L'ambasciatore americano a Roma, John Philips (foto LaPresse)

Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi

Il caso John Phillips, l'ambasciatore mai stato diplomatico, e la replica di Mattarella

Mario Sechi
Il rappresentante degli Stati Uniti in Italia non è nuovo a uscite come quella sul referendum costituzionale (in cui ha detto che Washington appoggia il Sì). E alla fine il Capo dello stato ricorda a tutti che la sovranità appartiene al popolo. Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
    Festa della esaltazione della Santa Croce.

     

    Titoli. John è un vispo signore che ha coronato un sogno della sua vita, diventare ambasciatore nel paese dei suoi avi. Si chiamavano Filippi, i suoi nonni partiti dall’Italia, ma il cognome fu americanizzato in Phillips. Le nostre migrazioni. Il nipotino John crebbe lesto e tosto a Leechburg, in Pennsylvania, in mezzo all’acciaio, le fonderie, il gas, il cemento e il carbone, tutto quello che insieme alla ferrovia ha edificato quel luogo chiamato America. John crebbe in fretta, si diplomò nel 1960 alla Leechburg High School, conseguì la laurea in Legge alla Notre Dame University e la specializzazione alla Berkeley Law School nel 1966. Il bravo studente si fece uomo, lavorò in uno studio legale per due anni, poi divenne fabbro di se stesso e fondò un suo studio attivo nelle materie di pubblico interesse, il Center for Law in the Public Interest (CLIPI) di Los Angeles. Così John divenne il paladino dei diritti delle minoranze, dei consumatori, il Robin Hood che recuperava le somme che i felloni rubavano dallo Stato. Mancava la targa con il suo nome all’ingresso, arrivò anche quella, John costituì il suo studio legale privato, sede prima a Los Angeles e poi a Washington: Phillips & Cohen LLP, i principi dei whistleblower. Una carriera perfetta, finché…. Arrivò l’èra di Barack Obama, John vide in quel presidente l’incarnazione dei suoi ideali di libertà e giustizia, finanziò la campagna presidenziale. E nel 2013 il sogno divenne realtà: il Presidente nominò John ambasciatore degli Stati Uniti in Italia. John arrivò infiammato dall’alta missione. E che fiamme. Phillips provò a entrare nel ruolo del Fellini, ma la sua regìa si rivelò, irruenta, priva di esprit de finesse, destinata ad alimentare un mito: l’ambasciatore gaffeur.  Tanto la moglie Linda Douglass, una giornalista, fu perfetta nella sua eleganza e sorridente acutezza, quanto lui, John, fu sempre più accigliato e privo di tatto. Il suo iniziale silenzio mutò in surreale loquacità. Disse candidamente in un’intervista al Corriere della Sera che gli Stati Uniti si aspettavano l’invio di cinquemila soldati italiani in Libia. Creò imbarazzo nel governo e scatenò la furia delle opposizioni. Non seppe cogliere, l’americano a Roma, il fatto storico di un paese che non fa mai la guerra, anche quando la fa. Disse che “la vittoria del Sì sarebbe una speranza per l’Italia, mentre se vincesse il No sarebbe un passo indietro” e accelerò la corsa dell’autoscontro politico sul referendum costituzionale. Non afferrò, lui, discendente di una famiglia italiana, l’innamorato di Firenze, l’essenza corrosiva della lotta tra guelfi e ghibellini, fratricida, ma giammai con il piede straniero in casa. John disse la verità, ma la prima dote di un ambasciatore è quella di saper parlare bene in privato e saper tacere benissimo in pubblico. Fu una parabola obamiana. Quella del grande avvocato che coronò il suo sogno italiano, fu ambasciatore, ma non fu mai un diplomatico, John Phillips.

     

    Così finisce la storia. E i titoli dei giornali sono tutti per lui: “Referendum, un caso il Sì Usa” (Corriere della Sera); “Referendum, il Sì Usa è un caso” (Il Messaggero); “Assist americano a Renzi” (Carlino-Nazione-Giorno); “Gli Usa con Renzi. Sì al referendum. Esplode lo scontro” (Repubblica); “Referendum, il sì Usa diventa un caso” (La Stampa); “Gli Usa bombardano il No” (Il Fatto Quotidiano); “Obama invade l’Italia e si inventa un sì per salvare Renzi e c.” (Il Giornale). L’ambasciatore ha fatto strike. Forse voleva dare una mano Renzi, senza forse gli ha procurato un problema. E’ l’Italia, non è l’America.

     

    Mattarella il referendum e l’ambasciatore americano. Il capo dello Stato, in visita in Bulgaria, fa il lavoro che non ha fatto Phillips, usa la diplomazia. Il mondo è sempre più interconnesso, è chiaro che quello che avviene in un paese importante interessi gli altri paesi. Ma "questa considerazione non muta in nulla il fatto che la sovranità sia demandata agli elettori".

     

    L’America di Hillary e Obama e quella di Trump. I democratici per ora corrono con il candidato assente, Obama si spende per la Clinton, è stata aperta un’indagine sulla fondazione di Trump, l’hacker Guccifer ha rilasciato un megafile di email della direzione nazionale dei democratici. Il copione è quello di una durissima campagna presidenziale dove la malattia di Hillary è un punto di svolta. Polmonite, ma sui giornali sta uscendo di tutto, Tim Kaine scalda i motori, c’è chi evoca il Parkinson e l’incubo di Hillary che sviene durante il confronto televisivo con Trump. E’ un logoramento politico che sembra inarrestabile. Non cambieranno candidato (forse), ma hanno perso tempo e terreno. Il cambio di strategia di The Donald si vede e ha spiazzato tutti: nessun accenno al male della Clinton, una serie di spot per stigmatizzare le sue parole sugli elettori di Trump, “miserabili”. I segnali non mancano, Ivanka Trump ha pubblicato un articolo sul Wall Street Journal, il margine di vantaggio della Clinton anche negli stati chiave si sta assottigliando. Trump ora punta sul voto delle donne (che amano la Clinton decisamente meno di quanto raccontino i giornali), cerca voti al centro, quelli che gli mancano per fare il sorpasso, e la notizia tra qualche giorno potrebbe essere che forse li trova. Qual è l’America? E’ quella di Hillary e Obama? O è quella di Trump?

     

    Libia Felix. Il governo di Tobruk ha nominato il responsabile della sicurezza nella Mezzaluna petrolifera. Il governo Serraj non ha ancora reagito, il capo del governo ha detto che non vuole un intervento delle truppe straniere nelle strutture conquistate dalle truppe del generale Haftar. Né straniere né libiche. Se il problema è Haftar, bisogna mettersi d’accordo con Haftar.

     

    Europa. Juncker e lo stato dell’Unione. Atteso discorso al Parlamento europeo. Flash: “Brexit non minaccia l’Unione”; “ll patto di stabilità non deve ostacolare la crescita ma non diventi patto di flessibilità”; “Troppa disoccupazione, serve un’Europa sociale”; “Raddoppiare il piano degli investimenti entro il 2022”; “Istituiremo un fondo per la difesa comune”. Tutte cose ragionevoli, i prossimi mesi diranno se diventeranno fatti politici concreti.

     

    Agenda Renzi. Il presidente del Consiglio continua il suo giro d’Italia, oggi è in Piemonte. Ecco l’agenda: Ore 9: Scuola “San Giovanni Bosco” di Bagnolo Piemonte; Ore 10: Stabilimento “Ferrero” di Alba; Ore 11.50: Nuovo Polo scolastico di Mondovì Piazza; Ore 13: Azienda agricola “La Granda” di Genola; Ore 14.30: Stabilimento “Venchi” di Castelletto Stura; Ore 15.30: Stabilimento “Merlo” di Cervasca; Ore 17: Iniziativa pubblica presso il teatro Toselli di Cuneo.

     

    14 settembre. Nel 1812 l’esercito russo dà a fuoco a Mosca per impedirne la conquista da parte delle truppe di Napoleone. Comincia la terribile avventura della Grande Armée in Russia. E finirà con vittoria del Generale Inverno.