Massimo D'Alema (foto LaPresse)

La partita tra Renzi e D'Alema è tutta una questione di tempo

Mario Sechi

Così rischia di dissolversi l'ultimo grande partito italiano del Novecento, tra chi vorrebbe dilatare il tempo e chi invece preferirebbe tagliarlo

 

Presentazione del Signore (Festa della Candelora).

 

Scontro tra titani(c).  What is left? E’ stato lo slogan pensoso e pomposo di molti dibattiti sulle varie “cose” della sinistra in tutto il mondo. In Italia la faccenda dal 1989 – crollo del Muro, Achille Occhetto, buchi nelle bandiere, svolta per nessun dove della Bolognina -  interessa parecchio gli esperti di neuropsichiatria. L’ultima puntata del Game of Thrones della Garbatella - topos del racconto in progress, dal brutale Nanni Moretti ai più sofisticati Cesaroni – ha come protagonisti Matteo Renzi e tu quoque Massimo D’Alema. Il primo vuole votare, il secondo sabotare. Matteo desidera giocare l’all-in, Massimo è uno specialista del buio, il segretario fa wrestling, il rottamato fa l’ape sul ring. Questo scontro tra titani(c) sta distruggendo l’ultimo partito del Novecento che era rimasto semi-in-piedi in Italia. La seduta di autocoscienza demolitoria non è più sul governo del paese, il suo destino eccetera ma su quanta sabbia sia rimasta dentro la clessidra per fissare la data del voto. E’ tutta una questione di tempo. Sopravvivenza e mors tua vita mea. Più tempo per Renzi significa più logoramento, più tempo per D’Alema significa più energia (denaro) e organizzazione per fare la scissione. Renzi vuole tagliare il tempo, D’Alema lo vuole dilatare fino a farlo diventare proustiano, un tempo perduto. In entrambi i casi siamo ormai al tempo perso perché la scissione in queste condizioni sta per diventare un esito obbligato, un dato strutturale, una rovina. Il Pd con l’uscita di D’Alema, Bersani e gli altri perderebbe voti e avrebbe di nuovo l’ennemi à gauche in fase Dracula, non potrebbe neppure lontanamente centrare l’obiettivo 40 per cento (mission impossible già adesso) e sarebbe certamente battuto dal Movimento 5 Stelle di Grillo che diventerebbe il primo partito d’Italia. Anche in caso di voto alla coalizione, saremmo in presenza di piccole galassie, tutte minacciate dalla presenza di un pianeta con una enorme forza gravitazionale, sempre i 5 Stelle. La (dis)soluzione della crisi nel Partito democratico fa da specchio per il centrodestra, dove anche in presenza di coalizione – e senza un robusto premio di maggioranza – non ci sarebbero i numeri per governare e tutto incoraggia alla corsa solitaria per poi contarsi in un secondo momento. A quel punto, in pieno clima tropicale, tra le piante carnivore della Prima Repubblica, immersi in un proporzionalismo senza partiti, il Movimento 5 Stelle divenuto primo partito ha il diritto di esprimere un presidente del Consiglio e trovare degli alleati. Con le mani libere, tutto è possibile e la logica degli affini conduce dritti a un esisto da sottosopra. Gli elettori di Grillo, Salvini, Meloni e della stessa Forza Italia, si scambiano le figurine dei candidati (è già ampiamente successo alle amministrative), sono già più avanti dei loro leader che in queste condizioni non hanno nient’altro da fare che diventare followers della loro massa e cliccare “mi piace”. Su cosa? Il governo sovranista a Palazzo Chigi. Questo non è un incubo né un fantascenario, è l’incidente nucleare che si apre se il segretario del Pd perde la valigetta con i codici di lancio e una parte del suo esercito si ribella. D’Alema e soci non hanno i numeri per vincere, ma possiedono quelli sufficienti per far perdere. La situazione ricorda quella in cui si trovò Napoleone a Waterloo nel 1814, Bonaparte prima di muover battaglia disse: “Wellington è un pessimo generale. Prevedo la vittoria entro l'ora di pranzo”.

 

Giornali italiani. Sono il batiscafo che s’immerge nello sprofondo del Belpaese. Sui quotidiani il bollettino è appunto quello di una guerra. Il primo caffè se ne va con il Corriere della Sera, che titola con il solito brio da marcia funebre: “La battaglia nel Pd sul voto”. Per la serie, frasi argute e memorabili, ecco l’incipit di Massimo Franco: “L’impressione è che la situazione stia sfuggendo di mano”. L’impressione?  Repubblica dà una sverniciata allo storytelling della felicità contabile e apre così: “Sui conti l’Italia non convince la Ue. Napolitano: sbagliato votare subito”. L’unico giornale a diffusione nazionale piazza un uno due di realtà, due righe di titolo d’apertura, due fatti che danno la misura della crisi aperta nel Pd (e nel paese) dal no al referendum costituzionale lo scorso 4 dicembre. Tutti i contributi al minimalismo post voto se ne vanno in fumo, puf! Il Fatto Quotidiano traduce la situazione così: “Arrenditi Matteo, sei circondato”. David Allegranti sul Foglio è sintonizzato sulla stazione di Radio Rignano, onde cortissime: “Assedio a Renzi”. Libero salta direttamente il voto e arriva alle conclusioni: “Ci manca un ducetto”, occhiello: “Dopo il voto ci aspetta il caos”. La Verità allarga la faccenda all’Europa attaccata alla canna del gas: “Che cosa fare se l’Euro si frantuma”. La Stampa apre sulla lettera spedita dall’Italia alla Commissione europea, la lettera è una non-risposta, non c’è un numero ma certificata la fase del salto nel buio: “L’Italia all’Ue, correggeremo i conti”. Per fortuna c’è Marcello Sorgi che sferruzza con pazienza sicula un pezzo di analisi politica sulla “Strana alleanza per le urne”, cioè quella tra Renzi, Grillo e Salvini, tre che insieme possono stringersi la mano e trenta secondi dopo pugnalarsi alle spalle. Sul Giornale l’apertura è davvero off-topic, ma in compenso c’è un intelligente pezzo di Alessandro Gnocchi sul dilagante uso a sproposito della parola maledetta dei nostri tempi: “Populista, l’insulto jolly”. Mi hai fregato la paghetta, populista! Il vocabolo ora è usato anche nel commento delle sentenze, è atteso il suo sbarco a MasterChef per un ingresso nel lessico degli unici intellettuali che vendono libri in Italia, i cuochi.  E’ l’ora di un caffè ar vetro e Il Messaggero, titolo d’apertura: “Corsa al voto, guerra nel Pd”. Sì, ma ne notizie ne abbiamo? Certo, l’oroscopo di Branko: “Leone, sviluppi molto positivi”. Sul Mattino c’è la fase iper-suk: “Caos Pd, l’offerta di Renzi”. In prima sul quotidiano di Napoli c’è un patchwork di nera e bianca con un dizionario da paura: “listopoli”, “maxi-inchiesta”, “cyberbulli”, “pistola”, “armi”, “tomba”, “blitz”. Sembra di stare in un noir a Marsiglia, tra le nebbie del porto. Dal Profondo Nord, il Gazzettino sull’ultimo ritrovato di ingegneria costituzionale all’italiana: “I nuovi Venetisti. Secessione? No, decolonizzazione”. Premio la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo assegnato di diritto alla protagonista di questo titolo in prima pagina sulla Gazzetta del Mezzogiorno: “Eredita tre miliardi di lire, non può cambiarli in euro”. Termini scaduti. Come l’Italia. Il titolare di List va all’estero. Dove? Nell’unico posto dove stanno facendo davvero la rivoluzione, in America.

 

Trump, la tv e i democratici. Volete una foto precisa della crisi del partito democratico e una cifra del fenomeno Trump? Eccola, il grafico di Bloomberg sugli ascolti televisivi realizzati durante la diretta della nomina del giudice della Corte Suprema Neil M. Gorsuch, un fatto certamente importante, ma non il SuperBowl:

 

 

Trump l’altro ieri ha battuto l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione di Obama e ha battuto anche se stesso negli ascolti tv di quando condusse la prima stagione di The Apprentice. Piaccia o meno, The Donald è un fenomeno di pop-politica formidabile.

 

P.S. Il segretario di Stato Rex Tillerson ha passato l’esame del Senato. Faceva il petroliere, al Dipartimento di Stato finalmente c’è uno che sa cos’è la geopolitica.

 

Hanno perso la Casa Bianca. E anche la testa. Si parlava di guerra civile americana ieri a Mix24 con Giovanni Minoli e Pietrangelo Buttafuoco e ops! eccola: al direttore di Breitbart News, il giornale da cui proviene il consigliere strategico di Donald Trump, Steve Bannon, è stato impedito di partecipare a una discussione pubblica organizzata dall'Università di Berkeley. Milo Yiannopoulos è stato oggetto di una durissima contestazione da parte di manifestanti di sinistra. Risultato: evento cancellato, botte, feriti, incendi. La democrazia e il free speech valgono solo quando vincono loro.

 

Le perdite di Deutsche Bank. Il colosso finanziario della Germania paga i costi delle cause aperte dopo la crisi dei mutui subprime di cui Deutsche ha sulle spalle emissioni tossiche per 7.2 miliardi. Risultato nel quarto trimestre: una perdita netta da 1.9 miliardi di euro.

 

I ricavi di Facebook e i giornali. Segnaliamo il tripudio con cui i giornalisti scrivono sui risultati economici di Facebook. Sembrano quasi azionisti. Il social network ha realizzato il record di ricavi nel trimestre, 8.8 miliardi di dollari, derivanti all’84 per cento dalla pubblicità su piattaforma mobile. Tripudio. Che bravi. Siamo di fronte a un oligopolio che sta distruggendo il mercato dell’informazione e il dibattito civile. Ma ormai è chiara la deriva, Zuckerberg, uno che ha in mano le vite pubbliche e private di 1.9 miliardi di persone, pensa di correre alle presidenziali americane nel 2020. I democratici, i progressisti, gli illuminati, hanno trovato l’esito finale della loro storia per la libertà: applaudire come scimmiette ammaestrate l’incubo del totalitarismo orwelliano.

 

2 febbraio. Nel 1989 finisce l’invasione sovietica dell'Afghanistan: l'ultima colonna blindata di Mosca lascia Kabul.

 

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