Anche i gelati e i panettoni sono finiti per un certo periodo nelle partecipazioni statali, attraverso la Sme, azienda dell’Iri

Allegria, torna lo stato

Stefano Cingolani

Sfascio dopo sfascio, eccoci di nuovo ai salvataggi. Dal Monte dei Paschi all’Ilva a Mediaset, tutti a invocare un intervento del governo. Con i soldi pubblici, va da sé

Le banche sono in crisi? Nazionalizziamole, a cominciare dal Monte dei Paschi di Siena. L’Ilva non la vuole nessuno? La confischi lo stato. Mediaset è sotto attacco di Vincent Bolloré? Intervenga il governo, sì, anche questo arriva a dire chi avrebbero voluto fare a pezzi il Biscione come se fosse un’anguilla. Il monitoraggio annunciato dal ministro Carlo Calenda non basta. In fondo lo stato faceva i panettoni quando controllava Motta e Alemagna, perché non potrebbe produrre cinepanettoni? Un tempo c’era lo stato salvatore, la forma più antica che risale a ben prima dell’unità d’Italia, poi è arrivato lo stato produttore che non piaceva alla Destra storica e divenne il cavallo di battaglia della Sinistra crispina. Lo stato sovventore si estende con Giolitti il quale fa i primi passi anche nel welfare state (si pensi all’Ina) trasformato poi da Mussolini nello stato assistenziale. Lo stato azionista è figlio della Grande depressione e passa pari pari nell’èra democristiana quando si è materializzato lo stato padrone, variante meridionale dell’Etat Patron tanto caro a Charles de Gaulle, e al suo piccolo emulo Amintore Fanfani. L’idea statalista in economia è di volta in volta scesa sottoterra e salita in superficie, come un fiume carsico, assumendo fattezze diverse, in un percorso lungo ormai oltre un secolo e mezzo.

Adesso, dopo circa trent’anni trascorsi negli anfratti cavernosi, zampilla di nuovo. Non sarà più l’opprimente Leviatano di un tempo, forse oggi lo stato è piuttosto un mutevole camaleonte. In attesa di capire che forma prenderà questa volta, può essere utile ricostruire il romanzo di una idea che resiste a tutto, anche al proprio funerale. Le banche sono l’alfa e l’omega dell’intervento pubblico. E se oggi c’è tutta questa spinta per far rientrare dalla finestra lo stato, la colpa è di come è uscito dalla porta. Facciamo un balzo al 1990 mentre la Prima Repubblica emana i suoi rantoli. Allora, alle banche sotto il controllo pubblico facevano capo il 60 per cento del denaro raccolto tra la clientela e il 64 per cento degli impieghi. I primi cinque gruppi avevano un ruolo dominante: il 58 per cento dei depositi presso le banche pubbliche, il 60 per cento degli impieghi e il 57 per cento dei dipendenti. Un forte processo di concentrazione, dunque, che lasciava fuori una fetta minore di risparmio per gli istituti di credito privati e cooperativi. Il manipolo dominante, per quanto grande sul mercato domestico, era un nano all’estero. Le dimensioni del San Paolo di Torino, che occupava il primo posto in Italia, erano un terzo della maggiore banca europea, la Deutsche Bank.

 

Non solo. Il sistema era oberato da crediti in sofferenza che a fine 1996, quando era in corso il processo di privatizzazione, aveva raggiunto la cifra di 120 mila miliardi di lire (circa 62 miliardi di euro), se si aggiungono anche i prestiti incagliati si sfiora un importo pari alla metà complessiva del patrimonio delle aziende di credito. Una situazione non molto diversa da quella attuale, anche se nel frattempo è passata la più grave e lunga recessione del Dopoguerra. In sostanza, lo stato banchiere non ha dato una grande prova: ha lasciato banche inefficienti, senza un’adeguata solidità patrimoniale. Erano troppo protette per fallire, vero; anche se la proprietà pubblica non le metteva al riparo, come dimostra il crac del Banco di Napoli. Il 30 luglio 1990, in piena canicola estiva, il governo presieduto da Giuliano Amato interviene con una legge, firmata insieme al ministro del Tesoro Guido Carli, che riforma il sistema, cambia la normativa bancaria introdotta nel 1936 e dà il la alle privatizzazioni. In realtà è una vendita a metà perché le azioni passano alle fondazioni di origine bancaria, il cui patrimonio è formato soprattutto dagli enormi beni, in particolare immobiliari, delle banche stesse. Dunque, per molti versi rientra dal basso la mano pubblica (con un forte potere dei comuni e degli enti locali) uscita dai piani alti occupati dagli emissari del governo centrale.

Carlo Azeglio Ciampi limita nel 1998 le quote che le fondazioni possono detenere nelle banche da loro controllate, ma negli anni successivi questa regola, resa via via più restrittiva, verrà rispettata solo a piccole dosi. La Fondazione Monte dei Paschi, per esempio, non la segue affatto, mantenendo la maggioranza assoluta della propria banca. Le nuove norme in ogni caso sbloccano quella che era stata chiamata la “foresta pietrificata”: in venti anni avvengono 300 fusioni bancarie che portano alla formazione di gruppi più grandi (si pensi a Intesa o Unicredit). Il 2007, poi, è segnato dalle operazioni di gran lunga maggiori: i matrimoni tra Intesa e Sanpaolo, tra Unicredit e Capitalia, tra Montepaschi e Antonveneta (infauste nozze il cui prezzo è ancora da pagare). Non manca nemmeno l’intervento estero: la Bnl finisce al Bnp, al Crédit Agricole va il gruppo costruito attorno alla Cassa di Risparmio di Parma, tanto per fare due esempi.

Nonostante ciò, in Italia esistono ancora 650 banche, le più grandi sono ancora troppo piccole su scala europea, le sofferenze sono aumentate e il capitale non è sufficiente. Enrico Cuccia aveva stilato nel 1997 una nota anonima su come affrontare i problemi del credito. Contrario al ruolo dominante delle fondazioni, consapevole che in Italia mancavano non solo i capitali, ma anche i capitalisti (li chiamava “imprenditori bancari”), mentre i gruppi industriali presenti nell’azionariato concepivano l’attività bancaria come “ancillare” ai loro affari, il fondatore di Mediobanca propose che fosse il Tesoro ad acquisire, pagandole con titoli di stato, le azioni in mano alle Fondazioni, comprese le quote della Banca d’Italia detenute dai singoli istituti. Tutto questo doveva servire a rafforzare la dotazione patrimoniale delle aziende che a quel punto potevano essere cedute interamente sul mercato. Il ricavato sarebbe servito unicamente a ridurre il debito pubblico. L’entità della operazione richiedeva che si procedesse per tappe: “Dovrà essere privatizzato integralmente un istituto per volta”, creando un “nucleo duro” di azionisti, sul modello francese. “La privatizzazione non è fine a se stessa – scriveva Cuccia – il suo conseguimento deve essere inteso come l’unico percorso possibile per correggere i mali di cui soffre il sistema bancario italiano: basso livello di redditività; dimensioni troppo contenute; necessità e urgenza di costruire strutture bancarie in grado di contenere il rischio che le maggiori banche stabilite in Italia finiscano con il risultare le filiali o le affiliazioni di grandi banche estere”.

Questo sistema creditizio tanto fragile è diventato così dominante nel fornire i fondi a famiglie e imprese, anche per colpa di una nazionalizzazione, anzi la Nazionalizzazione per antonomasia, quella dell’energia elettrica. Gli impianti posseduti da una potente oligarchia, gli elettrici che avevano un ruolo dominante nell’industria e nella finanza dalla seconda metà dell’Ottocento, vennero trasferiti a un nuovo ente pubblico (l’Enel). Fu pagato un cospicuo volume di indennizzi, in rate semestrali nel corso di dieci anni, con interessi sulle quote da ricevere conteggiati al 5,5 per cento. “Quella legge eliminò una buona quota del capitalismo privato basato sulla Borsa valori, che era nato tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento a opera delle grandi banche miste. Le società indennizzate si fecero trovare impreparate all’appuntamento e, il più delle volte, impiegarono i soldi ricevuti in iniziative sfortunate” (Fulvio Coltorti, “I settant’anni di Mediobanca”, Nuova Antologia). La principale di queste fusioni riguardò nel 1966 la Montecatini e la Edison. L’operazione fu un colossale fallimento che coinvolse anche Mediobanca entrata in ballo in un primo tempo come consulente. La nazionalizzazione era il pegno da pagare per l’ingresso del Psi al governo. Lì per lì aveva trovato scettico anche Vittorio Valletta che pure si era molto speso per “la svolta a sinistra” facendo da sponda al suo vecchio amico Giuseppe Saragat, che aveva fondato il Psdi spaccando il Partito socialista nel 1947 ed era diventato presidente della Repubblica nel 1964.

Cuccia propose che gli azionisti delle società elettriche conferissero i titoli a un fondo gestito da Mediobanca e dalle principali banche italiane, per alimentare gli investimenti industriali. Il “primo impiegato della Fiat”, come si definiva il presidente e dominus indiscusso, avrebbe preferito una formula simile a quella dell’Iri. Anche l’Istituto per la ricostruzione industriale era nato per salvare le banche e le imprese che avevano in pancia. L’intreccio con l’industria modello bismarckiano era diventato uno stato di necessità frutto del salvataggio di “pochi incapaci industriali” come disse in Senato nel 1935 il finanziere Vittorio Cini. In realtà i salvataggi, cresciuti a dismisura in tutti gli anni Venti quando l’industria italiana si era riconvertita a fatica dalla guerra ai compiti di pace, toccavano il nerbo dell’imprenditoria italiana. Le banche miste erano ormai vere e proprie holding di partecipazione, “le loro difficoltà nascevano da quelle delle imprese non in grado di rimborsare il loro debito e a fortiori di rimborsarlo” (Pierluigi Ciocca, “Storia dell’Iri”).

A dipanare la matassa, Mussolini aveva messo Alberto Beneduce, matematico ed economista, ex socialista riformista, seguace di Francesco Saverio Nitti, gran massone, non iscritto al Partito fascista. Nel 1931 la Banca Commerciale, la maggiore delle banche miste che aveva in portafoglio il meglio dell’industria italiana, dall’acciaio all’automobile, era sull’orlo dell’insolvenza e il suo presidente Giuseppe Toeplitz fu costretto a recarsi con il cappello in mano a palazzo Venezia per chiedere l’intervento dello stato. E’ il punto di svolta che vedrà nascere l’Iri nel 1933, uno strumento temporaneo per liberare le banche delle loro partecipazioni, oltre che fornire capitale pubblico agli stessi istituti (Comit, Credito Italiano e Banca di Roma). Nel 1937 diventa permanente. E nel Dopoguerra si trasforma nel braccio economico dei governi, insieme all’Agip (poi diventata Eni), nelle mani di Enrico Mattei. La Fiat di Valletta, in rottura con l’atteggiamento prevalente nell’industria privata, fa da sponda (si pensi alle autostrade per fare un esempio) contribuendo a creare una sorta di nucleo oligarchico al comando dell’industria e dell’economia che dura fino agli anni Settanta, quando le partecipazioni statali, guidate da un apposito ministero, diventano “partecipazioni partitiche”, perdendo a mano a mano la loro natura tecnocratica e finendo nel manuale Cencelli della lottizzazione: l’Iri alla Dc, l’Eni diviso tra sinistra democristiana e Partito socialista, l’Efim al Partito socialdemocratico. Nemmeno il Partito comunista resta del tutto fuori: importanti economisti, ingegneri e “intellettuali organici” popolano i pensatoi e gli uffici stampa degli enti e delle imprese pubbliche (Felice Balbo all’Iri o Mario Pirani all’Eni, per citare due personalità spiccate quanto diverse del policromo universo del comunismo italiano).

A quel punto, sotto i colpi della crisi petrolifera che infrange l’età dell’oro inaugurata dal piano Marshall, e delle lotte sindacali che fanno impennare i salari, lo stato diventa ospedale: a fare da infermiere saranno le banche e le imprese pubbliche. Quando nel 1992 crolla la lira e con essa l’intero sistema politico-economico, arriva la resa dei conti. L’Iri, finanziato dal Tesoro con i quattrini dei contribuenti, coprendo le perdite a pie’ di lista e rifornendolo ogni anno di capitale sotto forma di fondi di dotazione, ha accumulato deficit e debiti non più sostenibili. Il dibattito sulle privatizzazioni è infinito, sempre carico di acrimonia e di polemica politica. Una svendita; lo spettro del Britannia dove le grandi banche d’affari anglo-americane si spartiscono i gioielli dell’Italia industriale; gli appetiti dei governi e dei partiti, anche quelli nuovi sorti dalle ceneri della Dc, del Psi, delle formazioni centriste o del Pci. Difficile ancor oggi dare una valutazione non partigiana. L’unica cosa certa è che, con un debito pubblico balzato al 120 per cento del prodotto lordo e pressoché raddoppiato in una dozzina di anni, lo stato padrone non aveva più i mezzi per pagare gli stipendi. E oggi, ce li ha i mezzi per far fronte alla crisi delle banche, specchio deformato di una metamorfosi profonda e strutturale? E gli uomini, le idee, le strategie?

Al sistema bancario mancano i due pilastri che lo hanno sostenuto per decenni: Mediobanca come ponte con il capitalismo privato (quando raggiunse il culmine nel 1988 controllava pacchetti strategici in Generali, Cartiere Burgo, Fiat, Gemina, Olivetti, Italmobiliare, Fondiaria Assicurazioni, Mondadori, Montedison, Pirelli, Snia Bpd) e la Banca d’Italia come regolatore pubblico. “L’italianità delle principali imprese non è mai stata messa in discussione nell’era Cuccia – ricorda Coltorti –. Da un lato, la stessa funzione di Mediobanca nello stabilizzare gli assetti di controllo comportava la non vendita allo ‘straniero’, dall’altro lato l’uscita di una grande impresa dall’Italia avrebbe comportato la perdita di un cliente importante a favore di un gruppo bancario estero”. Adesso questa funzione non esiste più (ormai l’unica partecipazione davvero rilevante è quella delle Assicurazioni Generali). E nel frattempo Via Nazionale ha ceduto gran parte della sua sovranità a Francoforte, cioè alla Banca centrale europea. La perdita delle due protezioni istituzionali non sarebbe certo un male se avesse conquistato spazio la regolazione determinata dal mercato. Ma non è andata così. A questo punto, il problema non riguarda i soldi (ce ne sono davvero tanti, anzi troppi in giro per il mondo alla ricerca di impieghi profittevoli e strategici), né gli uomini (anche se oggi le migliori menti finanziarie sono disabituate a ragionare nel lungo periodo); riguarda la politica, non lo stato come apparato burocratico che non si potrà mai sostituire alla banca e all’impresa, ma chi tiene il timone e conosce la rotta.