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La letteratura italiana, così figlia delle traduzioni e così straniera a se stessa

Alfonso Berardinelli

Il saggio innovativo di Michele Sisto sull’influenza dei libri

Prendo come occasione e pretesto l’uscita del libro di Michele Sisto Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia (Quodlibet, pp. 317, euro 22) per fare qualche considerazione personale e autobiografica sul tema. Si sa (ma ci si riflette poco) che soprattutto nel Novecento, e in particolare nella sua seconda metà, la letteratura italiana è stata italiana solo in parte e la formazione di studiosi, scrittori e critici ha avuto come fondamenta soprattutto autori e libri tradotti. Il rapporto reciproco riguarda naturalmente tutte le letterature, anche se fra queste ce ne sono alcune che hanno svolto un ruolo maggiore e decisivo nei confronti delle altre, esercitando un’egemonia che ha avuto effetti positivi di impulso creativo e altri negativi di un eccesso conformistico di dipendenza.

 

Il libro di Sisto si apre con queste parole: “La storia della letteratura italiana – come altre storiografie nazionali – assume come proprio oggetto di indagine un corpus selezionato di testi prodotti sul territorio italiano da autori italiani in lingua italiana. Non prende invece in considerazione un altro corpus molto vasto, anch’esso in lingua italiana: la letteratura tradotta”. Questo limite, così evidente e così trascurato, provoca una serie di vuoti e di deformazioni soprattutto perché trascura che molti autori, anche classici, devono molto alle traduzioni di scrittori stranieri e a volte dipendono fondamentalmente da quelle traduzioni. Non si tiene conto, dice Sisto, “dell’effettivo ruolo dei circuiti nazionali nella circolazione transnazionale della letteratura. Il risultato è che l’enorme corpus della letteratura tradotta non ha nessuna cittadinanza in nessun territorio di studi”. Quali studiosi si sono occupati e si occupano dell’influenza esercitata in contesti letterari di vari paesi della traduzione del Don Chisciotte, del Faust, della Ricerca del tempo perduto? Il libro di Sisto si propone come un primo tentativo di rimediare a questa mancanza, studiando da germanista alcuni episodi dell’impatto che hanno avuto nel campo della nostra letteratura le traduzioni dal tedesco fra Otto e Novecento. Ma l’invito che l’autore rivolge ai suoi lettori è di allargare il territorio esplorabile, guardando per esempio all’influenza di Amleto, del romanzo russo, di quello americano o della poesia simbolista francese.

 

È un fenomeno che ha riguardato noi italiani in modo particolare. Le svolte più radicali avvenute nella nostra letteratura nell’Ottocento e nel Novecento sono state provocate più dalle suggestioni e dall’esempio di scrittori stranieri, tradotti o meno, che dal passato letterario italiano. La cosa è anche troppo chiara se si pensa al romanzo. Senza l’influenza di Goethe e di Sterne, la narrativa di Foscolo non sarebbe nata e senza la lettura dei romanzi storici di Walter Scott non sarebbe venuto in mente a Manzoni di scrivere I Promessi Sposi. Il più grande narratore del secondo Ottocento, Giovanni Verga, nasce direttamente dal romanzo realista e naturalista francese e senza le influenze francesi, tedesche e russe sarebbero inconcepibili Svevo, Pirandello e D’Annunzio. La Francia, del resto, ha continuato a dominare e a orientare diverse letterature europee almeno fino al 1945: prima con Valéry, Apollinaire, Proust e Gide, poi con Sartre e Camus, infine, fino a ieri, con strutturalisti e poststrutturalisti come Barthes, Foucault, Derrida.

 

Essendo cresciuto e avendo cominciato a fare letture serie tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, la mia scoperta della letteratura, come quella di moltissimi coetanei, ha quasi del tutto escluso all’inizio la letteratura italiana. Una famosa e benemerita collana tascabile di classici, la Biblioteca Universale Rizzoli o BUR, ci invitava a esplorare le letterature europee classiche e moderne, da Shakespeare a Cechov, da Poe a Gogol. Da liceale cominciai a trovare davvero interessanti Virgilio e Dante solo dopo aver letto i saggi che T.S. Eliot aveva scritto su di loro. I romanzieri erano per me solo russi o americani (la triade Hemingway, Fitzgerald, Faulkner), degli italiani salvavo solo Svevo e Moravia, per la naturalezza antiletteraria della loro lingua. Cominciai a diffidare della critica francese quando cominciai a leggere quella tedesca (soprattutto Mimesis di Auerbach) e quella americana (Edmund Wilson e Lionel Trilling). Leggendo Auden e William Carlos Williams mi liberai del simbolismo e dell’ermetismo. Enzensberger mi fece capire i limiti avanguardistici di Sanguineti e George Steiner i limiti tecnicistici degli strutturalisti. Con il passare del tempo capii meglio la letteratura italiana e anche il fatto che l’eccesso di influenze straniere aveva notevolmente “alienato” noi italiani, per esempio creando autorevoli professori di Letterature comparate che di letteratura italiana non sapevano niente. I nostri attuali narratori non hanno più rapporti con la tradizione della prosa italiana: lo ha spiegato recentemente Giorgio Ficara in un libro intitolato Lettere non italiane. In questo, siamo italianissimi provinciali, ma non lo sappiamo, non abbiamo fiducia in noi stessi e ci crediamo cosmopoliti ipermoderni.

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