I cavalli di Gustavo Aceves per l’imponente installazione scultorea “Lapidarium”: a Roma, fino all’8 gennaio nell’area archeologica che va dall’Arco di Costantino alla piazza del Colosseo e fino ai Me

Cavalli di storia e di luce

Giuseppe Fantasia

Da Berlino a Roma le grandi sculture mutilate di Gustavo Aceves. Accanto al Colosseo una processione silenziosa che richiama le diaspore dell’antichità e le migrazioni d’oggi

Per Jonathan Swift, irlandese di nascita, pastore anglicano e sferzante polemista settecentesco, i cavalli sono esseri saggi e molto intelligenti che vivono in una società affidabile e pacifica basandosi su un sofisticato metodo di comunicazione. Nella sua opera più conosciuta, “I viaggi di Gulliver”, dedica loro la quarta e ultima avventura del protagonista, quella meno letta nelle scuole, e li chiama “Houyhnhnms”, evidenziandone la superiorità rispetto a quegli “esseri brutali e selvaggi” che ospitano nelle loro terre – denominati “Yahoos” - uguali e identici di aspetto fisico agli esseri umani che disprezzano e sfruttano. Fidato destriero in battaglia, strumento di lavoro, mezzo di trasporto, compagno inseparabile nei viaggi, emblema universale di forza e di bellezza, di nobile fierezza, di purezza e di libertà, il cavallo è stato una presenza essenziale sia nella cultura nomade che in quella stanziale, simbolo di uno status sociale oltre che un fattore determinante nella creazione di imperi. I cavalli di Gustavo Aceves – artista messicano conosciuto principalmente per i suoi potenti dipinti figurativi che si rifanno alla tradizione pittorica classica usando scala monumentale e colori forti – pur riferendosi anche agli antichi monumenti equestri, non celebrano mai alcuna virtù o vittoria e sono invece condannati all’immobilità, perché non hanno le zampe e sono trasportati su simboliche intelaiature di imbarcazioni. Sono feriti, sono pieni di cicatrici e dentro di sé portano relitti e corpi di migranti. Sono sculture di enormi dimensioni, alte dai tre agli otto metri (in alcuni casi lunghe persino dodici), realizzate nei materiali più diversi, dal bronzo al marmo, dal ferro al legno, persino in travertino e in resina. A loro è dedicato un intervento monumentale di scultura contemporanea ideato dall’artista stesso, un percorso ospitato fino all’8 gennaio prossimo nell’area archeologica più suggestiva di Roma, quella che va dall’Arco di Costantino alla piazza del Colosseo e che arriva ai Mercati di Traiano.

 

 

Si chiama “Lapidarium” ed è un progetto in divenire che durante il suo tour intorno al mondo crescerà di tappa in tappa fino a comprendere ben cento opere differenti. Nel 2014 c’è stata la presentazione in anteprima a Pietrasanta – la cittadina toscana dove Aceves ha scelto di vivere – cui è seguita l’inaugurazione ufficiale a Berlino l’anno successivo di fronte alla Porta di Brandeburgo, dove ventuno cavalli con cicatrici e ferite creavano un netto contrasto con le figure trionfali della quadriga di Joann Gottfried Schadow e si ergevano come un duro monito degli orrori della Seconda guerra mondiale e di ogni guerra passata e futura. Nei prossimi mesi seguiranno altre tappe, tra cui Venezia, Istanbul e Parigi, per finire nel 2018 nella grande piazza Zócalo, a Città del Messico. Le sculture singole esposte a Roma in questa particolare e ipnotica mostra a cielo aperto curata da Francesco Buranelli, sono esattamente il doppio di quelle della rassegna berlinese e portano con sé un carico enorme e antichissimo di dolori, soprusi e sconfitte. Quello di Aceves è sì un lapidario, ma che ben si distingue dai luoghi così chiamati dalla museografia moderna. “Non si tratta solo di un insieme di pietre mùtile, ma di un’imponente processione di più di cento sculture di cavalli che avanzano inesorabili verso di noi, trasportati ciascuno da uno scheletro di imbarcazione”, spiega il curatore. “Sono figure volutamente incomplete e frammentarie, di sapore archeologico, come se il tempo e gli eventi le avessero consumate e logorate”, aggiunge. Ognuna è, contemporaneamente, uguale e diversa dalle altre e tutte portano impresse sul corpo inequivocabili richiami alla storia passata e presente dell’umanità, dei frammenti di storia da leggere come le antiche pagine di pietra dei lapidari museali.

“Mi sono ispirato alla Quadriga di San Marco, a Venezia, senza dimenticare il celebre e mai realizzato cavallo di Leonardo da Vinci per Francesco Sforza e il leggendario cavallo di Troia, ma l’idea iniziale la ebbi alcuni anni fa lungo le rive del fiume Niger, in Africa, avendo di fronte la difficile vita di centinaia e centinaia di persone che ogni giorno subivano soprusi e violenze da parte del potere, costrette a migrare affrontando innumerevoli difficoltà”, spiega Aceves al Foglio. “Da quel momento ho sentito in me come un cortocircuito fra il presente e il passato, fra le tragiche migrazioni di oggi e le diaspore dell’antichità e ho voluto rendere il tutto proprio con queste mie sculture”. I suoi, dunque, sono dei cavalli che arrivano per mare, che approdano nel Nuovo mondo, il Messico, a bordo dei galeoni spagnoli solo all’inizio del XVI secolo, considerati dagli Aztechi come dei mostruosi essere soprannaturali capaci di seminare morte e distruzione. “Grazie al timore suscitato da questa credenza, ma soprattutto grazie a un armamentario decisamente superiore fornito delle prime armi da fuoco, fu facile ad Hernàn Cortés, in nome di Carlo I, Re di Spagna, iniziare nel 1519 la conquista dell’impero Azteco e sconfiggere Montezuma”, fa notare Buranelli nel catalogo di questa mostra (Palombi Editore) che ha “Incontro di culture” come significativo sottotitolo.

L’inaudita crudeltà e violenza della conquista spagnola, mai venuta meno nell’immaginario collettivo dei messicani, riemerge dunque dal profondo dei ricordi ancestrali di Aceves, quando pone il cavallo su una simbolica intelaiatura di imbarcazione a ricordo dei galeoni spagnoli e della conquista del centro America, ma anche nell’immagine della canoa indigena del Niger e dei barconi naufragati nelle acque del Mar Mediterraneo. Oltre adessere senza zampe, i suoi cavalli hanno un corpo scomposto in più parti e hanno marchiato sulla pelle un’inquietante sequenza di numeri che, oltre a evocare la crescente spersonalizzazione del mondo globalizzato, non può non far pensare ai codici di riconoscimento impressi sulla pelle di milioni di prigionieri nei lager nazisti. Molto particolari sono poi i colori dei diversi materiali utilizzati per la loro realizzazione – fa notare sempre Buranelli – colori che assumono un preciso significato in quanto “divengono il riferimento topografico più evidente per identificare i mari attraversati dalle migrazioni storiche”. C’è il Mar Mediterraneo, il Mare Nostrum degli antichi Romani o il Mare Bianco dei Turchi e degli Arabi, meta e salvezza per i molti profughi alla ricerca dell’altra sponda, che si assimila con i cavalli bianchi. C’è il Mar Rosso, quello che si aprì agli ebrei nel loro cammino verso la Terra promessa, che si ritrova nei cavalli rossi fusi nel ferro ossidato e – ancora – il Mar Morto – senza onde e senza vita – espresso dai cavalli verdi fusi in bronzo e patinati – per finire con il Mar Nero, un mare dai profondi fondali rocciosi che ha visto il passaggio delle più antiche migrazioni da e per l’oriente, rappresentato dal cavallo nero fatto con materiali poveri e grezzi arrivati dal mare.

“Lapidarium” è la rilettura di “un nuovo lessico che inizia con la A di antisemitismo e la B di barbarie per finire con la X di xenofobia”, precisa Aceves. “La mia è una lunga cavalcata, per mare e per terra, simbolo della vita e della morte che si rincorrono senza confini di spazio e di tempo con una umanità sofferente che porta al suo interno una personale esperienza, un diverso sentire, che – passo dopo passo – altro non è che il ciclo della vita che si compone e si disfa”. Ad accompagnare e a documentare l’opera scultorea, troverete anche la mostra fotografica di Gabriela Malvido, moglie dell’artista, e un video di Jose Botaya sui tanti naufragi e sui riscatti di come gli emigranti, una volta riusciti a raggiungere l’altra sponda, siano riusciti a riemergere dall’abisso della vita integrandosi nel mondo occidentale. Una mostra imperdibile che inquieta e attrae, che stupisce e affascina e che muove le coscienze, un itinerario da seguire a vostro piacimento, lasciandovi guidare solo dalle vostre emozioni, dove le sculture rappresentano un frammento della storia dell’umanità necessario per non dimenticare gli orrori commessi nel passato, un monito a non ripeterli più, un monumento attraverso il quale rinascere migliori. 

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