine – a sbaciucchiarsi. Bernie Sanders, campione della rivolta anti establishment da sinistra, con le sue piazze giovani e allegre, i suoi occhiali neri a simboleggiare un popolo che aveva finalmente trovato il suo leader, ha detto candidamente in alcune interviste di avere molti punti in contatto con Donald Trump. L’ha detto lui. Il protezionismo è un collante enorme: che sia determinato dalla paura dello straniero, che sia invece dettato dalla critica alla globalizzazione e ai suoi effetti distorsivi sul benessere mondiale (s’arricchiscono sempre i più ricchi!), l’esito è lo stesso. Chiudiamoci dentro, pensiamo a noi, lasciamo il resto del mondo fuori, che badasse un po’ da solo a se stesso.

In Europa protezionismo ed euroscetticisimo sono diventati un unico progetto, che comprende chiunque non sia nel cosiddetto centro. Nichi Vendola, dell’ormai ex Sel, ha detto che “se il compito della sinistra è quello di fare l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo, si vede bene che la parola sinistra non ha più ragion d’essere”. Bisogna mettere al centro la parola “alternativa” e portarla al governo.

Donald Trump, che di questa trasformazione è l’araldo, non è collocabile nell’ortodossia di un partito. Durante la campagna elettorale era più a sinistra di Hillary sui temi sociali, e più a destra (di molti repubblicani anche) sull’immigrazione. Mettere un’etichetta a Trump, al di là della formalità dell’essere un presidente repubblicano, sarà un’impresa difficilissima, proprio perché lui rappresenta la “big tent” che occupa oggi uno spazio enorme – tutto tranne che il centro striminzito. Con le prime nomine il neopresidente ha già fatto intendere quanto grande è il suo raggio d’azione: ci sono milionari, ci sono ex di Goldman Sachs (al punto che le sinistre radicali inorridite già mettono in copertina, vedi Libération in Francia, la Casa Bianca ostaggio dei banchieri, manco fosse stata eletta Hillary), e ci sono anche gli ultraprotezionisti. Nei tempi scenici decisi da Trump, è questo il loro momento: Peter Navarro, docente e imprenditore noto per la sua battaglia contro la Cina nominato zar del commercio, è la sintesi di questo ultimo atto. Navarro, che già nel marzo scorso si era schierato a favore di Trump, è definito “un falco con la Cina”, ha scritto libri sulla guerra con i cinesi e su YouTube si può vedere un suo documentario sulla filosofia della guerra commerciale alla Cina (s’intitola “Death by China”) in cui si parla dei dazi al 45 per cento per i prodotti cinesi – cifra già dichiarata anche dallo stesso Trump che ora vuole allargare la policy a tutti i beni di provenienza straniera.

C’è un altro dettaglio interessante nella storia di Navarro: ha provato più volte a intraprendere una carriera politica in California, a cominciare dagli anni Novanta, candidandosi per il Partito democratico (senza fortuna, e moltissimi soldi spesi, suoi). Oggi Navarro dice: “Sono un Reagan-Trump democrat abbandonato molto tempo fa dal mio partito su economia, commercio e politica estera”.

A tenere insieme queste tende apparentemente lontane sono, come si è detto fino allo sfinimento, rabbia e discontento. In “Necessary Trouble”, un libro pubblicato in estate, Sarah Jaffe racconta la rinascita e il rinvigorimento dell’attivismo, della protesta, dell’azione diretta, analizzando piazze diverse. La somiglianza tra quel che si dice nei consessi dei Tea parties e in quelli di Occupy Wall Street è straordinaria: il pubblico è molto diverso, per età soprattutto, e anche le dinamiche di partecipazione lo sono, ma i messaggi sono estremamente simili. Secondo Jaffe, il populismo tradizionale è stato costruito attorno alle paure dell’“uomo bianco”, ma la protesta si è allargata e ha coinvolto tutti i “dimenticati”, rimasti esclusi sia dal cosiddetto populismo di destra sia delle corporazioni, complice l’esplosione dell’ingiustizia economica.

Noam Chomsky, dialogando con Varoufakis, ha spiegato perfettamente gli anelli di congiunzione di questo attivismo allargato e trasversale: “Uno dei momenti più interessanti della storia recente è stato il 2008. Per decenni gli economisti hanno sostenuto con arroganza estrema di aver compreso in modo completo come controllare e gestire l’economia. C’erano principi fondamentali, come l’ipotesi del mercato efficiente, delle aspettative razionali, e chiunque non li condividesse era trattato come un imbecille. Poi è collassato l’intero sistema, l’intero edificio intellettuale è andato giù in modo straordinario e non c’è stato nessun effetto sulle professionalità”. Gli esperti che non capiscono niente, i ricchi che non pagano per le loro responsabilità: non sembra tutto molto trumpiano?

Il grande quesito è come reagire, perché Tony Blair segnala un punto importante quando dice che il populismo a sinistra non ha alcuna speranza di sconfiggere il populismo a destra. Se si gioca sullo stesso terreno, la versione tradizionale allargata – grazie anche a Trump – a un elettorato più ampio è ben più radicata e forte rispetto a quella di sinistra, perché sulle questioni identitarie la gara non c’è. Poiché il punto è proprio questo, fornirsi di nuova sicurezza e protezione attraverso un’identità definita, è naturale che il multiculturalismo liberal risulti meno accattivante rispetto al nazionalismo proteggiamo-i-nostri-interessi dei conservatori.

E’ anche vero che sistemarsi al centro, riformulando un’offerta liberale, è oggi molto rischioso, elettoralmente e ideologicamente: bisogna fornire davvero un rinnovamento, quello che secondo l’Economist è il combustibile del liberalismo. Ma come, e soprattutto con chi? E’ più naturale allora che la sinistra tenti la strada del radicalismo, organizzandosi attorno a leader riconosciuti a livello internazionale e proponendo un’offerta keynesiana venata, in Europa, di euroscetticismo.

In una conversazione sul Point, il sociologo Jean-Pierre Le Goff e il saggista Gilles Finchelstein hanno ragionato su come possa essere la sinistra oggi, in vista anche del primo appuntamento-resa dei conti delle primarie socialiste di gennaio. Il primo sostiene che il “gauchismo culturale” dei radicali di sinistra ha tradito la vocazione di sinistra di rappresentare il popolo (non vuole sentir parlare di populismo di sinistra!), mentre Finchelstein pensa che il problema della sinistra sia il rifiuto di affrontare le questioni legate all’identità. E aggiunge che la sinistra potrebbe resistere al populismo, ma per farlo dovrebbe avere “l’intelligence de son inquiétude”, dovrebbe comprendere l’inquietudine, immagine bellissima di cuori infranti e vite precarie da provare a guarire.

Il compito è difficile, e l’inquietudine è grande, ma per non rimanere soffocati dai toni apocalittici bisogna leggere qualche passaggio de “Il mondo di ieri” di Stefen Zweig. Si dice che in Europa lo stanno rileggendo tutti – così scrive la rubrica Charlemagne dell’Economist – perché Zweig era un europeista convinto negli anni in cui l’Europa affrontava due guerre e nascevano forze destabilizzanti che avrebbero distrutto il progetto europeo oltre che il mondo. Zweig si suicidò con i barbiturici assieme a sua moglie nel febbraio del 1942, il giorno dopo aver finito di scrivere la sua ultima opera, “Il mondo di ieri” appunto. Zweig, che è tornato di nuovo citatissimo dopo che Wes Andersen ha detto di essersi largamente ispirato alle opere di questo scrittore austriaco nella realizzazione di “Grand Budapest Hotel”, criticava l’incapacità dei leader europei di comprendere la realtà circostante e i pericoli nascenti, visibilissimi e ignorati. Ma il suo pensiero oggi sa essere dolce come una carezza: “Persino dall’abisso dell’orrore in cui cerchiamo di trovare la nostra strada oggi – scriveva Zweig – mezzi ciechi, con i nostri cuori distrutti e infranti, guardo e riguardo le costellazioni antiche che hanno illuminato la mia infanzia, e mi conforto con la fiducia innata che ho sul fatto che, un giorno, questa ricaduta apparirà soltanto un intervallo nel ritmo eterno del progresso che guarda sempre in avanti”.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi