Cromorama

Enrico Pitzianti

Riccardo Falcinelli
Einaudi, 472 pp., 24 euro

Pensiamo ai colori con un approccio scientista, dal codice identificativo della catalogazione Pantone al numero esorbitante di sfumature riproducibili dagli schermi che utilizziamo quotidianamente. Nonostante ciò, il colore è necessariamente, ancora oggi, un affare culturale e interpretativo. L’illusione della completa oggettivazione del colore ha radici lontane: sin dalla cosiddetta “Newton-mania” che vide la moda, nei salotti settecenteschi, di possedere prismi attraverso cui “dividere” la luce nello spettro cromatico, o ancora la diffusione di testi come Newtonianismo per le dame, anch’esso un must-have del Diciottesimo secolo. Eppure l’ontologia della gamma cromatica, che oggi ci pare fondarsi esclusivamente su una solida realtà oggettiva, nasconde la malleabilità dell’universo della percezione umana, e quindi anche della cultura in cui essa è irrevocabilmente immersa.

Perché venga a galla l’importanza della questione interpretativa basterebbe riflettere sul fatto che alcune lingue hanno dieci parole per descrivere lo spettro cromatico, altre quattro, altre ancora, come il Pomo, solo tre. Questa “relatività interpretativa” ricade nell’assunto che il mondo, così come lo osserviamo dall’interno dei nostri sensi, è necessariamente dipendente dalla finitezza dei sensi stessi. E’ tra le infinite sfaccettature di questo margine incolmabile tra mondo naturale e mondo percepito che indaga Riccardo Falcinelli col suo Cromorama. Un saggio che, dal “porpora simbolico” al “beige coloniale”, narra le vicende storiche che hanno determinato la nostra visione estetica, con tanto di spiegazioni del perché le matite sono gialle (e vendono più di quelle di qualsiasi altro colore) e di decostruzioni di problemi come il daltonismo, in fondo nient’altro che una scomodità derivante dall’avvento delle varietà cromatiche diffuse in epoca industriale, visto che prima di allora la quotidianità non offriva gamme sufficientemente diffuse da far percepire il difetto.

Colpisce la vicenda che lega la figura di Giuda al giallo, con una tradizione iniziata nel Dodicesimo secolo che fa significare al giallo la falsità, in nome della menzogna dell’imitazione delle qualità morali dell’oro. Un Giuda da contrapporre a Cristo, che invece, nell’arte, non si identifica con un colore, ma nonostante questo la committenza spesso insisteva perché il Signore venisse vestito col colore più prezioso disponibile all’epoca, il blu di lapislazzulo. E’ la funzione dei colori che guida Falcinelli nella sua disamina, e si ha la sensazione di leggere nel cuore semiologico del testo quando si scopre che l’arbitrarietà dei colori non fosse concepibile in epoca medievale. Infatti, se oggi ci appare normale che il semaforo rosso significhi arbitrariamente “stop”, l’antichità voleva il rosso pregno di un senso stabilito da potenze trascendenti gli accordi umani, senza alcuno spazio per le convenzioni.

Si apprende del prestigio e della maestà del porpora, oggi spogliato di tali significati tanto che neppure Elisabetta II deve necessariamente indossarlo. Fino ai veri e propri “misteri del colore”, come quello del nero di mummia, una polvere ricavata, per l’appunto, dalle mummie, e ambita al punto che si narra di un Tintoretto disposto a pagarla più che il lapislazzulo per via della convinzione che un tale prodotto potesse penetrare nel dipinto fino a rendere immortale la fama dell’autore. Stessa convinzione che pervadeva il più grande teorico dell’arte del Cinquecento, Giovanni Paolo Lomazzo, convinto che la polvere di mummia fosse ideale per la pittura delle ombre del Cristo.

 

CROMORAMA
Riccardo Falcinelli
Einaudi, 472 pp., 24 euro

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