Torrenti, strade sterrate e fotografie che diventano pensieri improvvisi

Luca Fiore

“Driftless”, un libro di Jason Vaughn e Brad Zellar

L’incipit di Driftless, il libro di fotografie che Jason Vaughn ha realizzato con il giornalista e scrittore Brad Zellar, sembra rubato da un libro di Raymond Carver. Zellar racconta che un giorno impostò il suo Gps per raggiungere un torrente ricco di trote, ma si ritrovò in mezzo a un altopiano senza alberi, dove la strada finiva davanti a una roulotte, dimora di un vecchio che disse di abitare lì da una vita. Alla domanda su dove fosse il torrente, l’uomo rispose che ogni anno una manciata di persone arrivava lì perché si era persa: “Anche i software meravigliosi si confondono quando arrivano su queste strade sterrate”. L’uomo mostrò al pescatore smarrito che proprio dietro alla roulotte il terreno precipitava improvvisamente in un ripido pendio coperto da un bosco fitto: lì si trovavano le trote che cercava. Dopo aver dato una lunga serie di indicazioni per raggiungere il torrente, mentre Zellar era già sull’auto, il vecchio disse: “Non c’è un cazzo di nessuno che sa dove mi trovo, a parte le persone che non sanno dove diavolo siano finite”.

 

Il libro, pubblicato dall’editore indipendente americano Tbw Books, propone le immagini realizzate da Vaughn durante un periodo molto particolare della sua vita. Appena uscito dall’incubo del cancro e in attesa della nascita del suo secondo figlio, il fotografo affitta un appartamento vicino al Mississippi, dove abita per un anno. La zona dove si trova si chiama “Dritfless area”, una regione a sud-ovest del Wisconsin, risparmiata dall’ultima glaciazione, caratterizzata da un terreno particolarmente accidentato, perché priva di residui del ritiro dei ghiacciai (in inglese “drift”). Il verbo “to drift”, però, significa anche “vagare, andare alla deriva”. Le immagini scattate durante le passeggiate quotidiane in questa piccola località del Midwest cercano di individuare “il processo attraverso il quale le persone vagano in uno spazio, a volte decidendo di fermarsi, magari per sempre, altre volte svincolandosi e spostandosi altrove”.

 

Colore e bianco e nero si alternano in un racconto poetico e antiretorico a cui fanno da contrappunto le didascalie non didascaliche di Zellar. Un nido tra i rami. Diversi tipi di riflessi sulla superficie dell’acqua di un torrente, ragnatele di rami, un cespuglio di ortensie in diversi momenti dell’anno. Un giovane che cammina. Un adulto che cammina. Un vecchio che cammina. Una cascata di ghiaccio. Stormi di uccelli neri. Sono fotografie che, molto lentamente – occorre avere pazienza – diventano metafore, pensieri improvvisi. Si aprono e si chiudono in uno sbuffo di fisarmonica, che alterna epifanie a enigmi.

Scrive Zellar accanto all’immagine di uno scorcio di lago gelato, la cui superficie increspata è illuminata da un raggio di luce: “Qualcuno potrebbe semplicemente lasciare al più presto i pezzi del puzzle sparsi sul tavolo”. Accanto a dei rami illuminati nella notte da un colpo di flash: “La voce di un altro straniero esausto: ‘Ci sono così tante ragioni’”. O altrove: “Nessuno si muove e nessuno si ferisce. ‘Oh, il panico della pietra fredda di mai…”.

L’ultima fotografia mostra una lastra di ghiaccio che galleggia sull’acqua, su cui si trova un grosso sasso che sembra sospeso sul pelo dell’acqua. Nella pagina a sinistra dell’immagine c’è scritto: “Siamo vivi. Stiamo bruciando. Siamo biblioteche in fiamme”. Sotto la foto, invece, con l’italiano degli spartiti di musica: “Con fuoco, con brio. Deciso”.

Il libro si chiude con tre citazioni. Una del poeta americano Robert Hass, una di Samuel Beckett e una di Sophie Scholl, dissidente tedesca uccisa dai nazisti nel 1943, a 22 anni. Quest’ultima recita: “Una piccola candela brucia esattamente come una torcia fiammante”.

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