Io sono vivo e tu non mi senti

Francesca Pellas

Daniel Arsand
Codice, 268 pp., 19 euro

Dopo quattro anni passati a morire da vivi ci si sorprende di tutto, persino di possedere “ancora sangue, pensieri, pelle”, di camminare riuscendo a stare in piedi anche se ci si sente un insieme di macerie come la città bombardata a cui si fa ritorno. A tornare a Lipsia dopo il nazismo e le bombe, in Io sono vivo e tu non mi senti di Daniel Arsand (Codice), è Klaus Hirschkuh, deportato a Buchenwald per omosessualità. Una colpa da cui non l’ha salvato nemmeno il suo essere ariano, e che nel campo ha scontato a suon di botte e stupri. “Un righello di ferro nel culo” al momento dell’arresto e poi per quattro anni le violenze di tutti, guardie e prigionieri. A lui è andata meglio che ad altri: a Tony, “checca francese”, hanno cavato un dente al giorno, e quando sono finiti i denti gli hanno strappato gli occhi con una forchetta (“tenetela ben ferma questa troia sifilitica”).
Se Klaus è rimasto vivo è perché ha riempito il vuoto con una sofferenza per lui ancora più grande: il ragazzo che amava si è ucciso gettandosi da una finestra per sfuggire alla Gestapo. E ora che Klaus è tornato, non fa che ricordare: osserva la distruzione di Lipsia dicendosi che quella è la stessa città dov’è stato innamorato, e passa il tempo a collocare la morte di Heinz nella sua esistenza perché questa la contenga (“aveva amato una creatura e ora amava quel morto”). Lo chiama: “Dove sei, Heinz?”. Chiama l’essere umano con cui ha conosciuto la gioia, incredulo al pensiero che non possa sentirlo: “Ti hanno seppellito, dove? Dove sei, amore mio? Come faccio a mescolarti al silenzio? Heinz, mi senti? Io sono vivo e tu non mi senti”.

Daniel Arsand, che è scrittore, editore (a Phébus) e Cavaliere delle Arti e delle Lettere della Repubblica francese, ha scritto questo romanzo nell’arco di una vita. Il personaggio di Klaus è un omaggio ai prigionieri dei campi di cui si parla meno: i quindicimila omosessuali arrestati, torturati, ammazzati dal regime di Hitler. Arsand racconta con parole crude – merda, piscio, culo – e una scrittura in certi punti così bella da sembrare un canto (e in tutto questo la traduzione di Sara Prencipe è da applausi: segue il volo di Arsand in modo impeccabile, vola anche lei). In un flusso di coscienza senza pace ci mostra prima il ritorno a casa di Klaus, da una famiglia che gli vuol bene ma se ne vergogna, e poi, lentamente, una rinascita. Con fatica Klaus si risolleva, torna a “camminare spedito, possessore di vento”, a stupirsi di un futuro che dal campo sembrava un’idea inaccessibile e ora invece esiste, e lo vede diventare sarto, trasferirsi a Parigi, incontrare un altro amore, stupore massimo: Julien, dono insperato, che diventerà il suo compagno di vita.
I decenni passano veloci, arrivano l’Aids, discriminazioni nuove, altro odio, e un giorno Julien viene picchiato quasi a morte in quanto gay: gli insulti e le botte “attraversano i secoli, i campi e le città, le campagne e gli oceani, immortali, diversi e identici, lo stesso senso, lo stesso odio”. Nel 1989, durante la Giornata della deportazione, a Parigi viene impedito ai sopravvissuti omosessuali di partecipare. “La loro presenza corrompeva l’immagine dei morti. Fu dichiarato ancora una volta che nei campi non c’erano stati omosessuali”. Allora Klaus si trasforma in drago: non è più la “cagna Hirschkuh” del campo, ma un drago furioso, vivo nonostante le morti che ha attraversato. Io sono vivo, dovete sentire tutti. “Celebro la memoria dei deportati omosessuali”, scrive Arsand nella postfazione. “Nessuno di loro è più tra noi. Sta a noi continuare a protestare e indignarci”.

 

IO SONO VIVO E TU NON MI SENTI
Daniel Arsand
Codice, 268 pp., 19 euro

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