La sede di Unicredit a Milano (foto LaPresse)

Perché la “francesizzazione” della finanza passa da Unicredit

Marco Cecchini

Il secondo istituto italiano per dimensione potrebbe diventare il caso del 2017. Ieri intanto è stato concluso l’accordo per la cessione di Pioneer alla francese Amundi

Roma. Quando il gatto non c’è, come si dice, i topi ballano. Non solo Monte dei Paschi. Non è solo la banca più antica del mondo a sfidare a duello il futuro e a tenere sotto pressione il sistema finanziario italiano. Mps è il problema più urgente. Unicredit, secondo istituto italiano per dimensione, potrebbe diventare il caso del 2017, anche se per motivi parzialmente diversi dalla necessità di coprire in tutta fretta i buchi di bilancio. Per Mps il problema è evitarne la risoluzione, nome garbato che le nuove regole europee hanno dato al fallimento; nel caso di Unicredit la questione numero uno, per ora, è quella della retrocessione a semplice distributore di prodotti finanziari altrui e, in prospettiva, il tema dell’italianità. Etichetta forse inelegante ed economicamente scorretta, ma politicamente realistica. Perché sarà anche vero che il mercato è sovrano ma quando si parla di grandi banche e assicurazioni, vale a dire delle casseforti del risparmio, il discorso si complica.

Può il governo restare indifferente alle vicende di Unicredit? E che influenza può avere nelle decisioni un esecutivo come l’attuale che deve sostanzialmente guidarci alle elezioni? In un paese come l’Italia, le fasi di crisi della politica e i governi di traghettamento aprono opportunità di incursione a colossi bancari e assicurativi. La sera del 4 dicembre ai piani alti del grattacielo di Société Générale nel quartiere parigino della Defense avranno sorriso.

Secondo voci mai smentite la seconda banca francese punterebbe a una integrazione con Unicredit, integrazione che date le dimensioni relative degli interessati (Société Générale è due volte e mezzo Unicredit) non lascia dubbi su chi prenderebbe il bastone del comando. Vero? Falso? Nessuno sa esattamente quale sia il futuro dell’istituto milanese. Può darsi che i rumors in circolazione sul mercato non abbiano fondamento, anche se non manca qualche indizio come la complementarità tra i due istituti, il passato in Société Générale dell’amministratore delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier, e un anno fa la nomina a presidente della banca francese di Lorenzo Bini Smaghi, ex membro italiano del board della Banca centrale europea.

Domani l’ad Jean Pierre Mustier, ex di Société Générale (SocGén), chiarirà alla comunità degli investitori la sua strategia e fornirà i dettagli dell’aumento di capitale che intende lanciare per mettere in sicurezza l’istituto gravato da una massa di crediti in sofferenza. L’aumento ammonterebbe a circa 13 miliardi di euro, secondo le indiscrezioni. Una cifra così elevata da far pensare che dietro l’operazione ci sia una capacità di fuoco finanziario come quella di SocGén. Fondati o no che siano i rumors, nella seconda banca italiana sembra iniziato un processo involutivo dagli sbocchi incerti. Ieri è stato concluso l’accordo, preannunciato lo scorso lunedì a risultati del referendum acquisiti, per la cessione di Pioneer alla francese Amundi, invece che alla cordata Poste-Cdp-Anima. Pioneer è una società di gestione del risparmio che amministra un cospicuo magazzino di titoli di stato italiani e che Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan non gradivano cadesse in mani straniere. I ben informati dicono che Amundi ha una proiezione nordamericana e quindi drenerà il risparmio italiano per investimenti oltreoceano. Considerando che Mustier ha venduto pure la controllata polacca Pekao, Unicredit s’avvia a diventare un distributore di prodotti fabbricati altrove, una posizione non esaltante.

Secondo alcuni banchieri, questo riposizionamento unito all’aumento di capitale per ripulire la banca dei debiti prelude alla integrazione con SocGén. Se così fosse si chiuderebbe il cerchio sulla “francesizzazione” del sistema finanziario italiano. Unicredit è primo azionista di Mediobanca, una volta stanza di compensazione del nostro capitalismo, oggi banca d’affari con alcune residue partecipazioni strategiche in portafoglio tra cui il 13 per cento di Generali, presieduta dal francese Philippe Donnet, che a sua volta ha circa 70 miliardi di titoli di stato in pancia. Acquisendo Unicredit, dunque, SocGén – che è già il secondo azionista a Trieste – arriverebbe in un colpo solo al controllo della prima banca d’affari e della prima compagnia assicurativa italiane.

Cosa farebbero a Parigi se Unicredit scalasse la seconda banca francese puntando alla prima compagnia assicurativa d’oltralpe?

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