Vincent Bollorè (foto LaPresse)

Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi

Mediaset, Unicredit e la sconfitta del capitalismo italiano

Mario Sechi

Il tema centrale è la debolezza del sistema industriale italiano e la visione da spaghetti e mandolino della sua classe politica

San Giovanni della Croce, dottore della Chiesa

E’ tornata la realtà. A passo di carica. Mentre la Camera vota la fiducia al governo Gentiloni – in uno scenario deprimente e rabbioso, antipasto della campagna elettorale – il treno della contemporaneità sferraglia. E’ l’accelerazione della storia. In Italia un paio di fatti ne segnalano il passaggio, il nuovo paesaggio, l’inesorabile legge del cambio di marcia. La lettura mattutina del titolare di List lascia sul taccuino una nota: “Lex Column, apertura della sezione Companies & Markets, pagine 14 e 18, Unicredit e Mediaset. Zero righe sul nuovo governo”. Questo è il punto, la crescente irrilevanza del potere politico italiano rispetto allo scenario contemporaneo, la velocità dei fatti e la lentocrazia del Palazzo. I fatti. Unicredit ha presentato il suo piano di ristrutturazione dove c’è tutto quello che si mette in forno in questi casi: tagli al personale (14 mila posti di lavoro in meno), ricapitalizzazione (13 miliardi), ristrutturazioni e cessioni (Pekao e Pioneer, per ora); Vincent Bolloré ha avviato una scalata a Mediaset che certifica un cambio di stagione definitivo, frutto di velocità e capacità di leggere contesto e occasione. Il marchio francese in entrambe le operazioni (a guidare Unicredit c’è Jean Pierre Mustier) è stampato a fuoco e al di là della polverosa retorica sul capitalismo patriottico, il tema centrale è la debolezza del sistema industriale italiano e la visione da spaghetti e mandolino della sua classe politica. Bolloré ha piazzato il colpo operando sul mercato, sfruttando con grande abilità il vuoto di potere a Palazzo Chigi (Renzi out), con una rapidità che ha colto tutti di sorpresa, tanto da far dire al Financial Times che è “troppo veloce per Silvio Berlusconi”. Vero. Il piano del bretone però non è solo accelerato, è un’idea che ha una logica industriale. L’operazione di Unicredit gode dello stesso scenario da vuoto di potere e perenne sonnecchiamento post-prandiale. Un paese che gira vorticosamente. A vuoto. Chiuso il referendum del 4 dicembre, spento l’amour fou per il renzismo, la situazione è così confusa da diventare eccellente per i raiders con un disegno in testa. Unicredit il 5 dicembre annuncia il negoziato in esclusiva con i francesi di Amundi per la cessione di Pioneer (e Poste finisce spiaggiata), l’8 dicembre ufficializza la vendita di Bank Pekao, il 12 dicembre arriva l’annuncio della sottoscrizione di un accordo vincolante con Amundi per la cessione di Pioneer. Strike. Oste, cos’altro bolle in pentola? Il prossimo passo è l’aumento di capitale di Unicredit e la mossa attesa, pardon, è quella di Société Générale. Mettete nel mazzo di rose parigino il controllo di Generali e Telecom e il quadro apparirà chiaro: la sconfitta del capitalismo italiano, la resa del suo immaginario, sul piatto del giradischi parte il refrain, “sul ponte sventola bandiera bianca” (Franco Battiato). Restano sul campo da gioco solo un paio di campioni nazionali che devono difendersi con le unghie e con i denti: l’Eni che ha cambiato marcia con Claudio Descalzi fino a diventare leader mondiale nel settore dell’esplorazione Oil & Gas; l’Enel che con Francesco Starace ha un piano basato su tre pilastri, efficienza, crescita e semplificazione; Leonardo (ex Finmeccanica) che con Mauro Moretti ha centralizzato le operazioni e tagliato i costi, ma opera in uno scenario internazionale che, dopo l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, imporrà un ridisegno della strategia nel settore della Difesa. Sono aziende quotate, autonome, ma pur sempre a partecipazione pubblica. Dovrebbero avere alle spalle un paese ben guidato, ordinato, con una visione del futuro, una politica estera creativa e coraggiosa, i conti a posto. Esattamente quello che manca all’Italia. Il passaggio da predatore a preda è questione di un attimo. In uno scenario da guerra dei titani, pieno di rischi e opportunità, i prossimi dieci mesi (siamo ottimisti, dai) saranno dominati dall’incertezza: un governo depotenziato e transeunte, un Parlamento balcanizzato, una campagna elettorale permanente. A bordo del Titanic si leva una voce: dov’è il salvagente?

 

Che cosa è successo? E’ il disordine mondiale. L’ultimo numero di Foreign Affairs è dedicato a quello che un tempo si chiamava ordine mondiale. Come sanno i lettori di List, non c’è più. La serie di saggi proposti dalla rivista è come sempre molto interessante, Richard N. Haass, propone un nuovo set di regole (e sarebbe ora) e obblighi internazionali per evitare che qualcuno troppo grande (e troppo armato) vada a correre da solo nella prateria. L’idea che Trump sia un taglio netto rispetto al passato è chiara tutti, la soluzione verso il Nuovo Ordine Mondiale 2.0 però non c’è. The Donald evoca a molti lo scenario degli anni Trenta e in parte questo elemento c’è – la crisi della classe media e soprattutto una strana, tagliente inquietudine provocata dallo smarrimento del contemporaneo - ma la storia nei suoi cicli non torna tutta uguale. C’è altro, qualcosa che al momento non è chiaro. Il direttore di Foreign Affairs, Gideon Rachman giunge a una conclusione: “Viviamo tempi interessanti”. Fin troppo. Ma il quadretto italiano com’è? Un paio di flash, seguite il titolare di List.

Sommersi e salvati. Il piano di Unicredit è stato ben accolto dal mercato e per Monte dei Paschi se piove c’è l’ombrello dello Stato. Forse il salvagente non serve (ma non mollate la scialuppa). E tenete d’occhio i credit default swap:

Gentiloni. Cerca il voto di fiducia del Senato. Intervento alle 13. Fermate l’entusiasmo.

Renzi. Doveva preparare congresso e primarie tout de suite, ma se leggete MTM (Maria Teresa Meli) sul Corriere della Sera, sembra che Matteo voglia rallentare. E’ in stato confusionale.

Berlusconi. Agenda: prima c’è Bolloré, poi la legge elettorale.

Salvini. Ha una soluzione per tutto, un genio in felpa. Unicredit ristruttura? Ci pensa Matteo, direttamente dalla sua pagina Facebook.

Non ci avevate pensato? Che torni la lira! E anche il George Soros che nel 1992 attaccò la nostra moneta costringendo la Banca d’Italia a vendere 48 miliardi di dollari di riserve per sostenere il cambio. La lira uscì dal sistema monetario europeo, il governo Amato fu costretto a una manovra da 93 mila miliardi di lire. Cinque mesi prima ci fu il prelievo forzoso dai conti correnti. Un mondo ideale. Certo, anche allora era tutta una cospirazione, ordita a bordo del Britannia.

TrumpBump. Oggi Donald Trump incontra i titani della Silicon Valley. Non hanno votato per lui, lo detestano, ma tutti quelli che contano ci saranno. Risultato: i FANGs (Facebook, Apple, Netflix e Google) ieri hanno capitalizzato 26.6 miliardi in più. Ah, l’indice Dow Jones sta per toccare il record di sempre: 20 mila punti. Si chiama TrumpBump.

Consiglio europeo. Si tiene domani, Politico ha un’anticipazione del draft finale. Cosa c’è di concreto? Niente. Anzi, l’Italia chiederà più unione bancaria in Europa. E la Germania dirà no.

14 dicembre. Nel 1856 viene aperto il casinò di Montecarlo.

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