Matt Damon sarà la star di “The Great Wall”, film di ambientazione storica dedicato alla Grande Muraglia, in uscita a metà dicembre

Hollywood a Shanghai

Eugenio Cau

Caccia al segreto per fare un film che piaccia ai cinesi. La disfida cinematografica tra le potenze

Potremmo chiamarlo il paradosso di “Warcraft”, il kolossal hollywoodiano con un budget da 160 milioni di dollari in cui cavalieri e mostri combattono per salvare il loro mondo fantasy. Se non avete mai sentito parlare di “Warcraft”, nonostante l’enorme spesa sostenuta dalla casa di produzione Legendary Entertainment e il grande sforzo pubblicitario profuso quest’estate nella promozione del film, siete giustificati. “Warcraft”, tratto dall’omonima serie di videogiochi, è stato un flop gigantesco. La critica lo ha stroncato quasi unanimemente come uno dei peggiori film della stagione (quando non lo ha ignorato senza pensarci), e al botteghino è stato un flop ancora peggiore. Nella prima settimana d’uscita negli Stati Uniti, “Warcraft” ha guadagnato la miseria di 24,4 milioni di dollari, e in totale sui mercati americano e canadese ha incassato 47,2 milioni. Qui in occidente, ce ne siamo dimenticati tutti senza patemi. Ma in Cina, “Warcraft” è stato un’altra cosa. Soltanto nella prima settimana, il film ha incassato 157 milioni di dollari, uno dei migliori esordi della storia del mercato cinematografico cinese. Mentre gli occidentali lo snobbavano, i cinesi erano così ansiosi di vedere “Warcraft” che il film ha infranto tutta una serie di record di prevendite, ed è stato proiettato nel 62,8 per cento delle sale di tutta la Cina: un altro record. Soltanto nella prima settimana, ha incassato in Cina più degli incassi totali dell’ultimo film di “Star Wars”, una produzione magniloquente per cui sono stati spese decine di milioni di dollari di marketing in tutto il mondo. Se uno guarda “Warcraft”, capisce bene perché pubblico e critica occidentali l’hanno snobbato. Come si legge sulla recensione di Variety, che ha definito il film “inguardabile”, “Warcraft” è “intimamente ridicolo” nella misura in cui non riesce a trarre una trama accettabile da un videogioco che una trama accettabile non l’ha.

Ma allora perché in Cina ha avuto tanto successo? Alcuni cercano di spiegare la popolarità del film con la popolarità del videogioco, i cui iscritti sono in calo in occidente ma fedeli e appassionati in oriente. Questo può spiegare parte dell’attesa, ma non un successo così straordinario: se il film è brutto, gli appassionati del videogioco dovrebbero boicottarlo. Ma per qualche ragione, ai cinesi “Warcraft” è piaciuto. Il film è riuscito a penetrare, per volontà o per caso, in quell’arcano via via più irrisolvibile che per Hollywood sta diventando il mercato dell’entertainment in Cina. Le ragioni per cui Hollywood vuole entrare nel mercato cinematografico cinese sono evidenti. Gli incassi al botteghino in Cina crescono a un tasso annuale del 34 per cento, sono cresciuti del 49 per cento nell’ultimo anno, e nonostante una battuta d’arresto negli ultimi mesi dovrebbero superare quelli americani entro l’anno prossimo. Attualmente in Cina ci sono circa 35 mila sale cinematografiche, ma secondo gli imprenditori del settore questo numero salirà a 80 mila nei prossimi anni – il doppio esatto delle 40 mila sale americane, dove i cinema anziché aprire chiudono. Come in molti altri business, la Cina è una miniera d’oro per le imprese occidentali. Ma come in molti altri business, la Cina è un mercato ostico, difficile da penetrare ma soprattutto difficile da comprendere nelle sue dinamiche intime. Hollywood ci sta provando a invadere la Cina, eccome.

 

 

I produttori da anni cercano di ingraziarsi il pubblico orientale, spesso facendo giocare alla Cina o a personaggi cinesi il ruolo dell’eroe. Si prenda per esempio “The Martian”, film dell’anno scorso con Matt Damon in cui l’agenzia spaziale cinese appare quasi dal nulla verso la fine del film e salva la giornata – la captatio benevolentiae in quel caso fu così sfacciata che, riportano alcuni media locali, gli spettatori cinesi al cinema si misero a ridere davanti a una genuflessione così esagerata da risultare comica. Nella versione distribuita in Cina del terzo capitolo della saga di “Iron Man”, è un medico cinese ad aprire la strada del protagonista verso il lieto fine. Sempre Matt Damon sarà la star di “The Great Wall”, un film di ambientazione storica dedicato alla Grande Muraglia ma… con i mostri. A volte i tentativi di ingraziarsi la Cina sono più politici. Nell’ultimo campione del box office, “Doctor Strange”, un personaggio che nel fumetto originale era un monaco tibetano è stato ripensato per sfuggire le ire di Pechino, che sulla questione tibetana è da sempre molto sensibile. A questo si aggiungono infiniti tagli di scene che per un pubblico cinese possono risultare controverse. Ormai tutti i kolossal, senza eccezioni, quando non sono filocinesi sono quanto meno “chinese neutral”. Il problema è che, nonostante l’aumento degli sforzi, le grandi produzioni americane perdono terreno.

“In più di un caso negli ultimi anni le grandi produzioni statunitensi sono state battute al botteghino perfino da film low cost ma interamente di produzione cinese”, dice al Foglio Airaldo Piva, amministratore delegato per l’Europa di Hengdian Group, conglomerato cinese attivo in diversi settori ma famoso in tutto il mondo per i suoi giganteschi studios cinematografici, i più grandi del mondo, che hanno valso alla cittadina omonima di Hengdian, a sud di Shanghai, il titolo di “Chinawood”. Hengdian Group ha iniziato il suo percorso nel mondo del cinema con gli studios, ma poi si è espanso in tutta la filiera, fino a diventare produttore di film e terzo gruppo in Cina per quantità di sale cinematografiche gestite. Le difficoltà che Hollywood incontra nel penetrare nel mercato cinese derivano certo dalle misure di protezionismo economico e culturale che la Cina comunista applica a molti campi sensibili. Gli studios internazionali possono esportare in Cina solo 34 film all’anno (la quota è stata alzata nel 2012: prima erano 20), e secondo un sistema di condivisione degli incassi che dà alla produzione straniera il 25 per cento dei profitti. Molti ritengono che questa quota sarà presto alzata (già quest’anno il governo ha lasciato che nelle sale cinesi arrivassero 38 film, quattro più del previsto), e bisogna considerare che le coproduzioni con le case cinesi non devono rispettare il tetto dei 34 film, ma il limite rimane stringente.

L’ostacolo più grande per la penetrazione di Hollywood in Cina è però culturale. “Negli ultimi anni l’audience cinese è molto cambiata”, dice Piva. “Una volta il consumatore cinese era estremamente affascinato dai prodotti di Hollywood, bastava Tom Cruise per assicurare il successo di un film. Negli ultimi anni, invece, si è sviluppata una nuova cinematografia cinese, che spesso produce film più leggeri, ma dal sostrato culturale omogeneo e autoctono. Con il tempo, il pubblico ha iniziato a preferire i film cinesi ai kolossal stranieri”. I film americani costituiscono ancora circa il 40 per cento degli incassi al botteghino in Cina, ma questa cifra è in calo drastico rispetto agli anni scorsi. Questo fenomeno fa parte di un paradigma culturale più ampio. Nuove forme di orgoglio cinese si stanno innestando nella produzione culturale e non solo. E’ in quest’ottica che il governo ha lanciato l’anno scorso un piano per trasformare entro il 2025 il ‘made in China’ in un marchio mondiale di eccellenza, e non di prodotti poco costosi e scadenti. L’incapacità di comprendere l’ampiezza del divario culturale spesso porta al secondo errore di valutazione delle case di Hollywood in Cina, che è il tentativo di massimizzare i profitti creando prodotti che vadano bene sia per il mercato occidentale sia per quello cinese, impresa che finora non è riuscita a nessuno. Come dimostra il paradosso di “Warcraft”, i film di successo in Cina sono un flop in occidente, e viceversa.

“E’ un errore di approccio comune. Il principio del ‘one size fit all’ non funziona bene in questo business”, dice Piva. “I produttori continuano a pensare che esista un intreccio miracoloso che vada bene per entrambi i mondi. Ci sono troppe differenze di sensibilità, di tempi e di modalità di fare business. Piuttosto, quando si progetta un prodotto è meglio cercare di puntare solo su un mercato principale, le coproduzioni al 50 per cento hanno scarse possibilità di successo”. E’ una lezione, questa, che non vale solo per il cinema. Grandi player del mondo del business come Uber sono dovuti uscire sconfitti dal mercato cinese, cacciati da compagnie locali meglio collegate e più abili nel comprendere le dinamiche interne. Le stesse difficoltà di Apple a sfondare nel mercato cinese sono segno di due mondi che fanno fatica a incontrarsi, e che piuttosto si allontanano: l’iPhone in Cina non è più lo status symbol di qualche anno fa. Questa difficoltà di penetrazione è spesso reciproca – sono molte le compagnie cinesi la cui struttura, pensata per aver successo localmente, rende difficile l’esportazione in occidente –, ma sembra non valere, almeno a livello di consigli di amministrazione, per il mercato cinematografico. Se Hollywood non fatica ad ampliare le sue posizioni in Cina, la Cina sta certamente entrando a Hollywood.

Il protagonista qui si chiama Wang Jianlin, da poco riconfermato l’uomo più ricco di Cina. Wang è il fondatore e presidente di Dalian Wanda, un conglomerato che opera tra gli altri nei settori immobiliare, del commercio al dettaglio, del turismo e dell’entertainment. Da qualche tempo, armato di un gruppo che quest’anno ha fatto 43 miliardi di dollari di entrate, Wang si è lanciato in una guerra sacra di conquista delle sei grandi major di Hollywood (Universal, Disney, Warner Bros., Fox, Sony Pictures, Paramount). Il suo intento, dichiarato esplicitamente, è quello di acquistarne almeno una, e diventare una potenza mondiale dell’entertainment. Nell’attesa, a partire dal 2012 Wang ha lanciato una campagna acquisti laterale ma impressionante. Ha comprato per 2,6 miliardi di dollari le quote di maggioranza della catena di cinema AMC Theatres, poi quest’anno ha acquistato per 3,5 miliardi la casa di produzione Legendary Entertainment (che non a caso è dietro tanto a “Warcraft” quanto a “The Great Wall”) e gli studios televisivi della Dick Clark Productions per un miliardo di dollari, deal annunciato questo mese. In un’intervista di qualche giorno fa a Hollywood Reporter (una delle tante: Wang sta lanciando una grossa charme offensive sui media americani) il presidente di Wanda ha detto che, se non sarà possibile acquisire una grande major, allora il suo gruppo comprerà quote in tutte e sei, per massimizzare la propria influenza. La scorsa primavera, dopo aver aperto un gigantesco parco a tema in Cina, Wang ha anche lanciato la sfida a Disney, dicendo che “l’èra in cui tutti seguivano senza pensarci Paperino e Topolino è finita”.

Anche un altro multimiliardario cinese, il fondatore e presidente di Alibaba, Jack Ma, ha ambizioni su Hollywood. La sua Alibaba Pictures, creata un paio di anni fa dopo l’acquisto di una serie di case di produzione in Cina, ha investito milioni nella coproduzione di alcuni grossi kolossal, come l’ultimo “Star Trek” e l’ultimo “Mission: Impossible”, e il mese scorso ha annunciato un accordo per la distribuzione in Cina dei film della casa di produzione di Steven Spielberg, Amblin Partners (la vecchia Dreamworks). Tutto questo interesse dei cinesi per Hollywood ha in alcuni casi lusingato gli studios, che trattano Wang e Ma come nuovi principi, ma allarmato la politica. Per decenni, Hollywood è stata l’arma più potente del soft power americano, il veicolo attraverso cui l’american way of life si è propagato nel mondo – e con esso il business e i valori promossi da Washington. Per l’America, essere terra di conquista di un nuovo soft power, differente e per certi versi più inquietante, in un momento in cui il proprio, per ragioni di protezionismo e di divario culturale, fa fatica a penetrare nel paese più popoloso del mondo, è al tempo stesso una sorpresa e una minaccia. E’ celebre il discorso del 2014 con cui il presidente cinese Xi Jinping ha esortato i membri del mondo dello spettacolo cinese a “mettere pienamente in pratica la politica artistica del Partito” comunista. Più di recente, questo mese, il Congresso cinese ha approvato una legge a lungo studiata in cui bandisce i film che mettono a repentaglio “la dignità, l’onore e gli interessi” della Cina, e incoraggia la cinematografia che promuove “i valori socialisti”.

Molti osservatori temono che le case di produzione cinesi, abituate alla propaganda di Pechino, una volta sbarcate a Hollywood si trasformino in un cavallo di Troia per il soft power cinese. A ottobre 16 membri del Congresso americano (a cui si è aggiunto in seguito Devin Nunes, il capo della commissione Intelligence della Camera) hanno scritto una lettera allarmata all’Accountability Office del governo per chiedere che le “istituzioni del ‘soft power’” rientrino nel campo strategico della sicurezza nazionale, riportando così in vita meccanismi vigenti durante la Guerra fredda. Ma finora – hanno notato gli esperti – eccezion fatta per alcune produzioni sfacciatamente di propaganda, l’influenza dei “valori comunisti” nella cinematografia cinese è difficile da notare. Il campione del box office di quest’anno, per esempio, è un film su un’affascinante sirena. Alla fine, è l’idea degli analisti del settore, se anche un imprenditore cinese dovesse conquistare una delle “big six” il suo obiettivo principale sarebbe il guadagno, non la propaganda rossa. 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.